Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6261 del 10/03/2017

Cassazione civile, sez. II, 10/03/2017, (ud. 22/11/2016, dep.10/03/2017),  n. 6261

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18195/2012 proposto da:

XX, attestamente – a seguito di fusione per

incorporazione del 12/12/2012 – società ZZ, elettivamente

domiciliato presso lo studio

dell’avvocato PAOLO ZUCCHINALI, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato VITTORIO PROVERA;

– ricorrente –

contro

YY, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato ANTONIO BRIGUGLIO, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3062/2011 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 14/11/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/11/2016 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO;

udito l’Avvocato Guido CHIODETTI, con delega orale dell’Avvocato

ZUCCHINALI PAOLO, difensore del ricorrente che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avvocato BRIGUGLIO Antonio, difensore del resistente che ha

chiesto l’inammissibilità o, in subordine rigetto del ricorso con

le conseguenze di legge;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità o, in

subordine, per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del 1995 la società YY, premesso che con contratto preliminare del 6/4/93 si era obbligata ad acquistare dalla società XX due unità immobiliari, ad uso negozio, in un complesso edilizio erigendo in (OMISSIS) per il prezzo pattuito di lire 615.000.000, interamente versato tranne che per 61.500.000, citava davanti al tribunale di Milano la società XX deducendo di aver accertato che la superficie delle unità immobiliari realizzate dalla promittente venditrice era inferiore a quella indicata nel contratto preliminare e, pertanto, chiedendo una sentenza che tenesse luogo del contratto non concluso, previa riduzione del prezzo ai sensi dell’art. 1538 c.c.. La XX resisteva alla domanda e, in via riconvenzionale, chiedeva una pronuncia di risoluzione del detto preliminare per inadempimento dell’attrice, con riconoscimento del suo diritto di trattenere la caparra e di essere risarcita dei danni.

Il tribunale accoglieva la domanda dell’attrice e, per l’effetto, riduceva il prezzo della vendita di Lire 83.209.500, trasferiva dalla convenuta all’attrice la proprietà delle unità immobiliari di cui al contratto preliminare intercorso tra le parti e condannava la convenuta a pagare all’attrice la somma di Lire 21.709.500, oltre agli interessi su detta somma a decorrere dal 11.7.1994 al saldo, nonchè, a titolo di risarcimento dei danni, gli interessi legali sulla somma di Lire 615.000.000 decorrenti dalla predetta data al saldo, rigettando ogni altra domanda.

La sentenza del tribunale veniva riformata dalla corte di appello di Milano, adita dalla XX, con sentenza n. 1595/02 che, ferma restando la pronuncia di trasferimento dell’immobile, rigettava la domanda della YY di riduzione del prezzo art. 1538 c.c. e condannava la stessa al pagamento del residuo importo di Lire 61.500.000.

La menzionata sentenza n. 1595/02 veniva impugnata per cassazione dalla XX e questa Corte, con la sentenza n. 18793/06 – dopo aver rilevato che la società YY “aveva chiesto la riduzione del prezzo dei due immobili, in base all’assunto, confermato dai compiuti accertamenti (pag. 7 della sentenza), che la misura reale degli immobili stessi era risultata inferiore di un ventesimo rispetto a quella indicata nel contratto (art. 1538 c.c.)” – rinviava la causa alla corte milanese enunciando il principio di diritto secondo cui, anche nella vendita immobiliare “a corpo”, la menzione nel contratto della misura dell’immobile attribuisce alle parti la possibilità di chiedere la rettifica del prezzo, ove tale misura risulti inferiore o superiore di un ventesimo rispetto a quella reale, potendo tale possibilità ritenersi esclusa solo qualora, dalla interpretazione del contratto, risulti che le parti abbiano inteso derogare al disposto dell’art. 1538 c.c., escludendone l’applicabilità per avere esse considerato del tutto irrilevante l’effettiva estensione dell’immobile, quale che essa sia.

La sentenza di questa Corte n. 18793/06 veniva impugnata per revocazione dalla XX e l’impugnativa veniva rigettata con la sentenza n. 20289/08, nella quale si afferma che, con la sentenza n. 18793/06, si era inteso “rimettere al giudice del rinvio la soluzione della indicata questione tenendo conto di tutte le problematiche al riguardo dibattute dalle parti (e ritenute assorbite dalla corte di appello a causa dell’errata applicazione dell’art. 1538 c.c.) con riferimento alla tesi della parte promittente venditrice relativa alla necessità di procedere – ai fini dell’applicazione della parte finale dell’art. 1538 c.c., comma 1 – alla determinazione della superficie dei locali considerando anche, in aggiunta alla misura “reale” o “effettiva”, la percentuale di superficie prevista dalla regola consuetudinaria e quella corrispondente alla metratura di beni condominiali”.

In sede di rinvio, la corte d’appello di Milano, ha rigettato l’appello della XX avverso la sentenza di primo grado, affermando;

a) che nell’interpretazione del contratto non emergeva alcuna volontà di sottrarre il rapporto alla disciplina dell’art. 1538 c.c.;

b) che, nella specie, ricorreva il presupposto oggettivo della differenza superiore ad un ventesimo tra la superficie reale complessiva degli immobili promessi in vendita e quella dichiarata in contratto. Quanto a quest’ultimo presupposto, in particolare, il giudice di rinvio affermava;

b1) che anche aggiungendo alla superficie degli immobili una percentuale di imputazione delle parti comuni, la superficie così risultante sarebbe stata comunque inferiore di oltre un ventesimo a quella indicata nel contratto preliminare;

b2) che ai fini della determinazione della superficie del compendio promesso in vendita la superficie del cortile retrostante:

b2.1) per un verso, non poteva essere conteggiata, perchè tale cortile non risultava in alcun modo menzionato nel contratto preliminare;

b2.2) per altro verso, non faceva comunque ascendere, pur in aggiunta alla superficie degli immobili maggiorata con la percentuale di imputazione delle parti comuni, la misura della superficie del cespite ad un valore maggiore ai diciannove ventesimi della superficie dichiarata in contratto;

c) che il primo giudice aveva correttamente sanato lo squilibrio patrimoniale verificatosi tra il promittente venditore, che aveva potuto beneficiare della somma versata (indicata in Lire 615.000.000), e il promissario acquirente, che non aveva ricevuto l’immobile, riconoscendo al secondo gli interessi sulla detta somma dalla data entro cui si sarebbe dovuto stipulare il contratto (1.7.94) al saldo.

Avverso la sentenza emessa dalla corte ambrosiana in sede di rinvio la XX (attualmente, a seguito di fusione per incorporazione intervenuta in pendenza del giudizio di cassazione, società ZZ) ha nuovamente proposto ricorso per cassazione sulla scorta di 12 motivi.

La YY ha resistito con controricorso.

La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 22.11.16, per la quale solo la parte ricorrente ha depositato memorie ex art. 378 c.p.c. e nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo, il secondo ed il terzo motivo si censura la statuizione sopra sintetizzata sub a) sotto diversi profili, rispettivamente riferiti, nel primo motivo, al vizio di violazione di legge (artt. 1538 e 1362 c.c., artt. 384, 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c.), nel secondo motivo al vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione e nel terzo motivo all’errore in procedendo (in relazione agli artt. 384 e 394 c.p.c.). Secondo la ricorrente il contratto preliminare andava interpretato, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte territoriale, nel senso di escludere qualunque rilevanza alla superficie effettiva degli immobili promessi in vendita, quale che fosse lo scostamento tra la stessa e quella menzionata nel contratto. I motivi vanno disattesi, perchè essi, pur presentandosi come censure rivolte al ragionamento ermeneutico svolto dalla corte milanese, in sostanza si limitano a contrapporre all’interpretazione della corte d’appello quella, adottata dal tribunale, ritenuta preferibile dalla ricorrente, così, in definitiva, attingendo non il ragionamento interpretativo della sentenza gravata, ma l’esito a cui tale ragionamento è pervenuto. Laddove, come ancora di recente ribadito da questa Corte, in tema di interpretazione del contratto il sindacato di legittimità non può investire il risultato interpretativo in sè, che appartiene all’ambito dei giudizi di fatto riservati al giudice di merito, ma afferisce solo alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica e della coerenza e logicità della motivazione addotta, con conseguente inammissibilità di ogni critica alla ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca in una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto da questi esaminati (sent. n. 2465/15).

Prima di procedere all’esame dei motivi dal quarto al nono è necessario vagliare l’argomento speso nel controricorso della società YY secondo cui l’accertamento operato nella sentenza qui gravata in ordine alla sussistenza di uno scostamento superiore al 5% tra la superficie dichiarata in contratto e la superficie effettiva degli immobili promessi in vendita non potrebbe più essere messo in discussione, giacchè l’esistenza di detto scostamento sarebbe stata accertata già nei precedenti gradi di giudizio. Ciò dovrebbe desumersi, secondo la contro ricorrente, dal passo della sentenza di questa Corte n. 11793/06 (da cui è derivato il giudizio di rinvio definito con la sentenza qui gravata) in cui si legge che l’assunto che la reale misura degli immobili era risultata inferiore di un ventesimo rispetto a quella indicata era stato “confermat6dai compiuti accertamenti”.

L’argomento non ha pregio, perchè la corte milanese in funzione di giudice di rinvio non si è limitata, nella sentenza qui gravata, ad applicare il principio di diritto enunciato nella sentenza della Cassazione n. 11793/06 alla situazione di fatto accertata nella sentenza di secondo grado n. 1595/02, ma ha proceduto ad un proprio accertamento della superficie commerciale degli immobili promessi in vendita, applicando il principio di diritto enunciato nella ripetuta sentenza n. 11793/06 alla situazione di fatto accertata in sede di rinvio. Ciò, va aggiunto, d. quanto il giudice di rinvio doveva fare, perchè – come questa stessa Corte ha chiarito nella sentenza n. 20289/08, con cui è stato respinto il ricorso per revocazione proposto dalla XX avverso la sentenza n. 11793/06 – quest’ultima sentenza aveva rimesso al giudice di rinvio la soluzione della qaestio facti relativa alla sussistenza di uno scostamento superiore al 5% fra la superficie dichiarata e quella effettiva degli immobili promessi in vendita, alla luce di tutte le problematiche al riguardo dibattute dalle parti (e ritenute assorbite dalla corte di appello a causa dell’errata applicazione dell’articolo 1538 c.c.). Correttamente, quindi, la corte milanese, nella sentenza qui gravata, ha rinnovato l’accertamento della superficie commerciale degli immobili promessi in vendita tenendo conto (con statuizione non censurata dalla Venezia Palomar con ricorso incidentale) della parte imputabile a tali immobili delle aree condominiali e del cortile pertinenziale.

Procedendo dunque dell’esame dei singoli motivi di ricorso, si osserva quanto segue.

Con il quarto, quinto e sesto motivo si censura la statuizione sopra sintetizzata sub b1) sotto diversi profili, rispettivamente riferiti, nel quarto motivo, al vizio di violazione di legge (artt. 1538, 1362 e 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 61, 194 e 195 c.p.c. e artt. 395 e 402 c.p.c.), nel quinto motivo al vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione e nel sesto motivo all’errore in procedendo (in relazione agli artt. 384, 395 e 402 c.p.c.). La ricorrente in sostanza lamenta che, ai fini del calcolo della superficie degli immobili promessi in vendita, la corte milanese abbia recepito il conteggio della superficie imputabile alle parti comuni suggerito dal consulente di ufficio in misura (mq 3,09) inferiore a quella risultante dall’applicazione del criterio desumibile dagli usi locali riferiti da un professionista esperto dei medesimi – arch. B. a cui il consulente di ufficio ed i consulenti di parte si erano collegialmente rivolti.

La censura è fondata in relazione al denunciato vizio motivazionale.

L’argomentazione della consulenza di ufficio, e della sentenza gravata che la recepisce, risulta infatti contraddittoria laddove, da un lato, si fonda sulla valorizzazione degli usi locali illustrati dall’architetto B. (cfr. pag. 6, ultimo cpv, della sentenza: “valore questo in linea con quanto affermato dall’ arch. B., interpellato collegialmente con i CTP in data 10.12.96”) e, d’altro lato, tradisce il criterio dal medesimo indicato. Detto criterio consiste come si rileva dalla nota dello stesso architetto B. datata 19.3.97, allegata alla memoria di osservazioni alla c.t.u. depositata dalla difesa della XX nel giudizio di primo grado e trascritta nel ricorso per cassazione – nell’aumentare la superficie commerciale dell’unità immobiliare dedotta in contratto in base alla misura reale delle parti comuni alla stessa proporzionalmente riferibili in ragione dei millesimi di competenza, fino al limite massimo del 10-12% della superficie commerciale dell’unità stessa.

Sulla base dei dati riportarti nella c.t.u. (pure trascritta nel ricorso per cassazione) emerge, secondo i calcoli matematici sviluppati a pag. 34 del ricorso per cassazione, che la quota millesimale delle parti comuni pertinenti alle unità immobiliari promesse in vendita sarebbe stata di mq 30,85, mentre il 10% della superficie commerciale di tali unità immobiliari sarebbe stato di mq 17,38; d’onde la carenza della motivazione relativa al dato (mq 3,09) assunto nella impugnata sentenza.

Con il settimo e ottavo motivo si censura la statuizione sopra sintetizzata sub b2) sotto diversi profili, rispettivamente riferiti, nel settimo motivo, al vizio di violazione di legge (artt. 1538, 1362 e 2697 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 61, 194 e 195 c.p.c.) e, nell’ottavo motivo, al vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione. La ricorrente in sostanza contesta le affermazioni della corte milanese secondo cui, per un verso, la superficie del cortile non sarebbe stata computabile ai fini della determinazione della superficie commerciale delle unità immobiliari promesse in vendita, perchè tale cortile non risultava menzionato nel contratto preliminare e la sua natura pertinenziale dipendeva da una dichiarazione catastale del promittente venditore “inidonea ad interferire sulla volontà delle parti come consacrata nel preliminare in data 6.4.93”; per altro verso, anche conteggiando la superficie del cortile nella percentuale comunemente praticata del 10-15%, la superficie commerciale degli immobili non avrebbe comunque raggiunto, anche al lordo della maggiorazione per le parti comuni, i diciannove ventesimi della superficie dichiarata in contratto.

La censura è fondata in relazione al denunciato vizio motivazionale.

Quanto alla prima affermazione, è palese la contraddittorietà tra l’affermazione secondo cui la dichiarazione catastale di pertinenzialità del cortile non inciderebbe sulla “volontà delle parti come consacrata nel preliminare in data 6.4.93” e la statuizione di trasferimento della proprietà del medesimo cortile, in esecuzione di detto preliminare ex art. 2932 c.c., quale pertinenza delle unità immobiliari promesse in vendita. Quanto alla seconda affermazione, l’idoneità della presenza del cortile a far ascendere la superficie commerciale delle unità immobiliari promesse in vendita fino alla soglia dei diciannove ventesimi della superficie dichiarata in contratto dev’essere rivalutata dal giudice di merito alla luce della rideterminazione della superficie commerciale imputabile alle parti comuni che sarà svolta in esito all’accoglimento del quinto motivo.

Il nono motivo, relativo all’ammissione delle prove chieste dalla XX in secondo grado, è assorbito dall’accoglimento dei motivi quinto e ottavo.

Con il decimo, undicesimo e dodicesimo motivo (erroneamente numerato come motivo n. 13) si censura la statuizione sopra sintetizzata sub c) sotto diversi profili, rispettivamente riferiti, nel decimo motivo, al vizio di violazione di legge (artt. 1223, 1224 e 1457 c.c.), nell’ undicesimo motivo all’errore in procedendo (in relazione all’art. 112 c.p.c.) e nel dodicesimo motivo al vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione. La ricorrente in sostanza contesta che la corte milanese abbia riconosciuto alla promissaria acquirente gli interessi sulla somma versata (indicata in Lire 615.000.000) dalla data fissata per la stipula del contratto definitivo (1.7.94) al saldo, deducendo, da un lato, che la YY aveva goduto dell’immobile, avendone ricevuto il possesso, fin dal 1995 e, d’altro lato, che la somma versata dalla promissaria acquirente alla XX era inferiore a quella, di Lire 615.000.000, assunta nella sentenza impugnata come capitale su cui conteggiare detti interessi.

La censura è fondata in relazione al denunciato vizio motivazionale.

La motivazione della sentenza gravata è infatti insufficiente sia in ordine alla individuazione del dies ad quem degli interessi calcolati a titolo risarcitorio, sia in ordine alla individuazione della base di calcolo di tali interessi.

Sotto il primo profilo, il Collegio osserva che nella sentenza gravata (pagina 10, in principio) si fa riferimento alla necessità di “sanare lo squilibrio patrimoniale che si era verificato tra il promissario venditore, che aveva potuto beneficiare della somma già versata, e il promissario acquirente, che viceversa non aveva ottenuto la consegna dell’immobile”; la corte distrettuale avrebbe dunque dovuto spiegare le ragioni per le quali affermava che la promissaria acquirente “non aveva ottenuto la consegna dell’immobile”, nonostante che nella pagina 6 della sentenza di questa Corte n. 11793/06, dalla quale era derivato il giudizio di rinvio definito con la sentenza qui gravata, si riferisse che nel secondo motivo del ricorso per cassazione proposto dalla YY avverso la sentenza di appello 1595/02, la stessa promissaria acquirente aveva affermato che la consegna degli immobili era avvenuta nel luglio 1995.

Sotto il secondo profilo, il Collegio osserva che nella narrativa del processo svolto nella sentenza gravata (pagina 2) si riferisce che il prezzo complessivamente pattuito tra le parti era di Lire 615.000.000 e che il primo giudice aveva riconosciuto “un credito residuo della venditrice di Lire 61.500.000”); la corte distrettuale avrebbe dunque spiegare le ragioni per le quali ha indicato la somma già versata in Lire 615.000.000 invece che in Lire (615.000.000 – 61.500.000 =) 553.500.000.

In definitiva il ricorso va accolto in relazione alle censure motivazionali sopra evidenziate e la sentenza gravata va cassata con rinvio alla corte territoriale, che regolerà anche le spese del giudizio di cassazione.

PQM

La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, ad altra sezione della corte di appello di Milano.

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2017

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