Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6330 del 25/02/2022

Cassazione civile sez. II, 25/02/2022, (ud. 07/12/2021, dep. 25/02/2022), n.6330

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15606-2017 proposto da:

Condominio “(OMISSIS)”, in persona dell’Amministratore pro tempore,

rag. L.M., rappresentato e difeso dall’Avv. GIUSEPPE

SIRACUSA, ed elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo studio

dell’avv. Antonio Caruso, Via Ugo Bartolomei 23;

– ricorrente –

contro

B.G., + ALTRI OMESSI, rappresentati e difesi dagli avv.ti

ENRICO BARILLI, e Giuseppina Borella, elettivamente domiciliati

presso lo studio dell’avv. Claudio Canevari, in ROMA, via delle

FRATTE di TRASTEVERE 44/A;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1497/2016 della CORTE di APPELLO di MILANO,

pubblicata il 10/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

07/12/2021 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Il Condominio “(OMISSIS)” conveniva in giudizio B.G., + ALTRI OMESSI, in proprio e quali eredi di B.L., per sentir accertare e dichiarare la proprietà esclusiva in capo all’Ente comune dei locali censiti al N. C.E.U. del Comune di (OMISSIS) al Fg. (OMISSIS) (locale serbatoio) e al Fg. (OMISSIS) (locale caldaia). In particolare, parte attrice assumeva che, successivamente alla costituzione del Condominio nei primi anni ‘90, derivante dal frazionamento dell’originario unicum di proprietà esclusiva in capo a B.L. (id est B.L., supra cit.), era intervenuta nel 1994 la sottoscrizione da parte di quest’ultimo e dei condomini di formale regolamento condominiale contrattuale in seno al quale, all’art. 3, erano contemplate le parti comuni dell’edificio tra cui si annoveravano, alla lett. b) “i locali della caldaia, vani e accessori e relativi impianti e macchinari”. Secondo parte attrice la condominialità emergeva inoltre dal contenuto dell’atto di acquisto di G.N., rogato in data 8.7.1999, dalla cui lettura si poteva evincere che i subalterni in oggetto erano stati indicati quali enti comuni. Ciò nonostante, B.L. e, successivamente venuto a mancare, il figlio di lui, B.R. – sine titulo – ritenendo erroneamente la porzione di fabbricato riconducibile al locale ex serbatoio di proprietà esclusiva, la concedevano in locazione a terzi, così ingenerando il presente giudizio.

Si costituivano gli eredi del de cuius, i quali riconoscevano la proprietà condominiale del locale caldaia, mentre contestavano l’assunto attoreo con riferimento al locale serbatoio, che era stato trasformato in magazzino e per il quale, in via riconvenzionale, chiedevano accertarsi l’esclusiva proprietà o comunque l’intervenuta usucapione; in ipotesi di accoglimento della domanda del Condominio, condannarlo alla restituzione delle somme da accertarsi in corso di causa, o da liquidarsi in via equitativa, per la manutenzione e le spese condominiali dell’immobile da loro sostenute.

Senza svolgimento di attività istruttoria e previa integrazione del contraddittorio nei confronti dei singoli condomini, rimasti tutti contumaci, il Tribunale di Monza con la sentenza n. 3338/2014 accoglieva la domanda dell’attore, dichiarando la natura di enti comuni del locale caldaia ed ex serbatoio e respingeva la domanda riconvenzionale di usucapione svolta dai convenuti e la domanda restitutoria svolta in via subordinata dai convenuti in quanto rimasta sfornita di supporto probatorio. In particolare, sosteneva il Tribunale che dal regolamento di condominio, predisposto all’atto della vendita delle singole unità immobiliari e approvato da tutti i condomini, compreso il dante causa dei convenuti ( B.L.), risultavano indicati quali parti comuni, oltre al locale caldaia anche i vani e accessori e relativi impianti e macchinari e che a conferma di ciò nell’atto di compravendita del condomino G. tra gli enti comuni erano indicati entrambi i subalterni.

Avverso detta sentenza proponevano appello gli eredi B. i quali, contestando la nullità della sentenza di primo grado per la violazione del principio di immutabilità del Giudice, reiteravano la domanda di acquisto originario ad usucapionem del bene immobile conteso, così come quella relativa alla restituzione delle somme pagate a titolo di oneri condominiali e, contestando l’entità delle somme liquidate dal Tribunale a titolo di spese legali, formulavano richiesta di rideterminazione al ribasso dei relativi importi in caso di conferma della pronuncia di primo grado.

Si costituiva il Condominio “(OMISSIS)” resistendo alla impugnazione.

Con sentenza n. 1497/2017, depositata in data 10.4.2017, la Corte d’Appello di Milano accoglieva la domanda riconvenzionale degli appellanti dichiarando l’intervenuta usucapione del locale ex serbatoio e condannava gli appellati al pagamento delle spese di lite del doppio grado di giudizio. In particolare, la Corte territoriale riteneva che il cambio di destinazione d’uso del locale in questione (il serbatoio) fosse intervenuto quantomeno nell’anno 1990 – epoca d’inizio del rapporto locatizio tra il de cuius B.L. e il condomino (OMISSIS) – e, dunque, da tale annualità e ininterrottamente da allora, dapprima il de cuius e, successivamente, gli eredi B., avevano posseduto uti domini il sub (OMISSIS). Pertanto, la successiva redazione del regolamento condominiale nel 1994, priva dell’esplicita indicazione del locale serbatoio, era intervenuta in un momento storico in cui il bene non faceva più parte dei beni comuni, essendo da tempo venuta meno l’originaria destinazione.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione il Condominio “(OMISSIS)” sulla scorta di tre motivi. Resistono i B. con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione o falsa applicazione degli artt. 1158,1164,1165 e 2934 c.c.”, osservando che la trasformazione della caldaia da gasolio a gas metano era intervenuta nel corso degli anni ‘90 e non nel 1990, come ritenuto nella sentenza impugnata sulla base del fatto che all’epoca era stato perfezionato il contratto verbale di locazione tra il (OMISSIS) e il B.: tale questione, ancorché all’epoca del relativo giudizio era stata contestata dal conduttore, non poteva essere opponibile al Condominio.

Pertanto, nel ritenere indimostrata la decorrenza dell’interversione nel possesso utile a usucapire, così come scorretta la determinazione del Giudice d’appello di far decorrere detto termine quantomeno dall’anno 1990, il Condominio riteneva, quale atto idoneo a interrompere il decorso ventennale dell’usucapione, la sottoscrizione del regolamento condominiale effettuata da B.L., il quale, con tale riconoscimento ha esplicitato quella che era la reale situazione sussistente tra le parti. Laddove, ammesso che il locale serbatoio già nel 1994 risultasse locato, non si comprendeva per quale motivo il regolamento sottoscritto dal B. citasse una pluralità di locali se non per individuare che la caldaia, all’epoca, fosse alimentata dal gasolio.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – Va, in termini generali, premesso che il vizio di violazione di legge (evocato dal ricorrente quale paradigma della asserita sussistenza del vulnus) consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti segnati dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Peraltro, quando nel ricorso per cassazione viene denunziata violazione o falsa applicazione di norme di diritto, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il vulnus deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità, mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla Corte di Cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 15177 del 2002; Cass. n. 1317 del 2004; Cass. n. 635 del 2015).

Le Sezioni Unite (Cass., sez. un., n. 23745 del 2020) hanno ritenuto che l’onere di specificità dei motivi, di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, impone al ricorrente, a pena d’inammissibilità della censura, di indicare puntualmente le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente ad indicare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare (con una ricerca esplorativa officiosa che trascende le sue funzioni) la norma violata o i punti della sentenza che vi si pongono in contrasto.

1.3. – Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto configurati (come nella specie) mediante la sola generica indicazione delle norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni concrete, adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

1.4. – Vige il principio secondo cui l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra limite che non sia quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016). Sono infatti riservate al Giudice del merito l’interpretazione e la valutazione del materiale probatorio, il controllo dell’attendibilità e della concludenza delle prove, la scelta tra le risultanze probatorie di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, nonché la scelta delle prove ritenute idonee alla formazione del proprio convincimento, per cui è insindacabile, in sede di legittimità, il “peso probatorio” di alcune testimonianze rispetto ad altre (Cass. n. 1359 del 2014; Cass. n. 16716 del 2013; Cass. n. 1554 del 2004).

Ed è altresì pacifico che il difetto di motivazione censurabile in sede di legittimità è configurabile solo quando dall’esame del ragionamento svolto dal Giudice di merito e quale risulta dalla stessa sentenza impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre a una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza del processo logico che ha indotto il Giudice al suo convincimento, ma non già quando vi sia difformità rispetto alle attese del ricorrente (Cass. n. 13054 del 2014). La qual cosa rileva (come detto) anche in termini di carenza di specificità degli stessi motivi di ricorso, che (ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4) devono contenere le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza impugnata. (Cass. n. 10914 del 2015; Cass. n. 3887 del 2014).

1.5. – Nella specie, non si ravvisano nel ragionamento della Corte di merito siffatti profili di obliterazione ovvero di obiettiva deficienza del processo logico seguito dal Giudice. Nella sentenza vengono motivate con adeguata coerenza e congruenza le ragioni (riportate alle pagg. 8-10) per le quali la natura di parte comune del locale “ex serbatoio” dovesse essere esclusa quantomeno a partire dall’intervenuto mutamento di destinazione, a ciò seguendo l’accoglimento della domanda riconvenzionale con la quale i controricorrenti avevano chiesto accertarsi l’intervenuta usucapione del bene in questione.

Osservava la Corte d’appello che, se infatti non c’era certezza assoluta della proprietà esclusiva in capo agli appellanti B. del locale in questione, perché in origine asservito al bene comune, era tuttavia certo che a decorrere dall’inizio della locazione dell’immobile da parte del conduttore sig. (OMISSIS) (anno 90) ed ininterrottamente da allora, B.L. prima e in seguito gli appellanti in qualità di eredi, avessero posseduto uti dominus il subalterno (OMISSIS), sostenendone gli oneri condominiali nonché provvedendo al pagamento delle relative imposte. Sicché il decorso del tempo per un periodo considerato abbondantemente superiore al ventennio, senza interruzioni utili ed il pacifico e incontroverso possesso uti dominus del bene da parte degli appellanti (odierni controricorrenti) consentivano alla Corte di merito di ritenere la maturata usucapione dell’immobile.

A giudizio della Corte d’Appello, la sottoscrizione del regolamento condominiale nell’anno 1994 era semmai intervenuta in un “momento storico in cui il bene non faceva parte nel novero dei beni comuni di cui all’art. 1117 c.c.” (sentenza, pag. 9), di guisa che alcuna valenza ricognitiva potesse trasparire dalla condotta assunta da B.L. in detta circostanza. In sostanza, da un lato il preesistente uso esclusivo del bene e, dall’altro, la mancanza di un’esplicita indicazione di tale locale nel novero dei beni comuni in seno al regolamento contrattuale, hanno correttamente indotto la Corte d’Appello a non ritenere, quanto sottoscritto all’epoca dal dante causa degli eredi B., alla stregua di un atto ricognitivo idoneo a interrompere il decorso ventennale utile a usucapire.

1.6. – Le censure, in tale modo articolate, risultano eterogenee e rapsodiche, contraddistinte piuttosto dall’evidente scopo di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione impugnata, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018); così, inammissibilmente, rimettendo nella sostanza al giudice di legittimità il compito di isolare le singole doglianze teoricamente proponibili onde ricondurle a uno dei mezzi di impugnazione enunciati dal citato art. 360 c.p.c. per poi ricercare quali disposizioni possano essere utilizzabili allo scopo; in sostanza, attribuendo al giudice di legittimità il compito di dar forma e contenuto alle generiche censure del ricorrente, per poi decidere su di esse.

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l'”Omesso esame di fatti o atti decisivi per il giudizio: la sottoscrizione del regolamento condominiale (trascritto) e la stipula dell’atto pubblico dell’8.7.1999 – prove legali”. Il Giudice d’appello non avrebbe tenuto conto del regolamento condominiale che doveva far ritenere sussistente la prova della condominialità del bene in oggetto, per la ragione che non vi sarebbe stata alcuna necessità di indicare, quali beni comuni, locali accessori alla caldaia se questi, all’epoca dei fatti, non risultavano già da tempo asserviti allo stivaggio del combustibile. Inoltre, dalla compravendita stipulata con il condomino G., risultava che il B. citava il sub (OMISSIS) quale ente comune. Secondo il ricorrente è viceversa la data di stipula di tale contratto (8.7.1999) va considerata quale atto idoneo a interrompere il decorso temporale ai fini dell’acquisto per usucapione, ritenendo errato quanto affermato dalla Corte di merito, secondo la quale il contenuto dell’atto di compravendita era un “mero refuso” (pag. 9 sentenza) in quanto la menzione del sub (OMISSIS) quale ente comune non era contenuta negli atti degli altri condomini. Tale contratto di compravendita era un atto pubblico, che faceva quindi piena prova delle dichiarazioni dei contraenti, al pari del regolamento condominiale, fino a querela di falso; e pertanto, non essendo stata sporta alcuna querela di falso, era la Corte d’Appello che avrebbe doveva utilizzare tali prove legali.

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – Ai sopra esaminati paradigmi di accessibilità e di partecipazione al giudizio di cassazione, va aggiunto l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 che consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Viceversa, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non v’e’ alcuna idonea e specifica indicazione.

2.3. – Oltre a rilevare il fatto che il giudice di seconde cure non avesse tenuto in conto il regolamento condominiale che doveva far ritenere sussistente la corrispondente prova di condominialità del bene immobile in questione, la dimostrazione della asserita consapevolezza delle parti in causa si era avuta con la compravendita del condomino G. con rogito notarile che, nell’identificare il bene compravenduto, lo aveva citato al sub (OMISSIS) (anziché il sub (OMISSIS), in ragione di un “mero refuso”). Il contenuto specifico e la stipulazione da parte del Notaio Be. della sottoscrizione del regolamento condominiale e del contratto di compravendita immobiliare in data 8.7.1999, vantava la considerazione del fatto che tale stipula venisse ritenuta quale atto idoneo ad interrompere il decorso temporale ai fini dell’acquisto ad usucapionem del bene oggetto del giudizio. Tale affermazione, tuttavia, non risultava agli atti sorretta da una adeguata autosufficienza riguardante il contenuto degli atti scritti (non riportati in giudizio) operante anche con riguardo alla non meglio specificata ragione della mancata proposizione di una querela di falso, poi ritirata (Cass. n. 31243 del 2021).

Il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa Cass. n. 23756 del 2018; Cass. n. 19018 del 2017, ed altre).

3. – Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta l'”Omesso esame di fatti decisivi per il giudizio: la costituzione del (OMISSIS) nella causa di sfratto e la richiesta dell’amministratore condominiale”; là dove, con riferimento alla decorrenza del ventennio ex art. 1158 c.c., la Corte d’Appello aveva preso come riferimento la sentenza di sfratto del (OMISSIS) tra il (OMISSIS) e il B., nella quale il Tribunale aveva ritenuto “pacifico che nel 1990 il signor B.L., padre del ricorrente e proprietario di tutto l’immobile sito in (OMISSIS), ha concesso in locazione al resistente il locale ex serbatoio”. Il Condominio ricorrente osservava che il (OMISSIS), costituendosi in giudizio in data 3.6.2008, aveva formulato eccezione di difetto di legittimazione attiva del B. per avere quest’ultimo perorato una domanda giudiziale che non poteva promuovere, stante la natura condominiale del locale ex serbatoio. Nel momento in cui la Corte territoriale ha ritenuto decisivo un accertamento intervenuto nell’ambito di un rapporto obbligatorio non opponibile al Condominio e contenuto in un provvedimento giudiziale, non si comprende come non abbia ritenuto degna di nota la contestazione formulata dal (OMISSIS). La doglianza avanzata dal conduttore in sede di sfratto per morosità poteva, dunque, essere considerata alla stregua di un atto interruttivo del decorso ventennale ai sensi e per gli effetti degli artt. 1167 e 2943 c.c.

3.1. – Il motivo non è fondato.

3.2. – La presunzione di possesso utile ad usucapionem, di cui all’art. 1141 c.c., non opera quando la relazione con il bene non consegua ad un atto volontario di apprensione, ma derivi da un iniziale atto o fatto del proprietario-possessore, come nell’ipotesi della mera convivenza nell’immobile con chi possiede il bene; in tal caso, la detenzione può mutare in possesso soltanto con un atto di inversione, consistente in una manifestazione esteriore, rivolta contro il possessore, affinché questi possa rendersi conto dell’avvenuto mutamento, da cui si desuma che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio. Tale accertamento realizza un’indagine di fatto, rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logica e congruamente motivata. (Cass. n. 27411 del 2019; Cass. n. 26327 del 2016).

L’interversione nel possesso non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna, ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore – rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi possa rendersi conto dell’avvenuto mutamento – dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato d’esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui ed abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente animus detinendi dell’animus rem sibi habendi. Non rilevano, a tal fine, l’inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita, verificandosi, in questo caso, un’ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale, né meri atti di esercizio del possesso, traducendosi gli stessi in un’ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene (Cass. n. 26327 del 2016; Cass. n. 17676 del 2018).

Peraltro, la interversione della detenzione in possesso può avvenire anche attraverso il compimento di attività materiali, qualora esse manifestino in modo inequivocabile e riconoscibile dall’avente diritto il potere sulla cosa esclusivamente nomine proprio, vantando per sé il diritto corrispondente al possesso in contrapposizione con quello del titolare della cosa, come nel caso in cui sul fondo sia stata realizzata una costruzione (Cass. n. 29594 del 2021). Ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’usucapione – il cui onere grava su chi invoca la fattispecie acquisitiva – occorre che l’attività materiale, corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà, sia accompagnata da univoci indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta uti dominus; costituisce, pertanto, accertamento di fatto, rimesso al giudice del merito, valutare, caso per caso, l’intero complesso dei poteri esercitati su un bene, non limitandosi a considerare l’attività di chi si pretende possessore, ma considerando anche il modo in cui tale attività si correla con il comportamento concretamente esercitato del proprietario (Cass. n. 6123 del 2020).

3.3. – Correttamente dunque la Corte di merito accoglieva la domanda riconvenzionale dei B., rilevando che – se infatti non v’era certezza assoluta della proprietà esclusiva in capo agli appellanti del locale in questione, perché in origine asservito al bene comune – era tuttavia certo che, a decorrere dall’inizio della locazione dell’immobile da parte del conduttore (OMISSIS) (anno 1990) ed ininterrottamente da allora, B.L. prima ed in seguito gli appellanti in qualità di eredi, abbiano posseduto uti dominus il subalterno (OMISSIS), sostenendone gli oneri condominiali, nonché provvedendo al pagamento delle relative imposte (sentenza, pag. 9). Sicché, il decorso del tempo per un periodo abbondantemente superiore al ventennio senza interruzioni, ed il pacifico ed incontroverso possesso uti dominus del bene da parte degli appellanti B., consentisse di ritenere la maturata usucapione dell’immobile de quo.

4. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore dei controricorrenti delle spese del presente grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 2.500,00 oltre Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione seconda civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 7 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2022

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