Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6287 del 15/03/2010

Cassazione civile sez. I, 15/03/2010, (ud. 27/01/2010, dep. 15/03/2010), n.6287

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. SALVATO Luigi – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

U.P., rappresentata e difesa dall’Avv. Marra Maria

Teresa, come da procura in calce al ricorso, domiciliata per legge

presso la cancelleria della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI;

– controricorrente –

per la cassazione del decreto della Corte d’appello di Roma

depositato il 25 settembre 2006;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

giorno 27 gennaio 2010 dal Consigliere relatore Dott. Vittorio

Zanichelli.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

U.P. ricorre per cassazione nei confronti del decreto in epigrafe della Corte d’appello che ha accolto parzialmente il suo ricorso con il quale è stata proposta domanda di riconoscimento dell’equa riparazione per violazione dei termini di ragionevole durata del processo iniziato avanti al TAR Campania in data 1 ottobre 1996 e definito in data 21 gennaio 1999 e quindi proseguito avanti al Consiglio di Stato a far tempo dal 12 febbraio 2000 e definito con sentenza depositata in data 8 febbraio 2005.

L’intimata Amministrazione non ha proposto difese. La causa è stata assegnata alla camera di consiglio in esito al deposito della relazione redatta dal Consigliere Dott. Luigi Salvato con la quale sono stati ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La relazione depositata è del seguente letterale tenore:

“1.- La ricorrente, con il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, e degli artt. 6 e 41 della CEDU (art. 360 c.p.c., n. 3), deducendo la diretta applicabilità nell’ordinamento interno della norme della CEDU e delle sentenze della Corte EDU, quindi pone le seguenti questioni:

sono vincolanti i parametri stabiliti dalla Corte EDU: in tema di durata ragionevole del giudizio, pari a due anni per il primo grado e due anni per il secondo; in ordine alla misura dell’indennizzo per il danno non patrimoniale (compreso tra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per ogni anno di durata del giudizio e non di ritardo), salvo dimostrazione ad opera della parte resistente di elementi che possano farli disattendere, con obbligo di liquidare un bonus di Euro 2.000,00 per le controversie in materia assistenziale.

E’, infine, formulato quesito di diritto, con il quale si chiede se i canoni valutativi consolidati dalla giurisprudenza di Strasburgo (…) quanto a parametro temporale del danno, vale a dire commisurato all’intera durata del processo, quantum a liquidarsi sia in riferimento all’importo annuo sia in riferimento al bonus di Euro 2.000,00.

1.2.- Il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 6 e 41 CEDU (art. 360 c.p.c., n. 3) e, dopo avere richiamato una serie di sentenze di questa Corte, pone la questione della efficacia della CEDU nell’ordinamento interno ed è formulato il seguente quesito di diritto: Dica la Suprema Corte adita se la L. n. 89 del 2001 e specificamente l’art. 2 costituisce applicazione dell’art. 6, par. 1 CEDU e in ipotesi di contrasto tra la Legge Pinto e la CEDU, ovvero di lacuna della legge nazionale si deve disapplicare la legge nazionale ed applicare la CEDU? 2.- Il secondo motivo è in parte manifestamente inammissibile, in parte manifestamente infondato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il quesito di diritto richiesto dall’art. 366-bis c.p.c. è inadeguato, con conseguente inammissibilità del motivo di ricorso, quando non sia conferente rispetto alla questione che rileva per la decisione della controversia, quale emerge dall’esposizione del motivo (Cass. S.U. n. 8466 del 2008; n. 11650 del 2008), ovvero quando si risolva in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame (Cass. S.U. n. 6420 del 2008).

Nella specie, sotto un primo profilo, il quesito è manifestamente astratto, quindi inammissibile.

Sotto un secondo profilo è manifestamente infondato.

Infatti, va ribadito il principio enunciato dalle S.U., in virtù del quale il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla L. n. 89 del 2001, deve interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte Europea. Siffatto dovere opera, entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa L. n. 89 del 2001 (sentenza n. 1338 del 2004). In termini analoghi è il principio enunciato dalla Corte costituzionale, che, contrariamente all’assunto dell’istante, che si palesa perciò manifestamente erroneo, ha affermato che al giudice nazionale spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilita della norma interna con la disposizione convenzionale interposta, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117 Cost., comma 1 (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007).

Resta dunque escluso che, in caso di contrasto, possa procedersi alla non applicazione della norma interna, in virtù di un principio concernente soltanto il caso del contrasto tra norma interna e norma comunitaria.

In questi termini è il principio che può essere enunciato in relazione al quesito formulato con il secondo motivo, che rivela la manifesta infondatezza della censura, nei termini in cui è stata proposta.

2.1.- Il primo motivo è soltanto in parte manifestamente fondato e va accolto per quanto di ragione, entro i limiti di seguito precisati.

E’ anzitutto manifestamente erronea la tesi dell’istante, nella parte in cui prospetta la possibilità di stabilire un termine ragionevole di durata del giudizio rigido e predeterminato.

La violazione del principio della ragionevole durata del processo va, infatti, accertata all’esito di una valutazione degli elementi previsti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 (ex plurimis, Cass. n. 8497 del 2008; n. 25008 del 2005; n. 21391 del 2005; n. 1094 del 2005; n. 6856 del 2004; n. 4207 del 2004) e in tal senso è orientata anche la giurisprudenza della Corte EDU (tra le molte, sentenza 1 sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 39758/98).

Tuttavia, i giudici Europei hanno stabilito un parametro tendenziale che fissa la durata ragionevole del giudizio, rispettivamente, in anni tre, due ed uno per il giudizio di primo, di secondo grado e di legittimità.

Ed è questo parametro che va osservato, non quello indicato dall’istante, dal quale è possibile discostarsi, purchè in misura ragionevole e sempre che la relativa conclusione sia confortata con argomentazioni complete, logicamente coerenti e congrue, restando comunque escluso che i criteri indicati nell’art. 2, comma 1, di detta Legge permettano di sterilizzare del tutto la rilevanza del lungo protrarsi del processo (Cass., Sez.un., n. 1338 del 2004; in seguito, cfr. le sentenze sopra richiamate).

Inoltre, va data continuità all’orientamento di questa Corte, secondo il quale:

il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorchè non automatica, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e va ritenuto sussistente, senza bisogno di specifica prova (diretta o presuntiva), in ragione dell’obiettivo riscontro di detta violazione, sempre che non ricorrano circostanze particolari che ne evidenzino l’assenza nel caso concreto (Cass. S.U. n. 1338 e n. 1339 del 2004; successivamente, per tutte, Cass. n. 6898 del 2008; n. 23844 del 2007);

i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte Europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, che deve riferirsi alle liquidazioni effettuate in casi simili dalla Corte di Strasburgo, quindi avendo riguardo ad un importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della posta in gioco, il numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento ed il comportamento della parte istante;

per tutte, Cass., n. 1630 del 2006; n. 1631 de 2006; n. 19029 del 2005; n. 19288 del 2005), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, Cass. n. 6898 del 2008; n. 1630 del 2006; n. 1631 del 2006);

nella quantificazione in misura inferiore allo standard minimo annuo fissato dalla Corte Europea in Euro 1.000,000 non può aversi riguardo generico alla modestia della pretesa azionata, senza prendere in considerazione, comparativamente, le condizioni economiche dell’interessata e raffrontare la natura e l’entità della pretesa patrimoniale (cd. posta in gioco) e la condizione socio- economica del richiedente, al fine di accertare l’impatto dell’irragionevole ritardo sulla psiche di questo (Cass. n. 14955 del 2008; n. 23048 dei 2007);

va escluso che le norme disciplinatrici della fattispecie permettano di riconoscere – come ha invece sostenuto l’istante – una ulteriore somma a titolo di bonus, arbitrariamente indicata in una data entità, svincolata da qualsiasi parametro e dovuta in considerazione dell’oggetto e della natura della controversia. Infatti, come ha chiarito questa Corte, i giudici Europei hanno affermato che il bonus in questione deve essere riconosciuto nel caso in cui la controversia riveste una certa importanza ed ha quindi fatto un elenco esemplificativo, comprendente le cause di lavoro e previdenziali.

Tuttavia, ciò non implica alcun automatismo, ma significa soltanto che dette cause, in considerazione della loro natura, è probabile che siano di una certa importanza (Cass. n. 18012 del 2008). Siffatta valutazione rientra nella ponderazione del giudice del merito che deve rispettare il parametro sopra indicato, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della posta in gioco, il numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento ed il comportamento della parte istante; per tutte, Cass. n. 1630 del 2006; n. 1631 del 2006; n. 19029 del 2005; n. 19288 del 2005), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, Cass. n. 6898 del 2008; n. 1630 del 2006; n. 1631 del 2006).

Il giudice del merito può, quindi, attribuire una somma maggiore – anche il succitato bonus – qualora riconosca la causa di particolare rilevanza per la parte, senza che ciò comporti uno specifico obbligo di motivazione, da ritenersi compreso nella liquidazione del danno, sicchè se il giudice non si pronuncia sul cd. bonus, ciò sta a significare che non ha ritenuto la controversia di tale rilevanza da riconoscerlo (Cass. n. 18012 del 2008).

Infine, va confermato l’orientamento di questa Corte, in virtù del quale la precettività, per il giudice nazionale, non concerne anche il profilo relativo al moltiplicatore di detta base di calcolo:

mentre, infatti, per la CEDU l’importo assunto a base del computo in riferimento ad un anno va moltiplicato per ogni anno di durata del procedimento (e non per ogni anno di ritardo), per il giudice nazionale è, sul punto, vincolante la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, lett. a) ai sensi del quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole, non incidendo questa diversità di calcolo sulla complessiva attitudine della citata L. n. 89 del 2001 ad assicurare l’obiettivo di un serio ristoro per la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo (Cass. n. 11566 del 2008; n. 1354 del 2008; n. 23844 del 2007).

In applicazione di siffatti principi, le censure sono manifestamente fondate limitatamente alla parte concernente la fissazione della durata ragionevole.

In primo luogo, benchè sia possibile individuare degli standard di durata media ragionevole per ogni fase del processo, quando quest’ultimo si sia articolato in vari gradi e fasi, agli effetti dell’apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali occorre avere riguardo all’intero svolgimento del processo medesimo (Cass. n. 8717 del 2006; n. 28864 del 2005).

In secondo luogo, il decreto ha fissato la durata ragionevole del giudizio di secondo grado in anni tre, così discostandosi da quello del giudice Europeo senza fornire alcuna motivazione.

Pertanto, il decreto va cassato e la causa rinviata alla stessa Corte d’appello, in diversa composizione, affinchè provveda al riesame della controversia, provvedendo a fissare il termine di durata ragionevole del processo e ad accertare l’eventuale violazione e la misura dell’indennizzo, nell’osservanza dei principi sopra enunciati, provvedendo anche in ordine alle spese della presente fase.

Pertanto, il ricorso, nei termini sopra precisati, può essere trattato in camera di consiglio, ricorrendone i presupposti di legge.” Ritiene il Collegio di dover condividere le motivazioni della riportata relazione e le conclusioni nella stessa prospettate in ordine alla parziale fondatezza dei motivi di censura.

Deve procedersi dunque alla cassazione del decreto impugnato nella parte in cui ha ritenuto ragionevole una durata di anni tre per il giudizio di secondo grado; non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, non ravvisandosi motivi per discostarsi dagli standards della Corte Europea in ordine alla ragionevole durata del giudizio di secondo grado (anni due) e quindi quantificata in anni tre la durata irragionevole del processo presupposto, in applicazione della giurisprudenza della Corte (Sez. 1, 14 ottobre 2009, n. 21840) a mente della quale l’importo dell’indennizzo può essere ridotto ad una misura inferiore (Euro 750 per anno) a quella del parametro minimo indicato nella giurisprudenza della Corte Europea (che è pari a Euro 1.000 in ragione d’anno) per i primi tre anni di durata eccedente quella ritenuta ragionevole in considerazione del limitato patema d’animo che consegue all’iniziale modesto sforamento mentre per l’ulteriore periodo deve essere applicato il richiamato parametro, la Presidenza del Consiglio dei Ministri deve essere condannata al pagamento di Euro 2.250 a titolo di equo indennizzo per il periodo di anni tre di irragionevole ritardo.

Tenuto conto dell’accoglimento solo parziale della domanda le spese del giudizio di legittimità possono essere compensate in ragione della metà.

PQM

la Corte accoglie nei limiti di cui in motivazione il ricorso, cassa in parte qua il decreto impugnato e, decidendo nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento in favore della ricorrente della somma di Euro 2.250, oltre interessi in misura legale dalla data della domanda; condanna altresì l’Amministrazione alla rifusione delle spese del giudizio di merito che liquida in complessivi Euro 856, di cui Euro 445 per onorari, 311 per diritti e 100 per spese, oltre spese generali e accessori di legge, nonchè della metà di quelle del giudizio di legittimità, che per l’intero liquida in complessivi Euro 700, di cui Euro 600 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge; spese distratte in favore del difensore antistatario.

Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2010

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