Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6384 del 13/03/2017


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Cassazione civile, sez. I, 13/03/2017, (ud. 11/01/2017, dep.13/03/2017),  n. 6384

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPPI Aniello – Presidente –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 16966/2008 R.G. proposto da:

Fallimento della (OMISSIS) S.r.l., in persona del curatore p.t. dott.

I.D., rappresentato e difeso dall’Avv. Mario Zema del foro

di Reggio Calabria, unitamente all’avv. Natale Polimeni, con

domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, vicolo

del Casal Lom-broso, n. 82;

– ricorrente –

contro

Unicredito Italiano S.p.a., in persona dei legali rappresentanti p.t.

V.M. e T.M.P., in qualità di avente causa

da Capitalia S.p.a., rappresentata e difesa dall’Avv. Massimo

Pagliari, con domicilio eletto in Roma, via G. Pierluigi da

Palestrina, n. 19;

– controricorrente –

e

Unicredit Credit Management Bank S.p.a. (già Unicredito Gestione

Crediti S.p.a.), in persona del legale rappresentante p.t.

N.E., in qualità di mandataria della Unicredito Italiano S.p.a.,

rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Piero Guido Alpa, con

domicilio eletto in Roma, piazza B. Cairoli, n. 6;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Reggio Calabria

depositata il 27 aprile 2007.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza dell’Il gennaio 2017

dal Consigliere Guido Mercolino;

uditi gli Avv. Natale Polimeni e Mario Zema;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Salvato Luigi, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del

ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Banca di Roma S.p.a. propose opposizione avverso lo stato passivo del fallimento della (OMISSIS) S.r.l., chiedendo l’ammissione al passivo di un credito di Lire 324.952.594, pari al saldo debitore di due conti correnti intestati alla società fallita, e comprensivo d’interessi calcolati alla data della dichiarazione di fallimento.

1.1. Con sentenza del 2 febbraio 2004, il Tribunale di Reggio Calabria rigettò la domanda.

2. L’impugnazione proposta dalla Capitalia S.p.a., succeduta alla Banca di Roma, è stata accolta dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, che con sentenza del 27 aprile 2007 ha ammesso al passivo l’appellante per l’importo complessivo di Euro 85.873,76.

A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto inutile procedere, mediante rinnovazione della c.t.u. espletata in primo grado, al ricalcolo dell’ammontare del credito con l’applicazione degl’interessi al tasso convenzionale e della capitalizzazione annuale o semestrale e con il riconoscimento delle spese bancarie, in quanto le clausole dei contratti di conto corrente che per la determinazione del tasso d’interesse ultralegale rinviavano alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito su piazza dovevano considerarsi nulle, e comunque inoperanti a decorrere dall’entrata in vigore della L. 17 febbraio 1992, n. 154, le clausole che prevedevano la capitalizzazione trimestrale degl’interessi si ponevano in contrasto con l’art. 1283 cod. civ., trovando fondamento in un uso negoziale, e la domanda di riconoscimento delle spese era stata proposta per la prima volta in appello.

Ha peraltro ritenuto che l’opponente potesse essere ammessa al passivo per la somma calcolata dal c.t.u., osservando che, nonostante l’inadeguata produzione degli estratti conto da parte della Banca, il consulente aveva risposto compiutamente ai quesiti postigli, avendo provveduto, mediante un apposito software, alla ricostruzione della situazione dei conti correnti per l’intero periodo contrattuale, sulla base della quale era pervenuto alla determinazione della sorta capitale dovuta per i periodi interessati e di quella definitiva risultante al momento del passaggio dei conti a sofferenza fino alla dichiarazione di fallimento, nonchè degl’interessi maturati senza alcuna capitalizzazione. Ha precisato che dagli estratti conto prodotti risultavano elementi sufficienti per consentire al c.t.u. di rispondere ai quesiti, in quanto quelli relativi al periodo successivo al passaggio a sofferenza riguardavano conti privi di reale movimentazione, mentre quelli relativi al breve periodo compreso tra il 9 ed il 30 aprile 1992 potevano essere agevolmente ricostruiti con adeguato software.

3. Avverso la predetta sentenza il curatore del fallimento ha proposto ricorso per cassazione, articolato in due motivi. Ha resistito con controricorso l’Unicredito Italiano S.p.a., succeduta alla Capitalia a seguito di fusione per incorporazione con atto per notaio M.P. del (OMISSIS), rep. n. (OMISSIS). Ha spiegato intervento nel giudizio l’Unicredit Credit Management Bank S.p.a., già Unicredito Gestione Crediti S.p.a., in qualità di procuratrice dell’Unicredito Italiano, in virtù di procura per notaio S.P. del (OMISSIS), rep. n. (OMISSIS).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, va disattesa l’eccezione d’inammissibilità del ricorso per cassazione, sollevata dalla difesa dell’Unicredito Italiano in relazione alla tardività dell’impugnazione, proposta, a suo avviso, dopo la scadenza del termine di cui all’art. 327 cod. proc. civ..

Si osserva al riguardo che la sentenza impugnata, non notificata, reca in calce due date diverse, l’una attestante il deposito in cancelleria, effettuato il 27 aprile 2007, e l’altra riguardante il compimento delle formalità di pubblicazione, avvenuto il 4 maggio 2007: poichè il ricorso è stato consegnato all’ufficiale giudiziario per la notifica il 13 giugno 2008, l’impugnazione dovrebbe essere considerata tempestiva o tardiva, a seconda che la decorrenza del termine annuale fosse ancorata alla seconda o alla prima data.

La tesi sostenuta dalla controricorrente trova conforto nel principio, enunciato dalle Sezioni Unite a composizione di un contrasto di giurisprudenza insorto tra le Sezioni semplici, secondo cui, a norma dell’art. 133 cod. proc. civ., il procedimento di pubblicazione della sentenza ha inizio con la consegna dell’originale completo del documento al cancelliere, nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata, e si compie, senza soluzione di continuità, con la certificazione del deposito mediante l’apposizione, in calce al documento, della data e della firma del cancelliere, che devono essere contemporanee alla data di consegna ufficiale della sentenza, in tal modo resa pubblica per effetto di legge. Alla stregua di tale principio, è stato escluso che il cancelliere, preposto alla tutela della fede pubblica nell’espletamento della predetta attività, possa attestare che la sentenza, già pubblicata alla data del deposito, è stata resa pubblica in data successiva, con la conseguenza che, ove sulla sentenza siano state apposte due diverse date, una di deposito, senza espressa specificazione che il documento contiene soltanto la minuta del provvedimento, e l’altra di pubblicazione, è dalla prima data che devono essere fatti decorrere tutti gli effetti giuridici derivanti dalla pubblicazione della sentenza (cfr. Cass., Sez. Un., 1/08/2012, n. 13794; Cass., Sez. 3, 4/04/2013, n. 8216).

Il predetto indirizzo, divenuto diritto vivente, ha suscitato dubbi di legittimità costituzionale, essendo stato ritenuto lesivo della pienezza e della certezza del diritto di difesa delle parti costituite in giudizio, in quanto idoneo a determinare una disparità di trattamento tra l’ipotesi in cui l’attività di mero deposito della sentenza e quella di effettiva pubblicazione della stessa risultino contestuali e quella in cui le due attività si scindano ed abbiano luogo in due momenti diversi, anche distanti tra loro. La questione di legittimità costituzionale dell’art. 133 c.p.c., commi 1 e 2 e art. 327 c.p.c., comma 1, nel testo anteriore alla modifica introdotta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 17, sollevata in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., è stata dichiara infondata dalla Corte costituzionale, la quale peraltro, pur evidenziando la gravità della patologia procedimentale connessa al tardivo adempimento delle operazioni previste dall’art. 133 cod. proc. civ. e la sua rilevante incidenza sulle situazioni giuridiche degli interessati, ha riconosciuto l’apprezzabilità delle preoccupazioni garantiste espresse dall’ordinanza di rimessione, e segnatamente dell’esigenza di ancorare la decorrenza del termine per l’impugnazione alla data di effettiva adozione delle misure volte a garantire la conoscibilità della sentenza e la possibilità di estrarne copia. In virtù di tali considerazioni, il Giudice delle leggi ha ritenuto che il ritardo nel compimento delle predette operazioni, attestato dalla diversità della data di pubblicazione, rendendo di fatto inoperante la dichiarazione dell’avvenuto deposito, possa giustificare il ricorso all’istituto della rimessione in termini per causa non imputabile, quale doveroso riconoscimento dell’esistenza di uno stato di fatto contra legem che, in quanto imputabile all’amministrazione giudiziaria, non può in alcun modo incidere sul diritto all’impugnazione (cfr. Corte cost., sent. n. 3 del 2015).

A seguito di tale pronuncia, si è manifestato tra le Sezioni semplici di questa Corte un ulteriore contrasto di giurisprudenza, riguardante la necessità della rimessione in termini e l’individuazione dei relativi presupposti. Sollecitate nuovamente ad intervenire, le Sezioni Unite hanno affermato che il momento di venuta ad esistenza della sentenza dev’essere identificato a tutti gli effetti, inclusa la decorrenza del termine lungo per l’impugnazione, con quello del deposito ufficiale in cancelleria, normalmente coincidente con la pubblicazione, che determina l’inserimento della sentenza nell’elenco cronologico e l’attribuzione del numero identificativo, con conseguente conoscibilità per gl’interessati. Qualora i predetti momenti risultino impropriamente scissi, per effetto dell’apposizione in calce alla sentenza di due diverse date, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione occorre pertanto accertare (attraverso istruttoria documentale, ovvero ricorrendo a presunzioni semplici, o infine alla regola di cui all’art. 2697 cod. civ., alla stregua della quale spetta all’impugnante provare la tempestività della propria impugnazione) il momento in cui la sentenza è divenuta conoscibile attraverso il deposito ufficiale in cancelleria ed il suo inserimento nell’elenco cronologico, con attribuzione del relativo numero identificativo (cfr. Cass., Sez. Un., 22/09/2016, n. 18569).

L’applicazione del predetto criterio comporta, nella specie, l’esclusione della tardività dell’impugnazione, avuto riguardo alla data di rilascio della copia della sentenza impugnata depositata unitamente al ricorso per cassazione (7 maggio 2007), che, in quanto coincidente con quella di registrazione del provvedimento e assai prossima a quella di pubblicazione (4 maggio 2007), consente di presumere che il compimento delle relative formalità, ivi compresi l’inserimento nello elenco cronologico e l’attribuzione del numero identificativo, abbia avuto luogo proprio in quest’ultima data, anzichè in quella del deposito in cancelleria, con la conseguenza che tale adempimento non può ritenersi idoneo a far decorrere il termine annuale per l’impugnazione.

2. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt. 61 e 115 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto provato il credito della Banca, nonostante la mancata produzione degli estratti conto completi relativi ai conti correnti intestati alla società fallita. Premesso che, proprio a causa della mancata produzione dei predetti documenti, il c.t.u. aveva segnalato l’impossibilità di ricostruire i movimenti dei conti correnti relativi al periodo anteriore al 30 aprile 1992 ed a quello posteriore al 23 dicembre 1993, nonchè di distinguere tra sorta capitale e competenze incluse nel saldo iniziale, sostiene che la prova del credito non poteva essere desunta dalla circostanza che il consulente aveva ugualmente risposto ai quesiti postigli: infatti, anche a voler ritenere che la consulenza potesse costituire fonte oggettiva di prova, in quanto l’accertamento dei fatti richiedeva il possesso di determinate cognizioni tecniche, le relative indagini non avevano fornito risultati apprezzabili sotto il profilo probatorio.

2.1. Le predette censure, riflettenti l’indispensabilità degli estratti conto ai fini della determinazione del saldo del conto corrente, nel caso in cui venga dichiarata la nullità delle clausole contrattuali che individuano il tasso d’interesse debitore mediante rinvio agli usi e prevedono la capitalizzazione degl’interessi, si concludono con la formulazione di un duplice quesito, con cui il ricorrente chiede di stabilire se alla mancata produzione dei predetti documenti da parte dell’attore possa sopperirsi mediante una c.t.u. Il carattere meramente ripetitivo dei due enunciati non nuoce peraltro alla chiarezza dell’interrogativo proposto, sostanzialmente identico, con la conseguenza che può escludersi la violazione dell’art. 366-bis cod. proc. civ., non ricollegabile neppure alla circostanza, fatta valere dalla difesa dell’Unicredito Italiano, che il quesito non risulti accompagnato da specifiche argomentazioni.

Questa Corte ha infatti escluso che la proposizione di un quesito di diritto enunciato in più punti comporti di per sè l’inammissibilità del motivo d’impugnazione, ove si tratti di più proposizioni intimamente connesse che, in quanto aventi una funzione unitaria sotto il profilo logico-giuridico, risultino complessivamente idonee a far comprendere senza equivoci la violazione denunciata ed a richiedere l’affermazione di un principio di diritto contrario a quello posto a fondamento della decisione impugnata (cfr. Cass., Sez. 2, 6/11/2008, n. 26737; 29/ 02/2008, n. 5733). L’enunciazione del quesito di diritto imposta dal primo periodo dell’art. 366-bis cod. proc. civ. non esige d’altronde il rispetto di forme particolari, risultando a tal fine sufficiente che l’illustrazione delle censure sia accompagnata nei casi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1-4 da una chiara sintesi logico-giuridica della questione di diritto sottoposta all’esame del Giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta, negativa od affermativa, che ad essa si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento o il rigetto dell’impugnazione (cfr. Cass., Sez. Un., 12/03/ 2008, n. 6530; 11/03/2008, n. 6420; 28/09/2007, n. 20360).

2.2. Il motivo è peraltro infondato.

E’ pur vero, infatti, che, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di rapporti bancari in conto corrente, la dichiarazione di nullità delle clausole contrattuali che fanno rinvio agli usi per la determinazione del tasso d’interesse ultralegale e di quelle che prevedono la capitalizzazione trimestrale degl’interessi, imponendo di procedere alla rideterminazione del saldo del conto, con applicazione del tasso legale ed esclusione dell’anatocismo, fa sorgere a carico della banca l’onere di produrre gli estratti conto a partire dalla data d’instaurazione del rapporto, in modo tale da consentire la ricostruzione integrale dell’andamento del dare e dell’avere, sulla base di dati contabili certi relativi alle operazioni registrate, risultando inutilizzabili, a tal fine, criteri presuntivi od approssimativi (cfr. Cass., Sez. 6, 13/10/2016, n. 20693; Cass., Sez. 1, 20/09/2013, n. 21597; 19/09/2013, n. 21466). La particolare efficacia degli estratti conto, alla cui accettazione tacita l’art. 1832 cod. civ. ricollega la preclusione di qualsiasi contestazione in ordine alla conformità delle singole annotazioni ai rapporti obbligatori da cui derivano gli addebiti e gli accrediti (ma non di quelle riflettenti errori, omissioni e duplicazioni di carattere formale, ai sensi del secondo comma della medesima disposizione, nè di quelle riguardanti la validità e l’efficacia dei predetti rapporti), non consente peraltro di ritenere che gli stessi costituiscano l’unico mezzo di cui la banca possa utilmente avvalersi ai fini della dimostrazione delle operazioni effettuate sul conto corrente, non essendo previste limitazioni al riguardo, e ben potendo desumersi, quindi, la relativa prova dalle schede dei movimenti ovvero da altri atti o documenti idonei ad attestare il compimento dei negozi da cui derivano, nonchè il titolo, la natura e l’importo delle operazioni, oltre che, ovviamente, l’annotazione in conto delle relative partite. Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, pur dando atto della mancata produzione da parte della Banca di Roma di tutti gli estratti conto, a far data dall’apertura del conto corrente, ha ritenuto che ciò non impedisse al c.t.u. di procedere alla ricostruzione integrale dello andamento del rapporto sulla base di altri elementi, il cui apprezzamento, rimesso in via esclusiva al giudice di merito, non è censurabile in sede di legittimità per violazione di legge, ma esclusivamente per vizio di motivazione.

3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce l’omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ribadendo che, nel ritenere provato il credito della Banca, sulla base delle risposte fornite dal c.t.u. ai quesiti postigli, la sentenza impugnata ha illogicamente conferito rilievo all’utilizzazione di un apposito software per la ricostruzione della situazione dei conti correnti, trascurando l’avvertenza del consulente ed avvalendosi dei conteggi incompleti da quest’ultimo predisposti.

3.1. Il motivo è inammissibile.

L’illustrazione delle censure, riflettenti il vizio di motivazione della sentenza impugnata, nella parte riguardante l’accertamento dei fatti, non è infatti accompagnata dalla specificazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero delle ragioni per cui la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione adottata. Tale indicazione, prescritta a pena d’inammissibilità dal secondo periodo dello art. 366-bis cod. proc. civ., postula che le censure sollevate con il ricorso per cassazione siano precedute o seguite da un momento di sintesi, omologo al quesito di diritto richiesto dalla medesima disposizione nei casi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1-4, idoneo a circoscrivere l’oggetto ed i limiti dell’impugnazione, e quindi ad evitare che la formulazione del ricorso ingeneri incertezze in sede di valutazione della sua ammissibilità e fondatezza (cfr. Cass., Sez. lav., 25/02/2009, n. 4556; Cass., Sez. 3, 4/02/2008, n. 2652; 7/04/2008, n. 8897). L’osservanza di tale requisito, pur non essendo soggetta a rigidi canoni formali, presuppone che in una parte del motivo o comunque del ricorso a ciò specificamente e riassuntivamente destinata la parte enuclei, dal complesso delle argomentazioni svolte a sostegno della censura, il fatto al cui accertamento la stessa si riferisce e le ragioni che la sorreggono, in modo da consentire di individuare ictu muli la questione sottoposta all’esame del Giudice di legittimità (cfr. Cass., Sez. 3, 30/12/2009, n. 27680; Cass., Sez. lav., 25/02/2009, n. 4556, cit.). Questa esigenza non può ritenersi soddisfatta allorquando, come nella specie, tale individuazione non costituisca oggetto di un’opera di puntualizzazione compiuta dallo stesso ricorrente, ma sia possibile soltanto attraverso la lettura integrale della complessiva illustrazione del motivo, configurandosi pertanto come il risultato di un’attività interpretativa rimessa al lettore.

4. Il ricorso va dunque rigettato.

L’incertezza delle questioni affrontate, alcune delle quali hanno costituito oggetto di contrastanti orientamenti giurisprudenziali, giustifica peraltro la dichiarazione di compensazione delle spese processuali tra le parti.

PQM

rigetta il ricorso. Compensa integralmente le spese processuali.

Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2017

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