Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6330 del 16/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 16/03/2010, (ud. 16/12/2009, dep. 16/03/2010), n.6330

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA P.L. DA

PALESTRINA 47, presso lo studio dell’avvocato IOSSA FRANCESCO PAOLO,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DE GUGLIELMI

ROBERTO, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CASSA DI RISPARMIO DI SAVONA S.P.A., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

GIULIO CESARE 14, presso lo studio dell’avvocato BARBANTINI MARIA

TERESA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato

PAROLETTI CAMILLO, giusta mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 798/2005 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

r.g.n. 1266/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

16/12/2009 dal Consigliere Dott. VITTORIO NOBILE;

udito l’Avvocato TOSSA FRANCESCO PAOLO;

udito l’Avvocato PAROLETTI CAMILLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso in data 2-5-2001, P.M., dipendente della Cassa di Risparmio di Savona (CARISA), preposto dell’agenzia di Ferrania, esponeva di essere stato licenziato in tronco con lettera del 20 (pervenuta il 22) luglio 2000, dopo una serie di vessazioni alle quali era stato sottoposto per la sua attività sindacale.

In particolare asseriva il ricorrente: che in seguito ad un’ispezione del 30-31 marzo 2000 era stato disposto il suo “trasferimento disciplinare” dalla detta agenzia alla Direzione generale di Savona, ove non aveva avuto assegnata alcuna mansione con la conseguente caduta in uno stato di sindrome depressiva reattiva; che il 13 maggio successivo gli era stata comminata la sospensione cautelare dal lavoro e dalla retribuzione per oltre due mesi, sino al licenziamento (comunicatogli mentre era ancora in malattia), addebitatogli per gli stessi fatti che gli erano già stati contestati sin dal 18-4-2000;

che infine aveva subito durante la malattia tre visite fiscali l’ultima delle quali dopo il licenziamento stesso.

Assumendo, quindi, che erano stati violati il principio della consunzione dell’azione disciplinare (attraverso, per gli stessi fatti, la rimozione dall’ufficio senza preavviso, il mutamento in pejus delle mansioni, la riduzione delle note di qualifica, la sospensione cautelare ed il licenziamento), della immediatezza e della proporzionalità tra inadempimenti e sanzioni, e che, inoltre, nella lettera di licenziamento era stata indicata una norma collettiva non più in vigore e il codice disciplinare non era stato affisso presso la sede dove egli lavorava, il P. contestava altresì analiticamente gli addebiti e concludeva impugnando le sanzioni disciplinari e il licenziamento.

La CARISA si costituiva contestando la fondatezza delle domande, producendo numerosi documenti e deducendo prove testimoniali aventi ad oggetto gli addebiti.

Il Giudice del lavoro del Tribunale di Savona, con sentenza n. 219/2003, negava la natura di sanzione disciplinare al trasferimento, al preteso demansionamento, alla nota di qualifica e alla sospensione cautelare, rilevava la tempestività del licenziamento in relazione alla complessità delle indagini, rigettava l’eccezione di inefficacia del licenziamento per mancata affissione del codice disciplinare e riteneva insussistente, e comunque non dimostrata, la pretesa natura discriminatoria per motivi sindacali del licenziamento stesso.

Nel merito, il giudice osservava che l’ampia attività istruttoria aveva dimostrato la verità degli addebiti mossi al P. e passava quindi ad esaminare i sedici illeciti contestati, ravvisando in quasi tutti un grave inadempimento agli obblighi incombenti sul ricorrente, specificamente con riferimento alla sua posizione gerarchica ed alla natura del rapporto bancario. Riteneva, invece, che non integrassero motivo di licenziamento gli addebiti relativi all’inserimento nelle categorie speciali di soggetti che non avevano i necessari requisiti, alla irregolarità nell’accensione di rubriche e ad accrediti sul conto della vicedirettrice A. con addebiti sul diverso conto della madre della stessa. Generiche erano, poi, le altre contestazioni, ovvero non provate o costituenti mere anomali procedurali.

Il giudice dichiarava, quindi, la legittimità del licenziamento, previa conversione del medesimo in licenziamento per giustificato motivo soggettivo, respingeva le ulteriori domande del ricorrente e compensava le spese.

Il P. proponeva appello avverso la detta sentenza, criticando punto per punto la motivazione addotta dal Tribunale e in larga misura ribadendo quanto dedotto in primo grado e confermato, a suo avviso, dai documenti in atti e dalle deposizioni dei testi escussi.

La CARISA resisteva al gravame di controparte e proponeva appello incidentale, chiedendo alla Corte di confermare il licenziamento per giusta causa, rilevando che gli addebiti ritenuti lievi dal giudice di prime cure erano gravi già per la loro natura e per la qualifica e la natura del rapporto e che, dovendosi procedere ad una valutazione globale e complessiva del comportamento del P., comportavano la totale perdita della fiducia e legittimavano il licenziamento per giusta causa.

La Corte di Appello di Genova, con sentenza del 4-10/22-11/2005, respingeva l’appello principale e in accoglimento dell’appello incidentale dichiarava valido e legittimo il licenziamento intimato al P. per giusta causa, confermando nel resto.

In sintesi la Corte territoriale, nel merito, analizzati i vari addebiti secondo l’ordine seguito dal primo giudice ed in relazione alle specifiche censure avanzate dal P., sulla base delle risultanze documentali e testimoniali, accuratamente esaminate, li riteneva fondati e, valutandoli nel loro complesso, e non singolarmente, concludeva che nella specie la gravità dei fatti e la totale perdita della fiducia necessaria nello specifico rapporto di lavora giustificava ampiamente la risoluzione in tronco del rapporto stesso.

Per la cassazione di tale sentenza il P. ha proposto ricorso con un unico complesso motivo.

La Cassa di risparmio di Savona ha resistito con controricorso e, da ultimo, ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico complesso motivo il ricorrente denuncia vizi di motivazione circa più punti decisivi della controversia, in relazione ai vari addebiti esaminati dalla Corte di merito e ritenuti dalla stessa sufficienti ad integrare una giusta causa di licenziamento.

Le censure risultano in parte inammissibili ed in parte infondate.

Come questa Corte ha più volte affermato, “la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (v. Cass. 9-4-2001 n. 5231, Cass. 15-4- 2004 n. 7201, Cass. 7-8-2003 n. 11933, Cass. 5-10-2006 n. 21412). Del resto, come pure è stato più volte precisatogli controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà, non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Suprema Corte di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso la autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa”, (v., fra le altre, da ultimo Cass. 7-6-2005 n. 11789, Cass. 6-3-2006 n. 4766, Cass. 27-2-2007 n. 4500).

Pertanto il vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità “sussiste solo se nel ragionamento del giudice del merito, quale risulti dalla sentenza, sia riscontrabile il deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento in senso difforme da quello preteso dalla parte” (v.

fra le altre Cass. 6-3-2006 n. 4770).

Nella fattispecie le censure del ricorrente consistono in gran parte in una riproposizione della diversa valutazione delle risultanze di fatto, contrapposta a quella operata dalla Corte d’Appello ed in definitiva in una richiesta di riesame del merito inammissibile in questa sede.

In particolare, con riguardo alla censura sub A (addebito 4, lettera 12-5-2000 – operazioni irregolari relativamente ai titoli azionari Bipop, HPI e Tiscali, appoggiate al conto cointestato al P. – pertanto autorizzagli soltanto dalla Direzione Generale -, che “avevano comportato il saldo c/c al giorno del regolamento, in caso di mancata vendita, con segno negativo in varie misure, da un minimo di 16 milioni di lire ad un massimo di L. 87 milioni”, senza, quindi, “la necessaria provvista al momento dell’effettuazione”), la accurata ricostruzione contenuta nel l’impugnata sentenza, fondata su una attenta ed ampiamente motivata valutazione delle risultanze documentali e testimoniali, tutte analiticamente esaminate, resiste ai rilievi del ricorrente concernenti da una parte la pretesa esistenza e rilevanza di altre provviste idonee e la valutazione al riguardo della testimonianza C. e dall’altra la pretesa insussistenza di effettivi poteri-doveri di controllo sulla attività della vicedirettrice A..

Del pari, quanto alle censure sub B e C (addebiti 3 e 4 lettera 26-5- 2000, relativi ad ordini di acquisto di azioni Telecom e CDB, – su rubriche intestate al marito della A. ed appoggiate su conti della madre di questa e dello stesso marito della vicedirettrice -, autorizzati dal P. e poi in parte annullati per asserito “errore”) la accurata ricostruzione dei fatti operata dalla Corte d’Appello in base alle risultanze documentali e la ampiamente motivata valutazione degli stessi resiste ai rilievi del ricorrente, con i quali, in sostanza si ribadisce la effettività dell’errore, la insussistenza di una vera e propria “autorizzazione” da parte del P. (siglante solo “per presa visione”) e la mancanza di una sua responsabilità, circostanze tutte, di fatto, ampiamente smentite con accurata motivazione dalla Corte di merito.

Per quanto riguarda, poi, la censura sub D (addebito 3 lettera 12-5- 2000 -sconfinamento relativo al c/c intestato allo stesso P. per l’importo di L. 22.700.000) per nulla carente risulta la motivazione con la quale la Corte d’Appello ha respinto le obiezioni dell’appellante principale, in base alle considerazioni che lo “sconfinamento” era risultato documentalmente (con la indicazione del P. al n. (OMISSIS) nell’elenco di cui alla produzione n. (OMISSIS) della CARISA, e con l’inserimento effettivo della relativa cifra nel “Totali sconfini filiale”) e non era escluso dal fatto che la circostanza fosse sfuggita al controllo degli organi superiori.

In relazione, inoltre, alla censura sub E (addebiti 7 e 8 lettera 12- 5-2000 – inoltro al capo zona di proposte di affidamento in favore della madre della A., garantito da fidejussione del fratello della stessa, portata da L. 30 a 100 milioni con supero transitorio di L. 100 milioni e proposta di rinnovo del fido per altri sei mesi, senza che venisse evidenziato che l’affidamento era richiesto appunto in favore della madre della vicedirettrice, nonostante la normativa interna prevedesse che siffatte operazioni fossero sottoposte alla Direzione generale), parimenti sufficiente ed adeguata risulta la motivazione circa il rigetto delle obiezioni avanzate dal P. con l’appello principale.

In particolare la Corte di merito, con motivazione congrua e priva di vizi logici, in sostanza, ha ritenuto la irrilevanza, da un lato, di quanto avvenuto anteriormente alla introduzione della normativa del 1997 (che ha previsto una specifica segnalazione sui tabulati relativi alla richiesta), dall’altro della eventuale conoscenza da parte dell’ufficio personale dei vincoli di parentela dei dipendenti, ben potendo gli altri uffici non esserne a conoscenza (di guisa che nel 1997 è stata appunto prevista la specifica segnalazione nel relativo modulo), dall’altro ancora della circostanza che gli affidamenti fossero garantiti da lettere di pegno.

Su tale ultimo punto, inoltre, il richiamo al “Testo unico fidi” risulta privo di autosufficienza, non essendo stato riportato testualmente il contenuto del documento richiamato.

Circa, poi, la censura sub F (addebiti 9 e 10 lettera 12-5-2000 – sconfinamenti vari di conto corrente in favore della madre, del fratello e del marito della vicedirettrice A., in misura eccedente rispetto alle facoltà del P., finalizzate ad operazioni di acquisto titoli) del pari la Corte di merito, con motivazione sufficiente e priva di vizi logici, ha ritenuto fondati gli addebiti (ad eccezione dell’ordine di acquisto del 16-3-2000, effettuato mentre il P. era in ferie) sulla base delle risultanze documentali e delle testimonianze G., C., B. e G., ritenendo inattendibili le testimonianze C. e A., essendo emerso chiaramente che le operazioni in esame relative a parenti di dipendenti – peraltro con finalità (acquisto di titoli) “diverse da quelle per le quali operava il fido” – necessitavano comunque della autorizzazione della Direzione generale.

Infine, correttamente e con adeguata motivazione la Corte di Appello ha ritenuto gli addebiti relativi a varie irregolarità formali (censura sub G) comunque rilevanti nella valutazione della giusta causa di licenziamento, trattandosi in sostanza nel complesso di “operazioni poste in essere dal P. per sè stesso e per propri familiari o per quelli della A.”.

Peraltro la Corte di merito, in conclusione, correttamente ha operato una valutazione complessiva di tutti gli addebiti risultati confermati, evidenziando “la gravità oggettiva dei fatti, la loro reiterazione per un numero molto considerevole di volte e l’esistenza di un comportamento qualificabile almeno come gravemente colposo”, posto in essere da un preposto ad un’agenzia bancaria, di modeste dimensioni, in parte in prima persona ed in parte attraverso la omissione di qualsiasi controllo sull’operato della vice direttrice A..

In tal modo la sentenza impugnata si è attenuta pienamente al principio più volte affermato da questa Corte secondo cui “in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, allorquando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, il giudice di merito deve esaminarli non partitamente, ma globalmente al fine di verificare se la loro rilevanza complessiva sia tale da minare la fiducia riposta dal datore di lavoro nel dipendente, atteso che la molteplicità degli episodi, oltre ad esprimere un’intensità complessiva maggiore dei singoli fatti, delinea una persistenza che costituisce ulteriore negazione degli obblighi del dipendente ed una potenzialità negativa sul futuro adempimento degli obblighi stessi” (v. Cass. 14-9-2007 n. 19232, cfr. Cass. 27-1-2009 n. 1890, Cass. 5-4-2004 n. 6668).

Il ricorso va pertanto respinto e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese in favore della società controricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese liquidate in Euro 57,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2010

 

 

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