Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6311 del 08/03/2021

Cassazione civile sez. lav., 08/03/2021, (ud. 17/11/2020, dep. 08/03/2021), n.6311

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. BUFFA Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27586/2017 proposto da:

C.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DI VILLA

PAMPHILI, 59, presso lo studio dell’avvocato MARIA SALAFIA,

rappresentato e difeso dagli avvocati VITALIANA VITALETTI BIANCHINI,

RENATO BIANCHINI;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati GIUSEPPE

MATANO, ANTONINO SGROI, EMANUELE DE ROSE, ESTER ADA SCIPLINO, LELIO

MARITATO, CARLA D’ALOISIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 131/2017 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 08/06/2017 R.G.N. 328/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

17/11/2020 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

udito l’Avvocato VITALIANA VITALETTI BIANCHINI;

udito l’Avvocato CARLA D’ALOISIO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza depositata l’8.6.2017, la Corte d’appello di Ancona, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda di C.E. volta alla ricostituzione della propria pensione in conseguenza dei contributi versati dal suo datore di lavoro successivamente alla sua decorrenza, a seguito di sentenza passata in giudicato.

La Corte, in particolare, ha ritenuto che la contribuzione presupposta alla domanda di ricostituzione, risalendo al periodo 1.4.1996-1.2.2002, si fosse irrimediabilmente prescritta e l’INPS, di conseguenza, non potesse più riceversela.

Avverso tali statuizioni C.E. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura, successivamente illustrati con memoria. L’INPS ha resistito con controricorso. A seguito di infruttuosa trattazione camerale, la Sesta Sezione Civile di questa Corte, con ordinanza n. 10644 del 2019, ha rimesso la causa alla pubblica udienza.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di censura, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2934 e 2935 c.c., per avere la Corte di merito ritenuto che i contributi sulla scorta dei quali era stata chiesta la ricostituzione della pensione si fossero prescritti, senza considerare che la loro debenza era stata accertata con sentenza passata in giudicato e che l’INPS, ricevendosi gli importi pagati dal datore di lavoro (ancorchè erroneamente imputandoli al solo anno 2009, invece che al periodo 1.4.1996-1.2.2002), aveva rinunciato per facta concludentia ad opporne la prescrizione, nè era possibile richiederne la ripetizione, ostandovi il precetto di cui all’art. 2940 c.c..

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio per avere la Corte territoriale motivato insufficientemente e comunque erroneamente motivato sulla prescrizione dei contributi senza considerare la natura giudiziale del titolo che ne aveva accertato la debenza e l’avvenuto incasso delle somme da parte dell’INPS.

I due motivi possono essere esaminati congiuntamente, in considerazione dell’intima connessione delle censure rivolte all’impugnata sentenza, e sono infondati.

Questa Corte, giudicando in fattispecie per molti versi sovrapponibile alla presente, ha già avuto modo di chiarire che, essendo l’INPS l’unico titolare dei credito relativo ai contributi previdenziali, gli atti che possono essere idonei ad interromperne la prescrizione, ai sensi dell’art. 2943 c.c., debbono necessariamente provenire dall’istituto previdenziale, irrilevante all’uopo restando l’iniziativa anche giudiziale del lavoratore, perfino quando abbia messo capo alla condanna del proprio datore di lavoro al pagamento dei contributi omessi, qualora l’INPS non abbia partecipato al giudizio (così Cass. n. 7104 del 1992, cui ha dato recentemente continuità Cass. n. 3661 del 2019). E ha motivato tale principio osservando che l’interesse del lavoratore al versamento dei contributi non s’identifica con il diritto spettante all’istituto previdenziale, nè si configura come una posizione di contitolarità in tale diritto o di solidarietà attiva: trattasi infatti d’interesse bensì connesso con il diritto di credito dell’istituto, sia geneticamente (nascendo dal medesimo fatto costitutivo: la costituzione di un rapporto di lavoro) che funzionalmente (per l’ovvia ragione che l’adempimento del debito contributivo ne realizza il soddisfacimento), ma affatto distinto dal credito relativo ai contributi, com’è reso evidente dalla possibilità di una sua tutela anche dopo che si è estinto il diritto dell’istituto al versamento dei contributi, mediante la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno ex art. 2116 c.c. (sia essa per equivalente, sia in forma specifica, attraverso la costituzione di una rendita L. n. 1338 del 1962, ex art. 13).

Sulla scorta di tali affermazioni, che debbono qui essere ribadite, è evidente che, così come nessuna interruzione della prescrizione dei contributi può aversi per fatto che non sia imputabile all’ente previdenziale, nessun rilievo può avere la circostanza che la debenza dei contributi sia stata accertata con sentenza passata in giudicato in un giudizio a cui l’INPS non abbia preso parte: perorare in tal caso l’applicazione dell’art. 2953 c.c. (che, com’è noto, dispone che i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni si prescrivono in dieci anni quando riguardo ad essi sia intervenuta sentenza di condanna passata in giudicato) equivarrebbe a conferire al lavoratore un potere di sostituzione processuale dell’ente previdenziale che non è in alcun modo configurabile (così da ult. Cass. n. 8956 del 2020).

Pertanto, sul presupposto incontroverso che la sentenza invocata nel presente giudizio e recante la condanna al pagamento dei contributi all’INPS sia stata resa esclusivamente tra l’odierno ricorrente e il di lui datore di lavoro, deve logicamente escludersi che la pronuncia qui impugnata abbia violato l’art. 2953 c.c.; ed è appena il caso di aggiungere che, essendo il regime dei contributi caratterizzato dal principio di ordine pubblico dell’irrinunciabilità della prescrizione (così da ult. Cass. n. 31352 del 2018), nessun rilievo può avere la circostanza che l’INPS si sia ricevuto il pagamento, specie considerando che – per stessa ammissione di parte ricorrente – l’ha imputato ad un anno rispetto al quale la prescrizione non si era ancora compiuta.

Il ricorso, pertanto, va rigettato, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza.

Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2021

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