Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6396 del 09/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 09/03/2021, (ud. 24/11/2020, dep. 09/03/2021), n.6396

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. FICHERA Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 17216/2010 R.G. proposto da:

kr. Industrieanlagenbau kg, (C.F. (OMISSIS)), in persona del

legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli

avv.ti Peter Platter e Luigi Manzi, elettivamente domiciliata presso

lo studio di quest’ultimo, in Roma via Federico Confalonieri 5.

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, (C.F. (OMISSIS)), in persona del direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’avvocatura generale delle

Stato, elettivamente domiciliata presso i suoi uffici, in Roma via

dei Portoghesi 12.

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 27/02/2009 della Commissione Tributaria

Secondo Grado di Bolzano, depositata il giorno 11 maggio 2009.

Sentita la relazione svolta all’udienza del 24 novembre 2020 dal

Consigliere Giuseppe Fichera.

Udite le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale Giovanni

Giacalone, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Uditi l’avv. Gianluca Calderara, in sostituzione dell’avv. Luigi

Manzi, per la ricorrente e l’avv. Gianna Galluzzo per la

controricorrente.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La kr. Industrieanlagenbau KG (di seguito breviter Kr.) impugnò tre avvisi di accertamento notificati dall’Agenzia delle Entrate, con i quali vennero ripresi a tassazione i maggiori redditi ai fini IRPEG, IRAP ed IVA, conseguiti durante gli anni 1998, 1999 e 2000.

In primo grado il ricorso venne solo parzialmente accolto, con l’annullamento delle sanzioni irrogate per l’omesso versamento dell’IVA; proposto appello dalla Kr., con sentenza depositata il giorno 11 maggio 2009, la Commissione Tributaria di Secondo Grado di Bolzano lo respinse.

Avverso la detta sentenza, Kr. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi, cui resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Fissata una prima udienza pubblica, la ricorrente ha depositato istanza di sospensione del giudizio, ai sensi del D.L. 24 aprile 2017, n. 50, art. 11 convertito con modificazioni dalla L. 21 giugno 2017, n. 96, sicchè la causa è stata rinviata a nuovo ruolo.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente Kr. lamenta la violazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56 e della L. 21 luglio 2000, n. 212, art. 7 nonchè vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), poichè la commissione tributaria di secondo grado ha ritenuto legittimo uno degli avvisi impugnati – quello relativo all’anno 1998 -, nonostante difettasse di qualsivoglia indicazione del presupposto di fatto, cioè l’esistenza di un “centro di attività stabile” in Italia, il quale avrebbe giustificato l’assoggettamento ad IVA delle operazioni commerciali poste in essere dalla contribuente nella detta annualità.

1.1. Il motivo è inammissibile, perchè il quesito di diritto risulta formulato in maniera inadeguata.

E invero, secondo le Sezioni Unite di questa Corte, il quesito di diritto ai sensi dell’ormai abrogato art. 366-bis c.p.c. – qui ancora applicabile ratione temporis, essendo stata la sentenza impugnata pronunciata prima dell’entrata in vigore della L. 18 giugno 2009, n. 69 – deve essere formulato in termini tali da costituire una sintesi logico-giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di enunciare una regula iuris suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata. Ne consegue che è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione, ponendosi in violazione di quanto prescritto dal citato art. 366-bis, si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie (Cass. S.U., 30/10/2008, n. 26020).

1.2. Il motivo è comunque privo di fondamento, essendo pacifico in lite che la società ricorrente cominciò a svolgere la propria attività di fornitura e posa in opera di impianti industriali in Italia, a partire dal giugno del 1998, il giudice di merito, con motivazione ineccepibile, ha ritenuto che gli stessi elementi di fatto valorizzati in sede di accertamento per ritenere esistente un centro di attività stabile nel territorio italiano negli anni successivi, cioè nel 1999 e nel 2000, fossero utilizzabili anche in riferimento alla prima annualità.

2. Con il secondo motivo eccepisce di nuovo la violazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56 e della L. 21 luglio 2000, n. 212, art. 7 nonchè vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), poichè il giudice di merito ha ritenuto sufficiente la prova dell’esistenza di una “stabile organizzazione” in Italia, anzichè quella di un “centro di attività stabile”, al fine di ritenere dovuta l’IVA non versata dalla ricorrente.

3. Con il terzo motivo deduce la violazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 4, 7, 17 e 21, dell’art. 9, par. 1, della Sesta direttiva del Consiglio n. 77/388/CEE, nonchè vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), considerato che la sentenza impugnata ha erroneamente equiparato, per l’accertamento ai fini IVA, la “stabile organizzazione” al “centro di attività stabile”.

4. Anche con il quinto motivo contesta la violazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, artt. 17 e 56, della L. 22 luglio 2000, n. 212, art. 7 nonchè vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), atteso che il giudice di merito ha ritenuto legittimi gli avvisi di accertamento impugnati, nonostante non emergessero dagli atti i presupposti che potessero giustificare l’esistenza di una “stabile organizzazione” in Italia.

4.1. I tre motivi, chiaramente connessi per l’oggetto, possono essere trattati congiuntamente e sono tutti inammissibili per l’inadeguata stesura del relativo quesito di diritto e del momento di sintesi, e, comunque, privi di fondamento.

E’ noto che quando si discorre di IVA, per la definizione di “stabile organizzazione” occorre tener conto del concetto di “centro di attività stabile”, di cui all’art. 9, comma 1, della c.d. Sesta direttiva, n. 77/388/CEE, come interpretato dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, per la quale è necessario che tale centro di attività presenti un grado sufficiente di stabilità ed una struttura idonea a rendere possibile lo svolgimento autonomo delle relative operazioni (da ultimo, Cass. 18/05/2018, n. 12237).

Nel caso che ci occupa, è all’evidenza come la commissione tributaria di secondo grado abbia ritenuto che le attività commerciali intraprese in Italia a partire dal giugno del 1998 dalla odierna ricorrente, configuravano “sicuramente una “stabile organizzazione”, e per di più rappresenta anche un “centro di attività stabile”, come è previsto dalla Direttiva del 17.05.1977, N. 77/388″.

4.2. Dunque, nessuna violazione della disciplina surrichiamata è seriamente prospettabile, avendo avuto il giudice di merito ben chiara la distinzione tra l’una (“la stabile organizzazione”) e l’altro (“il centro di attività stabile”), giungendo alla sicura conclusione che la ricorrente avesse istituto in Italia esattamente il secondo.

Nè è consentito in questa sede rimettere in discussione l’accertamento in fatto, congruamente motivato e privo di contraddizione di sorta, operato dal giudice di merito, il quale ha ritenuto che, dedicandosi all’attività di fornitura e installazione di impianti industriali e mantenendo sui luoghi una precisa organizzazione, comprensiva del proprio personale, a partire dal 1998 la Kr. avesse costituito un centro di attività stabile all’interno del territorio nazionale.

5. Con il quarto motivo lamenta ancora un vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), atteso che la commissione tributaria di secondo grado ha ritenuto, erroneamente, che in concreto i committenti non avessero curato gli adempimenti IVA, nè che il meccanismo dell’inversione contabile potesse trovare applicazione in astratto nella fattispecie all’esame.

5.1. Il motivo è manifestamente inammissibile, perchè non coglie la ratio decidendi posta a fondamento della motivazione impugnata.

E’ noto che nel sistema dell’inversione contabile (denominato pure reverse charge), gli obblighi per le operazioni soggette ad IVA, di cessione di beni e prestazioni di servizi rese nel territorio dello Stato da soggetti residenti all’estero, privi di stabile organizzazione in Italia e di rappresentante fiscale ai fini IVA, in favore di soggetti residenti nello Stato, incombono sui cessionari o i committenti che non siano consumatori finali (Cass. 23/10/2013, n. 24022).

Nel caso che ci occupa, tuttavia, per le ragioni ampiamente esposte nella sentenza impugnata, il giudice di merito ha ritenuto che vi fosse in Italia una stabile organizzazione della ricorrente, rectius un centro di attività stabile; dunque, non può trovare di sicuro applicazione la disciplina dell’inversione contabile e, per l’effetto, era preciso onere della contribuente – per sottrarsi al rischio paventato di una doppia imposizione – dimostrare che comunque gli obblighi IVA erano stati già assolti, in luogo dell’appaltatore effettivamente obbligato, dai terzi committenti.

6. Con il sesto motivo torna a denunciare un vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), poichè la commissione tributaria di secondo grado avrebbe omesso di pronunciare sulla natura intracomunitaria delle forniture effettuate dalla ricorrente, la quale giustificava di per sè l’applicazione del regime dell’inversione contabile.

6.1. Il motivo è inammissibile, per carenza di interesse.

A differenza di quanto affermato dalla ricorrente, la censura relativa alla natura intracomunitaria delle forniture, risulta sollevata per la prima volta nel presente giudizio soltanto in grado di appello, difettando nel ricorso anche solo l’indicazione dell’atto in cui sarebbe stata formulata l’eccezione; trattandosi dunque di un motivo nuovo, radicalmente inammissibile in sede di gravame, ii giudice d’appello non aveva certo l’onere di pronunciarsi sullo stesso.

7. Le spese seguono la soccombenza.

PQM

Respinge il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore della controricorrente, liquidate in complessivi Euro 13.000,00, oltre alle spese anticipate a debito.

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2021

 

 

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