Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6276 del 24/02/2022
Cassazione civile sez. trib., 24/02/2022, (ud. 28/01/2022, dep. 24/02/2022), n.6276
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –
Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –
Dott. NAPOLITANO Angelo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 9782/2014 R.G. proposto da:
BMS s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,
rappresentata e difesa dall’avv. Giordano Vittorio e dall’avv.
Escalar Gabriele, presso cui è elettivamente domiciliata in Roma,
via Enrico Tazzoli, n. 6;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,
rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso
cui ha domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 64/07/13 della Commissione tributaria
regionale del Veneto, depositata in data 9 ottobre 2013.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 gennaio
2022 dal consigliere Cataldi Michele.
Fatto
RILEVATO
Che:
1. La BMS s.r.l. ricorre, con tredici articolati motivi, per la cassazione della sentenza n. 64/07/13 della Commissione tributaria regionale del Veneto, depositata in data 9 ottobre 2013, che ha rigettato l’appello della contribuente contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Vicenza, che aveva rigettato il ricorso della medesima società avverso l’avviso di accertamento notificatole dall’Agenzia delle entrate ed avente ad oggetto la maggiore Ires, relativa all’anno di imposta 2004.
Nella sentenza impugnata il giudice a quo richiama in fatto la descrizione della fattispecie contenuta nell’avviso di accertamento, rappresentata dal contratto di prestito alla BMS s.r.l. di azioni della società Mont Bazon, società avente sede nella zona franca di Madeira, da parte della DFD Czech, società di diritto ceco, che era titolare dei titoli azionari prestati.
La CTR rileva che il contratto realizzerebbe ” (…) una “frode” fiscale (la stipula di un contratto in frode alla legge ex art. 1344 c.c. al solo scopo di conseguire un risparmio fiscale (…) nullo in quanto la causa è una frode (inesistente scommessa sull’entità della misura dei dividendi distribuiti da una terza società, controllata di fatto da una delle parti) … è evidente che la BMS s.r.l. non può sostenerne l’opponibilità”.
L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
E’ in atti memoria della ricorrente.
Diritto
CONSIDERATO
Che:
1. Con il primo motivo di ricorso la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 56, per avere la CTR omesso di pronunciarsi sul motivo d’appello relativo all’eccepita violazione, da parte dell’Ufficio, dell’obbligo, di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, di valutare, nella motivazione dell’avviso d’accertamento le osservazioni al processo verbale di constatazione, depositate dalla contribuente nella fase procedimentale. Assume la ricorrente che il giudice a quo ha “travisato” la relativa eccezione ed il conseguente motivo d’appello, essendosi pronunciato su questione diversa, relativa alla legittimità dell’accertamento emesso prima del decorso del termine dilatorio di 60 giorni dalla notifica alla contribuente del p.v.c. quando, come ha ritenuto nel caso di specie, sussistano particolari motivi d’urgenza, espressamente indicati dall’Ufficio.
2.Con il secondo motivo di ricorso, in subordine al primo, la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, perché, ove si ritenesse che con la predetta argomentazione sul termine dilatorio la CTR si sia pronunciata sul motivo effettivamente proposto dalla contribuente, rigettandolo, allora la relativa motivazione sarebbe, in parte qua, meramente apparente, non essendo affatto pertinente all’eccepita violazione, da parte dell’Ufficio, dell’obbligo di valutare, nella motivazione dell’avviso d’accertamento, le osservazioni al processo verbale di constatazione, depositate dalla contribuente nella fase procedimentale.
3.Con il terzo motivo di ricorso, in ulteriore subordine rispetto al secondo, la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, per avere la CTR “omesso di accertare se l’Ufficio abbia rispettato l’obbligo previsto dall’art. 12 Statuto del contribuente, comma 7, di valutare le osservazioni della contribuente”.
4. Con il quarto motivo di ricorso la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 56, per avere la CTR omesso di pronunciarsi sul motivo d’appello relativo all’eccepita contraddittorietà della motivazione dell’atto impositivo, fondato a detta della contribuente su ragioni plurime ed inconciliabili (l’abuso del diritto, la nullità del contratto ex artt. 1343 e 1344 c.c., l’inesistenza dei dividendi distribuiti dalla società portoghese).
5. Con il quinto motivo di ricorso, in subordine al quarto, la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione dell’artt. 132 c.p.c. e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, perché, ove si ritenesse che la CTR si sia pronunciata sul motivo in questione, rigettandolo con l’argomentazione secondo cui ” in merito all’asserita carenza di motivazione dell’avviso impugnato, si condivide quanto esposto dalla sentenza di primo grado sul fatto che il contenuto dell’atto ha consentito alla società contribuente di conoscere perfettamente le pretese dell’Ufficio e quindi di esercitare il diritto di difesa”, allora la relativa motivazione sarebbe, in parte qua, meramente apparente, non essendo pertinente all’eccezione della contribuente.
6.Con il sesto motivo di ricorso, in ulteriore subordine rispetto al quinto, la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, per avere la CTR “omesso di accertare se l’avviso d’accertamento reca effettivamente motivazioni plurime e contraddittorie tra loro”.
7.Con il settimo motivo di ricorso la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata in ordine al fatto, controverso e decisivo, ” se la motivazione dell’avviso di accertamento impugnato contestasse a BMS l’integrazione dei medesimi presupposti cui è condizionata una contestazione di elusione ai sensi del D.P.R. n. 600, art. 37-bis.”
8.Con l’ottavo motivo di ricorso, in subordine al primo, la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa il fatto, controverso e decisivo, che ” la motivazione dell’avviso di accertamento impugnato contesta a BMS l’integrazione dei medesimi presupposti cui è condizionata una contestazione di elusione ai sensi del D.P.R. n. 600, art. 37-bis.”.
9.Con il nono motivo di ricorso la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 20 settembre 1973, n. 600, artt. 37-bis, 39 e 42; della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3; e degli artt. 1325,1343,1344 e 1345 c.c. e 12 preleggi.
Sostiene la contribuente che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di secondo grado, i contratti conclusi per scopi esclusivamente fiscali non possono reputarsi nulli per mancanza di causa o per illiceità della causa o perché conclusi in frode alla legge e che, laddove questa Corte ha ritenuto contestabile la nullità del negozio per frode alla legge tributaria (Cass. 26/10/2005, n. 20816; Cass26/06/2009, n. 15029), lo ha fatto con riguardo a operazioni poste in essere prima della entrata in vigore della norma antielusiva del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis; mentre lo specifico regime d’inopponibilità dei negozi conclusi in frode alla legge tributaria introdotta da tale ultima norma preclude l’applicazione, per le materie ed operazioni così individuate, del principio di nullità dei negozi per frode alla legge sancito dall’art. 1344 c.c.. Aggiunge che la disposizione di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, non consente di contestare la nullità dei contratti conclusi in elusione dalla legge tributaria con effetto dalla sua entrata in vigore. Assume, inoltre, che la norma antielusiva del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis ed i relativi obblighi di contraddittorio preventivo devono trovare applicazione ogniqualvolta sia contestata l’integrazione dei relativi presupposti di applicabilità, ponendosi altrimenti la norma in contrasto con i principi costituzionali di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost e di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., poiché legittimerebbe l’Ufficio a negare le garanzie così individuate, ricorrendo all’espediente di contestare la nullità dei negozi posti in essere dal contribuente.
In sintesi, deduce che la violazione delle disposizioni di carattere fiscale non comporta mai la nullità del contratto posto in essere dal contribuente, in quanto l’Amministrazione finanziaria, per eccepire l’inopponibilità degli effetti di tale contratto, è tenuta altresì a dimostrare l’aggiramento di specifici divieti ed obblighi tributari, nonché il conseguimento di un vantaggio fiscale indebito perché ottenuto in elusione di tali divieti e obblighi.
10. Con il decimo motivo di ricorso la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1325,1343,1344,1345,1362,1367,1414,1418,1813,1815 e 1933 c.c., per avere i giudici di secondo grado negato di poter sussumere il contratto di prestito di azioni nella tipologia del mutuo disciplinato dall’art. 1815 c.c., ritenendo che esso configurasse invece un contratto aleatorio.
I giudici, ad avviso della ricorrente, hanno in tal modo violato non solo l’art. 1362 c.c., perché hanno interpretato il contratto in modo opposto alla comune intenzione delle parti contraenti, desumibile dal tenore letterale delle clausole, ma anche l’art. 1815 c.c., avendo ritenuto che la determinazione del corrispettivo costituisca elemento essenziale del contratto di mutuo, come tale idoneo ad incidere sulla sua causa.
Le parti, aggiunge la ricorrente, in realtà, avevano inteso concludere un contratto di mutuo, come emergeva dalle clausole del contratto e dal loro comportamento.
11. Con l’undicesimo ed il dodicesimo motivo di ricorso la ricorrente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, censura la decisione impugnata per insufficienza della motivazione (undicesimo motivo) o, in subordine, per omesso esame (dodicesimo motivo) circa fatti decisivi che erano stati oggetto di discussione tra le parti.
Precisa, al riguardo, che la CTR ha omesso di esaminare sia il fatto che l’utile di esercizio di Mont Bazon dipendeva esclusivamente dai risultati realizzati dall’organismo di investimento indipendente Selected Capital Opportunity; sia le ulteriori prove fornite a dimostrazione del fatto che la DFD non era in grado di predeterminare l’ammontare dei dividendi distribuiti da Mont Bazon e quindi l’ammontare della commissione da versare, dipendendo l’utile della società portoghese a sua volta interamente dai proventi ricevuti dall’organismo di investimento, terzo e indipendente, in cui deteneva una partecipazione per l’acquisto della quale aveva investito l’intero patrimonio; sia la circostanza che la stessa DFD, nel contratto concluso con la contribuente, si era comunque obbligata a deliberare la distribuzione integrale degli utili realizzati da Mont Bazon.
12. Con il tredicesimo motivo di ricorso la ricorrente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, e della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, commi 4 e 4-bis, per avere la CTR erroneamente escluso la deducibilità dal reddito imponibile Ires delle commissioni pagate dalla contribuente a DFD, in quanto costi sostenuti in dipendenza di contratti civilisticamente nulli. Sostiene la ricorrente che, a mente dell’art. 109, comma 5, l’inerenza dei componenti negativi di reddito alla determinazione dell’imponibile Ires è correlata al solo fatto che si riferiscano ad attività e beni da cui derivino ricavi, o altri proventi, che concorrano a formare il reddito o che fruiscano di un regime di esclusione, presupposto sussistente nel caso di specie atteso che la commissione era stata sostenuta per il prestito di azioni che erano produttive di proventi imponibili per il 5 per cento del loro ammontare. D’altro canto, la L. n. 537 del 1993, art. 14, commi 4 e 4-bis, confermano la deducibilità dei costi derivanti da contratti soltanto civilisticamente illeciti, operando il divieto di deduzione nel solo caso in cui i costi derivino da acquisti di beni e servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti per i quali il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale.
Aggiunge poi la ricorrente che in tema d’Iva la giurisprudenza comunitaria esclude che l’annullamento del contratto di vendita, per effetto di una disposizione civile che sanzioni tale contratto con la nullità assoluta in quanto contrario all’ordine pubblico per una causa illecita perseguita dall’alienante, comporti necessariamente la perdita del diritto alla deduzione dell’imposta sul valore aggiunto. La stessa ricorrente premette inequivocabilmente che è estranea al presente giudizio la materia dell’Iva, nel contesto della quale lo stesso motivo colloca il principio giurisprudenziale in questione, enfatizzando, anche graficamente, che esso è stato elaborato proprio sul presupposto che il diritto alla detrazione dell’Iva, in quanto parte integrante del meccanismo dell’imposta indiretta armonizzata, non può essere soggetto a limitazioni. Tuttavia, secondo la ricorrente, esso, per “osmosi”, andrebbe considerato ai fini della presente controversia, quanto meno come conferma che la nullità civilistica di un contratto, per mancanza o illiceità della sua causa, non comporti di per sé l’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria dei relativi effetti fiscali.
13. I motivi di ricorso principale, esaminati congiuntamente perché connessi, sono in parte inammissibili ed in parte infondati e vanno rigettati, anche se la motivazione della decisione impugnata deve essere corretta, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..
13.1. La fattispecie in esame ha ad oggetto la stipula di un contratto denominato stock /ending agreement tra la odierna ricorrente e la società ceca DFD, che consiste in un prestito di titoli contro pagamento di una commissione (fee) e contestuale costituzione da parte del mutuatario (borrower) di una garanzia, rappresentata da denaro o da altri titoli di valore complessivamente superiore a quello dei titoli ricevuti in prestito, chiamata Collaterale, a favore del mutuante (lender), a garanzia dell’obbligo di restituzione dei titoli ricevuti.
Come già chiarito da questa Corte, “I vantaggi che il contratto di stock lending consente di conseguire al soggetto che presta i titoli vanno individuati nella possibilità di beneficiare di margini reddituali senza assumere ulteriori rischi di mercato rispetto a quelli già presenti in portafoglio, mantenendo inalterata la flessibilità nella gestione dell’investimento senza ostacolare in alcun modo le scelte operative. Autorevole dottrina, occupandosi dell’argomento, ha posto in rilievo che la fattispecie in esame è di norma caratterizzata dall’assenza di qualsiasi alea contrattuale in ordine al versamento della commissione, ben sapendo le parti sin dalla conclusione del contratto che il prestatario dovrà pagare la fee, sia che l’importo di tale commissione sarà più o meno equivalente al valore dei dividendi distribuiti. Si e’, pertanto, ritenuto che, sul piano civilistico, l’operazione sia sostanzialmente “neutrale” per il prestatario che ottiene unicamente un vantaggio fiscale, che gli deriva dalla intassabilità dei dividendi riscossi e dalla integrale deducibilità della commissione versata al prestatore.” (Cass. 13/04/2021, n. 9628, in motivazione).
13.2. Nel caso di specie, la ricorrente ha sottoscritto con la società ceca DFD Czech un contratto di prestito di azioni della Mont Bazon (società unipersonale portoghese, con sede nella zona franca di Madeira, di cui era unica azionista la DFD Czech); la Mont Bazon aveva interamente investito il suo attivo in una quota di partecipazione totalitaria in un comparto della Selected Capital Opportunity Ltd, avente sede nelle Isole Vergini britanniche. A garanzia delle obbligazioni economiche scaturenti dal contratto, la BMS s.r.l. ha depositato su un proprio conto corrente, acceso presso la Banca di Gestione Patrimoniale S.A., appartenente al gruppo bancario Credit Suisse, una provvista in denaro (collateral); la proprietà ed il possesso qualificato delle azioni sono stati temporaneamente trasferiti alla ricorrente, che le ha concesse in pegno alla DFD Czech, per garantirne la restituzione alla scadenza del prestito, ed i relativi titoli sono stati depositati presso la Ing Trust di Hong Kong; i diritti economici pertinenti alle azioni sono stati trasferiti alla ricorrente, mentre quelli amministrativi sono rimasti in capo alla DFD Czech (che si è impegnata sia a non votare, senza l’approvazione scritta della BMS s.r.l., nell’assemblea della Mont Bazon la trasformazione, la fusione, la scissione o la liquidazione della società portoghese; sia a deliberare l’integrale distribuzione dell’utile di esercizio conseuito dalla società portoghese).
Il contratto tra le società prevedeva che se la Mont Bazon avesse distribuito dividendi inferiori ad Euro 220.000,00, BMS s.r.l. non avrebbe dovuto corrispondere alla DFD Czech alcuna commissione (fee); se, invece, la Mont Bazon avesse distribuito dividendi per un ammontare uguale o superiore ad Euro 220.000,00, BMS s.r.l. avrebbe dovuto corrispondere alla DFD Czech una fee di importo pari agli stessi utili, maggiorata di una posta pari 15,22% dell’ammontare di questi ultimi, ma comunque non superiore ad Euro 346.000,00.
Dal punto di vista fiscale, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 3, i dividendi percepiti dalla BMS s.r.l. erano esenti da imposta sino al 95 per cento del loro ammontare, mentre l’eventuale commissione pagata dalla stessa BMS s.r.l. alla DFD Czech veniva integralmente dedotta stesso D.P.R., ex art. 109.
13.3. La CTR, con la decisione impugnata in questa sede, dopo aver rilevato che non si trattava di un’ elusione disciplinata dallo stesso D.P.R., art. 37-bis, nel valutare la complessiva operazione, nel corso della quale i dividendi distribuiti non erano mai stati inferiori alla soglia di Euro 220.000,00, ha affermato che il contratto realizzerebbe una frode fiscale, essendo diretto al solo scopo di conseguire un risparmio fiscale, e sarebbe nullo, essendo inesistente la scommessa sull’entità della misura dei dividendi distribuiti.
13.4. Tanto premesso, ritiene il collegio che la decisione impugnata sia da confermare, sebbene la motivazione vada corretta, ex art. 384 c.p.c., come è possibile, qualora la questione giuridica sottesa sia comunque da disattendere, finanche nell’ipotesi in cui la motivazione resa dal giudice dell’appello sia, rispetto ad un dato motivo, sostanzialmente apparente (Cass. 01/03/2019, n. 6145; Cass. 18/11/2019, n. 29880).
Deve, innanzitutto, rilevarsi che sfugge alla disponibilità delle parti e spetta al giudice la determinazione della norma in base alla quale si deve giudicare la singola fattispecie. Nel caso in esame, sostanzialmente le parti concordano sull’esistenza e sul contenuto degli accordi di prestito di azioni, mentre controvertono soltanto sull’individuazione della soluzione giuridica di riferimento, in ordine alla quale la Corte ritiene, come già argomentato nelle precedenti decisioni su analoghe questioni, che l’operazione in esame debba essere traguardata ai sensi del combinato disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 8, e art. 89.
Infatti, in fattispecie analoga, questa Corte ha già ritenuto, con orientamento consolidato da una serie di pronunce conformi, che “In tema di imposte sui redditi, l’operazione di “stock lending”, ossia di prestito di azioni, che preveda, a favore del mutuatario, il diritto all’incasso dei dividendi dietro versamento al mutuante di una commissione (corrispondente, o meno, all’ammontare dei dividendi riscossi) realizza il medesimo fenomeno economico dell’usufrutto di azioni, senza che rilevi, ai fini tributari, che in un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, su un diritto di credito, sicché è soggetta ai limiti previsti dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, restando il versamento della commissione costo indeducibile.” (Cass. 12/05/2017, n. 11872; conformi Cass. 28/09/2020, n. 20424; Cass. 23/03/2021, n. 8061; Cass. 13/04/2021, n. 9628; Cass. 09/06/2021, n. 16145).
Nella formulazione vigente ratione temporis, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, dispone: ” In deroga al comma 5 non è deducibile il costo sostenuto per l’acquisto del diritto d’usufrutto o altro diritto analogo relativamente ad una partecipazione societaria da cui derivino utili esclusi ai sensi dell’art. 89″.
Come è stato evidenziato nei citati arresti giurisprudenziali, l’usufrutto di azioni è un’operazione finanziaria con la quale viene concesso il diritto a percepire i dividendi distribuiti da un’altra società, a fronte di un corrispettivo comprensivo del valore attuale dei flussi futuri di utili. Il cedente, pertanto, percepisce anticipatamente l’entità del dividendo sotto forma di corrispettivo per la cessione dell’usufrutto e il cessionario inscrive in bilancio, nell’attivo patrimoniale immateriale, il corrispondente onere. Il predettoart. 109, comma 8, dispone l’indeducibilità tributaria del costo così sostenuto, quando vengano in rilievo partecipazioni societarie da cui derivino utili esclusi da tassazione, individuando un parallelismo tra la deducibilità del costo dell’usufrutto su azioni ed imponibilità dei dividendi derivanti dalla sottostante partecipazione.
Anche nel contratto di stock /ending, come nell’usufrutto di azioni, il trasferimento (temporaneo) della titolarità del diritto a percepire il dividendo si associa ad un costo, rappresentato dalla commissione.
Il fenomeno, ad un’analisi economica e giuridico-tributaria oggettiva e sostanziale, è dunque lo stesso, senza che assuma rilievo, ai fini tributari (gli unici che qui rilevano, non essendovi la necessità di una declinatoria civilistica sul contratto), la circostanza che nell’un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, in un diritto di credito, anche perché la stessa disposizione citata si riferisce letteralmente “ad altro diritto analogo”, senza ulteriori connotazioni, ” sicché non va intesa come meramente confinata ai soli diritti reali (interpretazione che, del resto, avrebbe una valenza abrogatoria), non deponendo in tal senso né la lettera, né lo spirito della disposizione”, per cui l’interpretazione adottata non realizza alcuna impropria estensione analogica del dettato della norma (Cass. n. 11872 del 2017, cit.).
Pertanto, il costo sostenuto (ovvero la commissione) dal prestatario (borrower) per l’operazione di stock /ending deve ritenersi indeducibile come quello sostenuto dall’usufruttuario per l’acquisto del diritto d’usufrutto.
Non sembra fondata la considerazione, avanzata in dottrina, che critica l’indeducibilità del cd. “manufactured dividend”, sostenendo che la pronuncia di questa Corte (Cass. n. 11872 del 2017, cit.), che per prima ha ricondotto la fattispecie in esame alla violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, avrebbe travisato le ragioni dell’indeducibilità del costo dell’usufrutto su partecipazioni, che non si collegherebbe alla percezione, da parte dell’usufruttuario, di dividendi esclusi da imposta, ma alla simmetrica intassabilità della plusvalenza in capo al soggetto che ha costituito l’usufrutto. Tale argomento non pare sostenibile di fronte al dato testuale della norma, che equipara il “diritto di usufrutto” ad ogni “altro analogo diritto” e fa discendere l’indeducibilità del costo per l’acquisto del diritto al fatto che dalla partecipazione acquisita derivino utili esenti, ai sensi del ridetto art. 89, senza che al riguardo spieghi alcuna incidenza (diversamente da quanto opinato da parte ricorrente nella memoria illustrativa) il regime di imposizione cui è assoggettato il “prestatore” delle azioni (cfr. Cass. 09/06/2021, n. 16145, cit., in motivazione, al punto 16.4).
Del resto, la considerazione sul senso della “simmetria fiscale”, che sarebbe stata infranta dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità che prende le mosse dalla sentenza del 2017, non si adatta alla fattispecie in esame, perché, se è vera l’intassabilità della plusvalenza in capo al soggetto che ha costituito l’usufrutto, mediante lo strumento indiretto del prestito titoli con commissioni non vi potrebbe mai essere in radice qualsivoglia plusvalenza, non essendovi un contratto traslativo.
Anche la circostanza che il legislatore abbia introdotto nel tempo specifiche clausola antielusive per l’ipotesi, ad esempio, di dividend washing, nei contratti di pronti contro termine o nelle vendite di partecipazioni con patto di riacquisto, non contrasta con l’interpretazione normativa prospettata, ma significa soltanto che, a parte la clausola generale estensiva del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, si è voluta dare regolamentazione specifica a talune fattispecie di confine, altrimenti difficilmente qualificabili.
13.5. Dunque il fulcro della ripresa a tassazione – pur nel contesto della qualificazione giuridica dell’operazione, ai fini fiscali, ai sensi del combinato disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 8, e art. 89 – continua ad individuarsi, in fatto, nel medesimo presupposto, ovvero nella contestazione dell’indebita deduzione integrale dal reddito fiscalmente imponibile della fee corrisposta, contemporaneamente all’esclusione da tassazione del 95 per cento dei dividendi distribuiti dalla Mont Bazon. Ciò che costituisce (al netto delle argomentazioni – già definite irrilevanti nei citati arresti di legittimità – spese per ricondurre la fattispecie in esame a figure negoziali nulle sotto il profilo civilistico, ovvero ad ipotesi elusive) il nucleo dell’avviso d’accertamento e della motivazione della sentenza impugnata.
Non vi e’, dunque, motivo per discostarsi dalle precedenti pronunce di questa Corte già ampiamente citate.
14. Per quanto fin qui detto il ricorso principale va complessivamente rigettato, essendo infondato il tredicesimo motivo, sulla violazione dell’art. 109 T.U.I.R., ed inammissibili, o comunque infondati, tutti gli altri, perché irrilevanti o non decisivi alla luce dell’interpretazione normativa adottata.
14.1. Invero, ricondotto lo stock /ending nel perimetro del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, divengono inammissibili, perché irrilevanti, le doglianze della contribuente nella parte in cui censurano, per vari aspetti, la violazione della disposizione antielusiva dettata dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, non applicandosi quest’ultima al caso de quo, anche per il riflesso conseguente sulla parte motiva dell’accertamento.
14.2. Per tali ragioni, non rileva che l’Amministrazione non abbia seguito il procedimento richiesto dall’art. 37-bis per la contestazione al contribuente di fattispecie elusive. Quanto invece alle pretesa violazione, da parte dell’Ufficio, della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, perché non avrebbe valutato, nella motivazione dell’avviso d’accertamento, le osservazioni al processo verbale di constatazione, depositate dalla contribuente nella fase procedimentale, deve rilevarsi che sono infondati i primi tre motivi del ricorso, che possono essere trattati congiuntamente per la loro connessione.
Invero, la motivazione resa dalla CTR, incentrata sulla questione del rispetto dei termini di cui al predetto comma 7, deve essere integrata in diritto, tenendo conto del dato di fatto emergente oggettivamente dallo stesso avviso riprodotto nel ricorso, a pag. 5 del quale l’Ufficio ha dato atto delle osservazioni della contribuente, sintetizzandone il contenuto e facendo ad esse seguire il proprio dissenso che, per quanto sintetico, è comunque puntuale in ordine agli elementi essenziali della specie del contratto concluso, dell’antieconomicità, del vantaggio fiscale, delle perdite e dell’individuazione dei dividendi e delle commissioni imputate a bilancio. Non sussiste pertanto quella totale pretermissione della considerazione delle osservazioni della contribuente lamentata dalla ricorrente, tanto più che, come questa Corte ha già chiarito, è valido finanche l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente L. n. 212 del 2000, ex art. 12, comma 7, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo (come comunque ha fatto nel caso di specie) (Cass. 31/03/2017, n. 8378).
14.3. Infondato è il quarto motivo di ricorso, che denuncia un’omessa pronuncia, sul motivo d’appello relativo all’eccepita contraddittorietà della motivazione dell’atto impositivo, che non sussiste. Infatti la CTR, pronunciandosi, anche per relationem con la sentenza di primo grado, sull'”asserita carenza di motivazione”, ha affermato che il contenuto dell’atto ha consentito alla contribuente di conoscere le pretese dell’ufficio e di esercitare il proprio diritto di difesa.
Il sintetico riferimento letterale della CTR alla “carenza” non è tale da escludere che la pronuncia, e la sua motivazione, non si estendano anche alla pretesa contraddittorietà della motivazione dell’atto impositivo, come è reso evidente dalla ratio decidendi, ancorata al dato decisivo dell’esclusione che la motivazione dell’accertamento abbia inciso negativamente sull’effettivo diritto di difesa della contribuente. Tale argomentazione, infatti, ben si presta a ricomprendere, nella pronuncia della CTR, anche l’esclusione che la pretesa alternatività delle ragioni giustificatrici della pretesa abbia dato luogo a quella compromissione dell’esercizio della difesa della controparte, al quale il motivo di ricorso fa riferimento. Non vi è quindi l’omessa pronuncia sul relativo motivo d’appello; né, per le medesime ragioni, mera apparenza della relativa motivazione resa dalla CTR che, per quanto sintetica, consente di ricostruire il percorso logico-giuridico seguito dal giudice a quo. E’ quindi infondato anche il quinto motivo.
Inammissibile è poi il sesto motivo, considerato l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nella versione novellata dall’art. 54 D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile in considerazione della data di deposito della sentenza impugnata), poiché la censura sostanzialmente non attinge (come è necessario: cfr. Cass. 06/09/2019, n. 22397, ex plurimis), un “fatto”, ovvero un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, come tale non ricomprendente questioni o argomentazioni, ma la valutazione, da parte del giudice di merito, della legittimità della motivazione dell’accertamento.
Tutto ciò premesso, deve peraltro aggiungersi che, sotto il profilo che qui rileva, il fatto-presupposto dell’imposta, ovvero il contratto di stock /ending concluso dalla contribuente, costituisce un dato oggettivo pacificamente incluso nella parte motiva dell’accertamento.
14.4. Poiché, come detto, alla luce delle argomentazioni sulla natura dell’operazione già esplicate, non rileva la pretesa violazione della disposizione antielusiva dettata dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, anche nei suoi aspetti procedimentali, sono inammissibili anche il settimo e l’ottavo motivo, che censurano la motivazione della sentenza impugnata sul punto.
14.5. Inammissibili per irrilevanza, alla luce delle argomentazioni sulla natura dell’operazione già esplicate, sono pure le censure attinenti alla qualificazione della natura del contratto da un punto di vista strettamente civilistico, nonché alla sua validità ed efficacia (anche con riferimento alla mancanza o all’illiceità della causa o alla frode alla legge), ed in particolare il nono ed il decimo motivo.
14.6. Pure inammissibili sono i mezzi di gravame (in particolare l’undicesimo ed il dodicesimo motivo) con i quali si censurano gli accertamenti della CTR in merito al controllo esercitato dalla DFD Czech sulla Mont Bazon ed alla possibilità della prima di predeterminare i dividendi distribuiti dalla seconda; oltre che in ordine alla circostanza che l’utile di esercizio di Mont Bazon dipendeva esclusivamente dai risultati realizzati dall’organismo di investimento indipendente Selected Capital Opportunity.
L’undicesimo motivo è invero inammissibile anche perché formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella versione precedente a quella novellata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134. Infatti, in considerazione della di deposito della sentenza impugnata, è proprio la versione novellata che deve applicarsi al caso di specie, configurandosi il vizio denunciabile (e denunciato comunque con il dodicesimo motivo) come ” omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.”.
Ma anche ai fini del dodicesimo motivo, l’accertamento censurato era stato compiuto dal giudice di merito in quanto strumentale alla declaratoria di nullità del contratto di stock lending, in una prospettiva d’indagine superata dalla sussunzione della vicenda nell’alveo del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, rispetto alla quale i fatti in questione non appaiono decisivi.
Inoltre, le censure sollecitano un nuovo e differente apprezzamento di circostanze fattuali (attraverso il riesame delle emergenze istruttorie e l’apprezzamento di attendibilità e di concludenza di determinati documenti), attività esclusivamente riservata al giudice di merito.
14.7. Infondato, come anticipato, è il tredicesimo motivo (con cui si sostiene la deducibilità dei costi derivanti da contratti civilisticamente nulli), in quanto argomentato sull’insussistente presupposto della invalidità dello stock lending e sull’applicabilità nella specie del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, mentre nel caso di specie, per le ragioni già esposte, si deve applicare il comma 8 della medesima disposizione, con la conseguente indeducibilità dei costi.
Premesso che l’esclusione della nullità assoluta del contratto in questione esclude ogni rilevanza della relativa questione ai fini della presente decisione, giova peraltro sottolineare che nel medesimo motivo la stessa ricorrente, nel riferirsi alla giurisprudenza comunitaria in tema d’Iva (secondo cui l’annullamento del contratto di vendita, per effetto di una disposizione civile che sanzioni tale contratto con la nullità assoluta, in quanto contrario all’ordine pubblico per una causa illecita perseguita dall’alienante, non comporterebbe necessariamente la perdita del diritto alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto), sottolinea inequivocabilmente che il principio in questione è stato elaborato sul presupposto che il diritto alla detrazione dell’Iva, in quanto parte integrante del meccanismo dell’imposta indiretta armonizzata, non può essere soggetto a limitazioni. Tuttavia la materia dell’Iva, come rilevato nello stesso mezzo, è pacificamente estranea a questo giudizio.
15. Deve infine rilevarsi che la ricorrente, nella memoria, deduce la sopravvenienza dello ius superveniens recato dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, art. 15, quale lex mitior, in materia di sanzioni irrogate con lo stesso avviso d’accertamento, allegando, per l’effetto, l’applicabilità – in concreto di una sanzione tributaria inferiore a quella comminata.
Solo in parte qua, pertanto, la sentenza impugnata va cassata (Cass. 16/09/2020, n. 19286), con rinvio al giudice a quo perché, in applicazione dell’indicato ius superveniens del D.Lgs. n. 158 del 2015, art. 15, ridetermini le sanzioni e provveda, altresì, alla liquidazione delle spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
rigetta i motivi di ricorso; pronunciando sul ricorso, cassa la sentenza impugnata in merito alle sanzioni e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, per la quantificazione delle stesse, oltre che per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 28 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2022