Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6288 del 05/03/2020

Cassazione civile sez. lav., 05/03/2020, (ud. 12/11/2019, dep. 05/03/2020), n.6288

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28100-2018 proposto da:

G.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OMBRONE 12,

presso lo studio dell’avvocato ALDO LOIODICE, che la rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, MINISTERO DELLA GIUSTIZIA,

in persona dei Ministri pro tempore, rappresentati e difesi

dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domiciliano

in ROMA, ALLA VIA DEI PORTOGHESI 12, ope legis;

– controricorrenti –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 618/2018 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 20/03/2018 r.g.n. 1747/2017.

Fatto

RILEVATO

che con sentenza in data 20 marzo 2018 la Corte d’appello di Bari respinge l’appello proposto da G.F. – già dipendente del Ministero della Giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria con la qualifica di educatrice – avverso la sentenza n. 645/2017 del locale Tribunale, di rigetto: a) della impugnazione della G. del licenziamento con preavviso, intimatole per ripetute assenze ingiustificate dal servizio; b) della opposizione della ricorrente alla cartella di pagamento con la quale il Ministero dell’Economia e delle Finanze (d’ora in poi: MEF) le aveva intimato la restituzione delle somme percepite a titolo di stipendio nei periodi di assenza per malattia, oltre compensi di riscossione e diritti di notifica della cartella stessa;

che la Corte territoriale, per quel che qui interessa, precisa che:

a) dalla precisa e condivisa ricostruzione dei fatti effettuata dal primo giudice e dalla relativa motivazione – contestate in modo del tutto generico – si desume chiaramente che l’appellante è stata assente dal servizio per circa due mesi a decorrere dal (OMISSIS), senza alcuna giustificazione a causa del diniego delle ferie;

b) a ciò va aggiunto che per l’assenza del (OMISSIS) l’interessata non ha mai presentato l’attestato del cancelliere che provasse la partecipazione della ricorrente all’udienza del Tribunale di Bari cui ella aveva detto di aver partecipato;

c) ne consegue che il licenziamento appare del tutto legittimo in quanto l’inadempimento è grave e giustifica la massima sanzione;

d) anche le ulteriori richieste avanzate nel ricorso introduttivo sono da respingere in quanto connesse e dipendenti dall’impugnativa del licenziamento, come affermato dal primo Giudice;

che avverso tale sentenza G.F. propone ricorso, illustrato da memoria, al quale oppongono difese il Ministero della Giustizia e il Ministero dell’Economia e delle Finanze, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato, con un unico controricorso;

che la trattazione della causa fissata per l’odierna udienza non è stata differita, come richiesto con apposita istanza dalla ricorrente, non essendo l’esame del fascicolo d’ufficio – di cui nell’istanza si rilevava la mancata trasmissione – essenziale per l’esame delle censure ed essendo, quindi, da privilegiare il rispetto del principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2.

Diritto

CONSIDERATO

che la ricorrente propone “nominalmente” quattro motivi di ricorso, di cui i primi tre per violazione di molteplici norme di diritto e il quarto per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti;

che, tuttavia le censure indicate, solo con la formulazione delle relative rubriche alle p. 13 e 14 del ricorso, sono poi trattate deliberatamente in modo congiunto perchè destinate “di concerto a censurare la ricostruzione giuridica” operata dalla Corte d’appello e a dimostrare “la legittimità e fondatezza delle pretese avanzate in giudizio” dalla ricorrente;

che una simile ipostazione rende, di per sè, il ricorso inammissibile, come rilevato anche dai controricorrenti;

che, infatti, il ricorso per cassazione non introduce una terza istanza di giudizio con la quale si può far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi invece come un rimedio impugnatorio a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti (Cass. 5 giugno 2007, n. 13070; Cass. SU 29 marzo 2013, n. 7931; Cass. 4 marzo 2016, n. 4293);

che è jus receptum che ciò comporta che il ricorso per cassazione deve essere articolato – anche nella argomentazione – in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (tra le tante: Cass. SU 24 luglio 2013, n. 17931; Cass. 3 luglio 2008, n. 18202);

che, pertanto, i singoli motivi, anche prima della riforma introdotta con il D.Lgs. n. 40 del 2006, assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative di censura formalizzate con una limitata elasticità dal legislatore;

che, di conseguenza, non solo la loro enunciazione ma anche la loro trattazione devono essere ripartite all’interno del ricorso, in quanto se ciò non accade – come avviene nella specie – diventa impossibile delimitare il confine delle censure e la loro reale rispondenza ai motivi, come enunciati, nonchè individuare le statuizioni della sentenza impugnata specificamente impugnate;

che una esposizione delle censure “cumulativa” – quale è quella di cui si tratta – pregiudica la stessa intelligibilità delle questioni proposte, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata, ridondando nella violazione delle prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4 assistite da una sanzione testuale di inammissibilità (vedi, per tutte: Cass. 6 agosto 2014, n. 17698; Cass. 20 ottobre 2016, n. 21297; Cass. 21 marzo 2019, n. 8009);

che a ciò può aggiungersi che le presenti censure – al di là del formale richiamo alla violazione di norme di legge presente nell’intestazione dei primi tre motivi, quale indicati nell’anzidetta elencazione iniziale – fin dall’incipit sopra riportato, non appaiono dirette a impugnare le rationes decidendi su cui si fonda la sentenza in oggetto quanto piuttosto a denunciare, inamissibilmente, l’errata valutazione da parte del Giudice del merito del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti;

che si tratta, quindi, di censure che finiscono con l’esprimere un mero dissenso rispetto alle motivate valutazioni delle risultanze probatorie effettuate dal Giudice del merito, che come tale è di per sè inammissibile;

che a ciò va aggiunto che in base all’art. 360 c.p.c., n. 5 – nel testo successivo alla modifica ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis – la ricostruzione del fatto operata dai Giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto, ovvero sia apparente oppure affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente incomprensibili (Cass. SU 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. SU 20 ottobre 2015, n. 21216; Cass. 9 giugno 2014, n. 12928; Cass. 5 luglio 2016, n. 13641; Cass. 7 ottobre 2016, n. 20207). Evenienze che qui non si verificano;

che per tutte le anzidette ragioni il ricorso va dichiarato inammissibile;

che le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza;

che si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, ove dovuto.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate, in favore dei Ministeri controricorrenti, in Euro 5500,00 (cinquemilacinquecento/00) per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 12 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2020

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