Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 629 del 18/01/2010

Cassazione civile sez. lav., 18/01/2010, (ud. 26/11/2009, dep. 18/01/2010), n.629

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE

MICHELANGELO 9, (STUDIO TRIFIRO’ & PARTNERS), presso lo

studio

dell’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE, che la rappresenta e difende,

giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 366/2007 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 27/09/2007 r.g.n. 2146/05;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del

26/11/2009 dal Consigliere Dott. MAMMONE Giovanni;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso al giudice del lavoro di Milano, P.G. esponeva di essere stato assunto con contratto di lavoro a tempo determinato da Poste Italiane s.p.a. per il periodo 27.3 – 31.5.04 “ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001 per ragioni di carattere sostitutivo correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione del personale inquadralo nell’area operativa e addetto al servizio di recapito presso Polo corrispondenza Lombardia, assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro nel periodo 15.3 – 31.5.04”. Ritenendo illegittima l’apposizione del termine, chiedeva che venisse dichiarata l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

Accolta la domanda e proposto appello da Poste Italiane, che sosteneva la legittimità della apposizione del termine, la Corte di appello di Milano con sentenza 20 – 27.9.07 rigettava l’impugnazione.

La Corte di merito riteneva che il contratto a termine costituisce – pur dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 368 del 2001 – un’eccezione nella disciplina del rapporto di lavoro, distinguendosi per la temporaneità delle esigenze che è chiamato a soddisfare e che, in particolare, devono considerarsi intrinsecamente temporanee le esigenze sostitutive, per loro natura ricollegate ad un evento oggettivo e determinalo quale l’assenza di uno o più lavoratori.

Con riferimento alla posizione P. il giudice di merito, rilevato che egli era stato assegnato all’UDR di Milano Centro Aporti per lo svolgimento dell’attività di recapito e premesso che l’atto scritto conteneva tutti i requisiti richiesti ad integrare la fattispecie sostitutiva – quali il luogo della prestazione, l’inquadramento e le mansioni assegnate, il termine essenziale e finale del rapporto, la causale sostitutiva e le mansioni dei lavoratori da sostituire – riteneva tuttavia inesistente la prova dell’esigenza sostitutiva, non essendo provato che il lavoratore ab initio e per tutto il periodo avesse sostituito altri addetti al recapito.

Quanto alle conseguenze dell’illegittimità riteneva che la violazione del D.Lgs. n. 368, art. 1, commi 1 e 2 comportasse la sanzione della nullità ed estrapolava dal sistema risultante dalla nuova regolazione prevista dal D.Lgs. n. 368 la regola, desumibile dall’art. 5, commi 2 e 3, che in caso di apposizione del termine non consentita il contratto assumesse carattere a tempo indeterminato.

Rilevava, infatti, che lo stesso D.Lgs. 368 pur non recando una norma come quella contenuta nella L. n. 230 del 1962 per la quale il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato salvo le previste eccezioni – prevedeva pur sempre all’art. 5, commi 2 e 4 la trasformazione in rapporto a tempo indeterminato in caso di protrazione ultra tempur del rapporto a termine o di riassunzione a termine ravvicinata. Tale disposizione avrebbe reso incoerente tutto il sistema se non fosse stata accompagnata dall’implicita affermazione che analoga conseguenza deriva anche dal difetto iniziale delle condizioni per la stipula del contratto a termine.

Avverso questa sentenza proponeva ricorso per Cassazione Poste Italiane, mentre P. non svolgeva attività difensiva.

La ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso non è fondato.

Poste Italiane s.p.a., premesse che nel caso fosse rigettato il ricorso dovrebbe trovare applicazione il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 4 bis (introdotto dal D.L. n. 118 del 2008, art. 21 convertito dalla L. n. 133 del 2008), con conseguente concessione all’interessato di una indennità, sottopone alla Corte sette mezzi di impugnazione, che possono essere così sintetizzati.

Con il primo motivo è denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 115 c.p.c. e del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1 sostenendosi che il giudice di merito non avrebbe tenuto in adeguata considerazione le dichiarazioni del teste Pa., sulle base delle quali avrebbe dovuto invece ritenersi provato che nel settore cui era stato addetto il P. si erano verificate assenze del personale fisso e che tale personale era stato sostituito con altro personale assunto a termine.

Con il secondo motivo è dedotta carenza di motivazione a proposito della stessa circostanza di fatto posta a base del motivo che precede, in quanto una volta acquisita la prova che i lavoratori assunti a termine erano stati assunti per sostituire personale di ruolo assente, la sentenza avrebbe dovuto necessariamente concludere per la legittimità dell’assunzione, oppure avrebbe dovuto congruamente esporre i motivi per cui veniva adottata la soluzione opposta.

Con il terzo motivo è dedotta violazione dell’art. 1419 c.c., comma 1, in relazione al D.Lgs. n. 368, art. 1 in particolare contestandosi l’affermazione che dalla disciplina del D.Lgs. in questione possa estrapolarsi la regola che, in caso di apposizione non consentita del termine, il contratto di lavoro a tempo determinato si trasformerebbe in contratto di lavoro a tempo indeterminato. Mentre sotto la vigenza dell’abrogata la norma della L. n. 230 del 1962, art. 1 per la quale il contratto di lavoro doveva presumersi a tempo indeterminato, la nullità del termine dava luogo ad un effetto legale sostitutivo, analogo effetto non è rilevabile sotto la vigenza della nuova normativa che non contiene una disposizione analoga, di modo che deve farsi riferimento ai principi generali sulla nullità del contratto contrario a norma imperativa (art. 1418 c.c.) e, in particolare, sulla nullità parziale (art. 1419 c.c., comma 1), in forza dei quali la nullità di una clausola comporta anche la nullità dell’intero contratto “se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte… colpita da nullità”. Essendo nella lettera di assunzione esplicitamente previsto che il rapporto a tempo determinato si sarebbe estinto ove le esigenze di sostituzione fossero venule meno e che le clausole sulla durata del contratto erano concordemente ritenute essenziali, avrebbe dovuto ritenersi che il contratto non sarebbe mai stato concluso se fossero mancati i presupposti per il tempo determinato ed avrebbe dovuto escludersi la sostituzione automatica, dovendo, invece, dichiarasi la nullità dell’intero contratto.

Con il quarto motivo è censurata la congruità della motivazione.

Questa sarebbe contraddittoria a proposito dell’individuazione – di un principio immanente al sistema secondo il quale in caso di apposizione del termine non consentita il contratto diventerebbe a tempo indeterminato, ravvisandosi l’inconciliabilità di tale affermazione con quella – pure contenuta in sentenza che nel D.Lgs. 368 non esiste una regola del tipo di quella della L. n. 230 del 1962, art. 1 che presumeva di durata indeterminata del contratto di lavoro. Sarebbe insufficiente quando non prende in considerazione l’ulteriore circostanza di fatto che i contraenti avevano qualificato come essenziale il termine, di modo che avrebbe dovuto inferirsene la nullità del contratto nella sua interezza, facendosi applicazione dell’art. 2126 c.c..

Con il quinto motivo è dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c. e nullità del procedimento per la mancata corrispondenza tra quanto chiesto e quanto pronunziato, non essendo stata presa in esame l’eccezione relativa alla non debenza delle retribuzioni medio tempore maturate, in quanto non essendo stata formalmente offerta la prestazione, ai massimo la retribuzione avrebbe dovuto essere concessa dalla notifica del ricorso.

Con il sesto motivo è dedotta carenza di motivazione quanto alla mancata considerazione dell’aliunde perceptum, sostenendosi che sul punto il giudice di appello avrebbe adottato una motivazione di mera forma nell’affermare che il giudice di primo grado già aveva tenuto conto di quanto percepito dall’attore per altre occupazioni, mentre invece lo stesso giudice aveva respinto l’eccezione formulata in proposito da Poste Italiane.

Con il settimo motivo lo stesso profilo dedotto con il motivo che precede sotto il profilo della carenza di motivazione è dedotto sotto il profilo della violazione degli artt. 1218, 1223, 1227, 2099 e 2697 c.c., sostenendosi che comunque, di fronte alla prova dell’avvenuto svolgimento di altra attività lavorativa, il giudice avrebbe dovuto escludere dal risarcimento quanto aliunde perceptum.

Con la memoria depositata ex. art. 378 c.p.c. parte ricorrente deduce che il P., riammesso in servizio in forza dell’esecutorietà della sentenza di merito, è stato successivamente licenziato, di modo che quanto alla richiesti di riassunzione dovrebbe essere dichiarata la cessazione della materia del contendere.

Prendendo in esame i primi due motivi di ricorso in unico contesto, deve rilevarsi che la Corte d’appello (pag. 5, cap. 2, della sentenza) ha ritenuto indimostrata la tesi di parte appellante che il lavoratore assunto a termine aveva sostituito altri addetti al recapito presso l’ufficio cui era stato addetto, sulla base del rilievo che il leste indicato da Poste Italiane (direttore dell’ufficio in questione all’epoca dell’assuntore) non aveva saputo riferire nulla circa l’impiego del P. (di cui non aveva ricordato, anzi, neppure la presenza in ragione del gran numero di dipendenti in servizio) e circa le effettive esigenze sostitutive dell’ufficio nel periodo di durata del contratto. Di fronte a tale valutazione in fatto, parte ricorrerne nel contestare il giudizio di merito del giudice aveva l’onere di riferire esattamente cosa il teste in questione avesse riferito in relazione ai capitoli di prova a lui sottoposti, onde consentire al Collegio di valutare la congruità e la logicità del giudizio espresso.

La carente formulazione dei motivi e la mancanza del requisito dell’autosufficienza comportano la inammissibilità dei primi due mezzi di impugnazione.

Con i motivi terzo e quarto parte ricorrente contesta le conseguenze in diritto tratte dal giudice dopo aver accertato l’illegittima apposizione del termine e procede ad una diversa ricostruzione di diritto (sopra sintetizzata) sostenendo che al caso di specie debba trovare applicazione non l’art. 1419 c.c., comma 2 per il quale la nullità della clausola non comporta la nullità del contratto se la clausola nulla e sostituita di diritto da una norma imperativa, ma il comma 1, per il quale la nullità di una clausola comporta anche la nullità dell’intero contratto “se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte… colpita da nullità”. A sostegno di tale tesi sostiene di aver eccepito nel giudizio di merito che nella lettera di assunzione era esplicitamente previsto che il rapporto a tempo determinato si sarebbe estinto ove le esigenze di sostituzione fossero venute meno e che le clausole sulla durata del contratto erano concordemente ritenute essenziali, di modo che la nullità di una clausola avrebbe fatto venir meno l’interesse (quantomeno) del datore di lavoro al contratto.

Nella motivazione della sentenza impugnata il giudice, tuttavia, pur dando atto in linea generale della proponibilità di tale tesi (pag.

6, “la mancanza nel D.Lgs…di una regola del tipo di quella fondamentale…contenuta nella L. 230 del 1962, per la quale il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato…, potrebbe far ritenere inutilizzabile la sostituzione dell’effetto legale tutte le volte in cui il datore di lavoro dimostri che non avrebbe concluso il contratto senza il termine”), sostiene che tale tesi non è stata neppure prospettata da parte datoriale, implicitamente escludendo anche l’avvenuta deduzione della circostanza di fatto concernente l’inserimento nel contratto della clausola dell’essenzialità del termine.

Di fronte a questa affermazione sarebbe stato onere dell’odierna, ricorrente quello di contestare, prima ancora delle valutazioni di diritto, l’affermazione della non avvenuta proposizione della questione di diritto e della mancata deduzione della circostanza di fatto, indicando i termini esatti ed il luogo processuale dell’avvenuta esposizione. In mancanza di tale contestazione, la questione in oggetto deve ritenersi inabissibilmente sollevata per la prima volta in sede di legittimità.

Dei motivi terzo e quarto, pertanto, può essere esaminata solo questione di fondo sollevata e cioè se possa affermarsi che dal nuovo sistema del D.Lgs. n. 368 del 2001 possa estrapolarsi la regola, desumibile dall’art. 5, commi 2 e 3, per la quale in caso di apposizione non consentita del termine il contratto di lavoro si trasformerebbe in contratto a tempo indeterminato.

Al riguardo deve richiamarsi U giurisprudenza di questa Corte, per la quale il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 anche anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 247 del 2007, art. 39 ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo l’apposizione del termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante l’apposizione del termine “per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Di modo che, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine, e pur in assenza di una norma che sanzioni espressamente la mancanza delle dette ragioni, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale, nonchè alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamalo decreto), e nel sistema generale dei profili sanzionatoti nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine ed alla nullità della clausola di apposizione dello stesso consegue l’invalidità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (Cass. 21.5.08 n. 12985).

Essendosi il giudice di merito attenuto a questo principio i motivi terzo e quarto debbono essere rigettati.

Prima di passare all’esame dei motivi quinto, sesto e settimo, attinenti alle conseguenze patrimoniali della nullità del termine, deve rilevarsi che al caso di specie non può trovare applicazione la norma del D.Lgs. n. 368, art. 4 bis introdotto dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, conv. dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, invocata in subordine da parte ricorrente, atteso che la Corte costituzionale con la sentenza 14.7.09 n. 214 ne ha dichiarato l’incostituzionalità.

Quanto alla circostanza dell’avvenuta riassunzione del P. e del suo successivo licenziamento, divenuto definitivo perchè non impugnato, trainasi di circostanza che in questa sede può essere solo richiamata, non avendo il giudice di merito esaminato questioni ad essa collegato.

Con il quinto motivo si lamenta il mancato esame dell’eccezione della non debenza delle retribuzioni maturate dopo la cessazione del rapporto, non essendo mai stata offerta la prestazione dopo la cessazione del contratto a tempo determinato. Al riguardo va rilevato che il giudice di appello nell’esaminare la sentenza di primo grado ha dato atto della condanna in essa contenuta di Poste Italiane a pagare a titolo risarcitorio le retribuzioni dalla costituzione in mora.

Tale soluzione è conforme alla giurisprudenza di questa Corte (v. la sentenza a S.u. 8.10.02 n. 14381, nonchè, da ultimo, la sentenza 13.4.07 n. 8903) che, con riferimento all’analoga ipotesi della trasformazione in unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a termine succedutisi tra le stesse parti, per l’illegittimità dell’apposizione dei termini, o comunque della violazione delle disposizioni della L. n. 230 del 1962, ha affermato che il dipendente che cessa l’esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine previsto può ottenere il risarcimento del danno subito a causa dell’impossibilità della prestazione derivante dall’ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di riceverla – in linea generale in misura corrispondente a quella della retribuzione – qualora provveda a costituire in mora lo stesso datore di lavoro ai sensi dell’art. 1217 c.c..

Essendo la pronunzia di monto nel suo complesso conforme a questo principio, il motivo deve essere rigettato.

Quanto al sesto ed al settimo motivo, da trattare congiuntamente per l’evidente collegamento tra di loro esistente, deve rilevarsi che la sentenza di appello afferma che “quanto alla scomputabilità dell’aliunde perceptum, nella sentenza appellata il Tribunale ne ha già tenuto conto”. Nel contestare tale affermazione sotto il profilo della carenza di motivazione l’odierna ricorrente avrebbe dovuto innanzitutto riferite l’esatto tenore della prima sentenza sul punto e, soprattutto, riferire i termini esatti dell’eccezione proposta nel giudizio di merito, precisando se aveva dedotto fatti concreti da cui potesse argomentarsi la percezione di un reddito da parte del lavoratore dopo la cessazione del contratto a termine, o se si era limitato ad eccepire genericamente la deducibilità dal risarcimento a lui spettante di quanto percepite nello svolgimento di altre occupazione, così affermando un principio del tutto ovvie.

In mancanza di queste precisazioni il sesto motivo è formulato in termini generici e si rivela inammissibile. Il settimo motivo è di conseguenza, assorbito.

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Nulla deve disporsi per le spese, non avendo il P. svolto attività difensiva.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 26 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2010

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