Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6340 del 16/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 16/03/2010, (ud. 26/01/2010, dep. 16/03/2010), n.6340

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – Consigliere –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

A.K.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

ANTONIO BERTOLONI N 31, presso lo studio dell’avvocato RAPONE

RAFFAELLA, rappresentata e difesa dall’avvocato COSTA ANTONELLA,

giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA N. 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati CORRERA

FABRIZIO, COSSU BENEDETTA, CORETTI ANTONIETTA, SGROI ANTONINO, giusta

mandato in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 196/2006 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 19/06/2006 R.G.N. 196/04;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

26/01/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza in data 28.3/19.6.2006 la Corte di appello di Venezia confermava la sentenza resa dal Tribunale della stessa sede il 28.1.2003, impugnata da A.K.A., che rigettava la domanda da quest’ultimo proposta per la liquidazione, ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 2002, art. 22, comma 11, dei contributi versati in relazione allo svolgimento di attività lavorativa nel territorio italiano dal 1988 al 2000.

Osservava in sintesi la corte territoriale che la domanda era stata correttamente rigettata per l’assenza dei requisiti previsti dalla norma indicata, facendo difetto la prova del definitivo abbandono del territorio italiano da parte del lavoratore extracomunitario, quanto l’ulteriore condizione dell’assenza di convenzioni internazionali in materia, stante la convenzione in materia di sicurezza sociale fra l’Italia e l’USA ratificata con la L. n. 86 del 1975, modificata a seguito di accordo aggiuntivo ratificato con L. n. 609 del 1985.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso A.K. A. con tre motivi, illustrati con memoria.

Resiste con controricorso l’INPS.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22, comma 11, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, osservando che la norma non prevede che, cessata l’attività lavorativa in Italia e lasciato il paese, il lavoratore extracomunitario sia tenuto a dimostrare di aver ottenuto presso altro paese l’autorizzazione al lavoro.

Con il secondo motivo il ricorrente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., osservando che i giudici di merito avevano trascurato di considerare che l’INPS era onerato della prova, quale unico presupposto per l’applicazione della convenzione Italia-USA, della condizione di lavoratore del cittadino extracomunitario presso gli USA, non avendo lo stesso mai dichiarato di essersi ivi recato per svolgere attività lavorativa.

Con l’ultimo motivo, infine, il ricorrente deduce vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), avendo la corte territoriale illogicamente ritenuto che la restituzione del permesso di soggiorno non rappresentasse prova sufficiente dell’allontanamento dal territorio nazionale. Il primo motivo è fondato.

Viene all’esame di questa Corte di legittimità la disposizione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22, comma 11 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nel testo anteriore alle modifiche introdotte dalla L. n. 189 del 2002, art. 18, comma 13, inapplicabile quest’ultima al caso per cui è processo ratione temporis.

Prevede la disposizione che “… in caso di rimpatrio il lavoratore extracomunitario conserva i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati e può goderne indipendentemente dalla vigenza di un accordo di reciprocità. I lavoratori extracomunitari che abbiano cessato l’attività lavorativa in Italia e lasciano il territorio nazionale hanno facoltà di richiedere, nei casi in cui la materia non sia regolata da convenzioni internazionali, la liquidazione dei contributi che risultino versati in loro favore presso forme di previdenza obbligatoria maggiorati dal 5 per cento annuo”.

A seguito delle modifiche intervenute nel 2002, la norma è stata così riformulata: “Salvo quanto previsto per i lavoratori stagionali dall’art. 25, comma 5, in caso di rimpatrio il lavoratore extracomunitario conserva i diritti previdenziali e di sicurezza sociale maturati e può goderne indipendentemente dalla vigenza di un accordo di reciprocità al verificarsi della maturazione dei requisiti previsti dalla normativa vigente, al compimento del sessantacinquesimo anno di età, anche in deroga al requisito contributivo minimo previsto dalla L. 8 agosto 1995, n. 335, art. 1, comma 20”.

Dal confronto fra le due stesure della norma emerge evidente come, nella versione previgente, il legislatore aveva introdotto meccanismi, calibrati sulla peculiarità che presenta la posizione previdenziale dei lavoratori extracomunitari, volti ad assicurare l’utilità della contribuzione versata, oltre che a garantire il mantenimento dei diritti previdenziali maturati, laddove, nel testo successivamente introdotto, il godimento dei diritti previdenziali è stato condizionato alla maturazione dei requisiti pensionistici e al raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età, con la soppressione del diritto alla restituzione dei contributi versati.

Ciò premesso, la prima questione che si pone, con riferimento al testo originario della disposizione, riguarda la portata che deve assumere il riferimento alla cessazione dell’attività lavorativa e all’abbandono del territorio nazionale quali condizioni per la richiesta di liquidazione dei contributi, ed, in particolare, se tali requisiti debbano essere qualificati in termini di definitività, nel senso di escludere, ai fini dell’accesso al diritto, la rilevanza di spostamenti territoriali meramente transitori e contingenti, che non incidono sul luogo di soggiorno del lavoratore e di svolgimento della sua attività lavorativa.

Ai fini di una adeguata interpretazione della norma, di sicuro rilievo appare, in primo luogo, la considerazione che il legislatore, lungi dal derogare al principio di eguaglianza che informa la tutela previdenziale dei lavoratori immigrati (destinatari, al pari dei lavoratori nazionali, dei precetti dell’art. 38 Cost., comma 2 e art. 35 Cost.), ha valutato, in termini di effettività, la peculiarità della loro posizione lavorativa, garantendo, attraverso meccanismi restitutori, la utilità della contribuzione versata, indipendentemente dalla sussistenza dei prescritti requisiti pensionistici e di età, ma ha bilanciato tale effetto con la previsione, che ne condiziona l’operatività, che, con la cessazione dell’attività lavorativa, venga meno il collegamento fra il lavoratore ed il territorio nazionale. Con una soluzione di continuità che, per essere effettivamente tale, è escluso che possa ricollegarsi ad eventi meramente transitori.

In secondo luogo, è, in realtà, proprio il rapporto che la norma instaura fra la cessazione dell’attività lavorativa e l’abbandono del territorio nazionale ad assumere un sicuro valore interpretativo, sulla base della considerazione che, nel sistema legale, il rilascio dell’autorizzazione al lavoro (ed ora del nulla osta) costituisce condizione imprescindibile per una legittima permanenza nel territorio nazionale del lavoratore immigrato, e che la cessazione dell’attività lavorativa, in quanto destinata ad incidere sulla legalità del soggiorno, presuppone che non sia ricollegabile ad eventi transitori, ma abbia essa stessa carattere di definitività.

Tale interpretazione trova conferma, del resto, anche nel tenore letterale della norma, che, nel far riferimento ai “lavoratori …

che abbiano cessato l’attività lavorativa e lasciano il territorio nazionale”, descrive una situazione di per sè non contingente, in cui la cessazione dell’attività lavorativa (e, cioè, di un presupposto essenziale per una legittima situazione di soggiorno) qualifica l’allontanamento dal territorio nazionale, in virtù di una sequenza di eventi che portano alla definitiva fuoriuscita del lavoratore dal paese.

La norma del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 22, comma 11, (nel testo vigente ratione temporis) deve, pertanto, interpretarsi nel senso che i lavoratori extracomunitari che abbiano cessato l’attività lavorativa in Italia e lasciano il territorio nazionale hanno facoltà di richiedere la liquidazione dei contributi che risultino versati in loro favore presso forme di previdenza obbligatoria solo se abbiano cessato l’attività lavorativa ed il trasferimento dal territorio nazionale abbia carattere di definitività. Spetta al giudice di merito accertare le situazioni che consentono di qualificare in tal senso il trasferimento ed il relativo apprezzamento di fatto se, correttamente motivato, resta esente dal sindacato di legittimità.

Nel caso in esame la corte territoriale ha ritenuto che il lavoratore non avesse dato la prova dell’autorizzazione all’ingresso e alla residenza presso gli USA, ma senza assegnare alcun rilievo a circostanze (quali la restituzione al Consolato italiano del permesso di soggiorno e all’INPS del libretto di lavoro) che, a differenza delle prime, risultavano di per sè idonee a dar riscontro al definitivo allontanamento dal territorio nazionale, a prescindere dal luogo di successiva dimora, e che portavano con sè la necessità, ai fini di un regolare rientro nel territorio italiano, di rinnovare la procedura prevista per il soggiorno per ragioni di lavoro.

Con la conseguenza che nessun ostacolo può apprezzarsi, sotto questo aspetto, all’accoglimento della domanda.

Anche il secondo motivo è fondato.

Per come si è visto, la norma individua, quale limite alla facoltà del lavoratore immigrato di richiedere la liquidazione dei contributi, l’assenza di convenzioni internazionali che “regolano la materia”: situazione (giova subito rilevare) che, impedendo l’operatività del diritto, non può che essere dimostrata dalla parte che la stessa eventualmente deduca, e, cioè, dall’ente previdenziale onerato della restituzione dei contributi.

Secondo la sentenza impugnata, tale situazione ricorre nel caso in esame, stante l’esistenza di uno specifico accordo tra l’Italia e gli USA in materia di sicurezza sociale, concluso il 23.5.1973 e ratificato con la L. n. 86 del 1975, successivamente modificato con accordo aggiuntivo del 17.4.1984 ratificato con la L. n. 609 del 1985.

L’accordo, in sintesi, si applica alle legislazioni di sicurezza sociale relative alle prestazioni per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti (art. 2); riguarda i lavoratori “che possono far valere periodi di assicurazione in base alle legislazioni, e ai loro familiari e superstiti” (art. 3), sempre che il lavoratore possa far valere più di sei semestri di assicurazione secondo la legislazione degli USA, o più di un anno, secondo la legislazione italiana; si fonda essenzialmente sul principio (di c.d. totalizzazione) secondo cui “se la legislazione di uno Stato contraente richiede il compimento di periodi di assicurazione per l’acquisto, il mantenimento o il recupero del diritto a prestazioni, l’istituzione che applica tale legislazione prenderà in considerazione, a tal fine, nella misura necessaria, i periodi di assicurazione compiuti in base alla legislazione dell’altro Stato come se questi fossero stati compiuti in base alla legislazione del primo Stato” (art. 8).

La sentenza impugnata ha ritenuto, in conformità alle deduzioni svolte dall’INPS, che tale convenzione sia nel caso applicabile, ma senza che l’Istituto abbia dato prova, a fronte delle contestazioni sul punto svolte dal ricorrente, che quest’ultimo potesse far valere periodi di assicurazione in base alla legislazione degli USA, quale condizione indispensabile (a prescindere da ogni altra valutazione) per far ritenere la convenzione medesima operante per lo stesso.

In tal modo affermando l’esistenza di un fatto impeditivo del diritto riconosciuto al ricorrente, pur nell’assenza della necessaria prova dei relativi presupposti giustificativi ed, anzi, in contraddizione con l’asserito carattere sol transitorio del trasferimento del lavoratore.

Il ricorso – assorbito l’ulteriore motivo di gravame – va, pertanto, accolto, la sentenza cassata e la causa decisa nel merito, non palesandosi necessari ulteriori accertamenti di fatto, con la condanna dell’INPS alla restituzione in favore del ricorrente dei contributi versati al detto Istituto maggiorati del cinque per cento annuo e con gli interessi legali sulle singole scadenze a decorrere dalla domanda amministrativa.

Sussistono giusti motivi, in considerazione della novità delle questioni trattate, per compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio di merito, seguendo, invece, il criterio della soccombenza quelle del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa e, decidendo nel merito, condanna l’INPS a restituire al ricorrente i contributi versati al detto Istituto, maggiorati del cinque per cento annuo, con gli interessi legali sulle singole scadenze a decorrere dalla domanda amministrativa; compensa le spese del giudizio di merito; condanna l’INPS a corrispondere in favore del ricorrente le spese del giudizio di Cassazione, che liquida in Euro 15,00 per esborsi ed in Euro 4.000,00 per onorario di avvocato, oltre a spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2010

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