Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6251 del 14/03/2018


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Cassazione civile, sez. I, 14/03/2018, (ud. 06/12/2017, dep.14/03/2018),  n. 6251

Fatto

1. – Il Credito Italiano s.p.a. richiedeva ed otteneva dal Tribunale di Roma un decreto ingiuntivo nei confronti di più soggetti, tra cui W.G.M.H.: decreto ingiuntivo avente ad oggetto il pagamento della somma di Lire 918.255.465, oltre interessi e spese, per il saldo debitore di un conto corrente intrattenuto dalla società Nuova Wamar, quale debitrice principale, con l’istituto bancario sopra indicato. Il predetto W.G. aveva prestato fideiussione per le obbligazioni contratte dalla suddetta società nei confronti della banca.

Proposta opposizione, il Tribunale di Roma pronunciava due sentenze, una non definitiva e l’altra definitiva: con quest’ultima era disposta la revoca del decreto ingiuntivo impugnato e la condanna di W.G. al pagamento, in favore di Unicredit Banca s.p.a. (già Credito Italiano), della somma di Euro 427.543,93.

2. – Il fideiussore proponeva appello avverso entrambe le sentenze e la Corte di Roma, in data 4 marzo 2010, in esito al giudizio in cui interveniva volontariamente Eris Finance s.r.l., cessionaria del credito in contestazione, condannava l’appellante al pagamento “nella minor somma, rispetto a quella indicata nella gravata sentenza, che verrà determinata in prosieguo di giudizio, a mezzo c.t.u.”. In particolare: escludeva che fosse coperta da giudicato la questione relativa alla pattuizione degli interessi decisa dalla sentenza non definitiva del Tribunale; riteneva che al rapporto dovesse applicarsi l’interesse legale a far data dal 9 luglio 1992 (e cioè dal momento cui era entrata in vigore la legge sulla trasparenza bancaria (l. n. 154/1992); reputava che, a fronte dell’applicazione, da parte della banca, dell’anatocismo trimestrale, non consentito, gli interessi andassero capitalizzati annualmente e che analogo criterio dovesse trovare riscontro per la commissione di massimo scoperto; respingeva l’eccezione ex art. 1956 c.c. formulata dal fideiussore. Il 19 giugno 2013 era poi pronunciata sentenza definitiva con cui l’originario ingiunto era condannato al pagamento della somma complessiva di Euro 380.204,59, oltre interessi.

3. – Entrambe le sentenze della Corte di appello di Roma sono state impugnate per cassazione da Mariano Hugo W.G.: il ricorso è basato su sei motivi ed è illustrato da memoria. Resiste con controricorso Eris Finance, costituita in giudizio attraverso la mandataria Italfondiario s.p.a.; anche la controricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi di ricorso possono riassumersi come segue.

1.1. – Col primo motivo viene eccepito il giudicato interno ed è formulata una censura di violazione e falsa applicazione degli artt. 324,329 e 340 c.p.c., oltre che dell’art. 2909 c.c.. Deduce l’istante che con la sentenza non definitiva il Tribunale aveva rilevato come la banca non avesse “provveduto a dimostrare che tutte le domande da essa dedotte col procedimento monitorio fossero assistite da prova documentale ed in particolare sul punto della convenzione in ordine al tasso di interesse da applicare al caso concreto”. Osserva poi che con la sentenza definitiva lo stesso Tribunale aveva ritenuto di applicare il tasso del 13%, in quanto convenzionalmente stabilito e che esso ricorrente, nel proprio atto di appello, aveva denunciato la decisione adottata dal giudice di prima istanza in questa seconda pronuncia: decisione assunta senza tener conto dell’insussistenza, già accertata con la prima sentenza, di alcuna pattuizione che derogasse la disciplina legale. Ha poi evidenziato che la Corte di appello, pronunciandosi sul tema, aveva rimarcato non essersi formato alcun giudicato, stante la riserva di gravame formulata sul punto, ma aveva trascurato di considerare che a tale riserva non era seguita alcuna impugnazione.

1.2. – Il secondo motivo lamenta l’omessa pronuncia su di un motivo di appello e, quindi, la violazione dell’art. 112 c.p.c.. L’istante rileva di aver censurato la sentenza di primo grado deducendo che la stessa aveva ignorato la propria eccezione quanto all’insussistenza di pattuizioni sulla determinazione del tasso di interesse. Analoga carenza doveva ravvisarsi, ad avviso del ricorrente, nella pronuncia di appello.

1.3. – Col terzo mezzo sono denunciate la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1284 c.c. e 117t.u.b. (D.Lgs. n. 385 del 1993), nonchè l’illogicità e contraddittorietà della motivazione. Rileva l’istante che a torto la Corte di merito aveva ritenuto che la nullità relativa alla mancata pattuizione della misura degli interessi derivasse dall’introduzione della nuova disciplina dettata dalla L. n. 154 del 1992 e dal D.Lgs. n. 385 del 1993, e quindi operasse a partire dal 9 luglio 1992.

1.4. – Il quarto motivo censura la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 1283 c.c.. Il ricorrente oppone che il giudice di appello, una volta riconosciuta l’illegittima capitalizzazione degli interessi debitori, avrebbe dovuto eliminare totalmente gli interessi anatocistici, laddove, di contro, aveva ritenuto legittima la capitalizzazione annuale dei detti interessi, oltre che della commissione di massimo scoperto. Con riferimento a detta commissione ha poi evidenziato che la stessa non era stata regolata convenzionalmente neanche relativamente al quantum.

1.5. – Con il quinto motivo è dedotta una ulteriore violazione dell’art. 1284 c.c., oltre che dell’art. 198 c.p.c.. Il ricorrente si duole del fatto che il tasso “legittimamente dovuto”, tasso di cui era fatta parola nella sentenza non definitiva della Corte di appello, era stato desunto dagli estratti di conto corrente: di contro, tale saggio, in assenza di pattuizioni derogative, avrebbe dovuto essere operata alla stregua dell’art. 1284 c.c..

1.6. – Il sesto mezzo oppone la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175,1176 e 1956 c.c. Rileva il ricorrente di aver formulato uno specifico motivo di impugnazione vertente sulla lievitazione del credito erogato all’obbligata principale e, segnatamente, sul superamento dei limiti di affidamento inizialmente concessi, sulla consapevolezza, da parte della banca, del progressivo deterioramento delle condizioni economiche della società correntista e sull’inesistenza delle autorizzazioni dei garanti, siccome previste dall’art. 1956 c.c.. Infatti, nonostante la revoca dell’affidamento, la banca aveva continuato ad erogare crediti di rilevante importo alla debitrice principale e sussisteva la prova del fatto oggettivo della concessione di finanziamenti ulteriori ed extra fido allorchè era oramai conclamato lo stato di insolvenza del debitore. Era inoltre errato, e comunque non pertinente – ad avviso del ricorrente – l’assunto dell’irretroattività della L. n. 154 del 1992 e, quindi, l’affermazione della inapplicabilità della stessa alle fideiussioni concesse prima dell’entrata in vigore della detta legge. Infine, la qualità, in capo a W.G., di socio e di finanziatore della società debitrice non implicava affatto -secondo il ricorrente – la conoscenza della situazione finanziaria di essa, mentre la carica di amministratore era venuta meno prima del manifestarsi dell’insolvenza.

2. – Il primo motivo appare fondato.

Sul punto, occorre rilevare che il giudice resta vincolato dalla sentenza non definitiva (anche se non passata in giudicato), sia in ordine alle questioni definite, sia per quelle che ne costituiscano il presupposto logico necessario, senza poter più risolvere le stesse questioni in senso diverso e, ove lo faccia, il giudice di legittimità può rilevare d’ufficio tale violazione (Cass. 3 maggio 2012, n. 6689; Cass. 8 giugno 2007, n. 13513).

Con riguardo al tema degli interessi ultralegali, a seguito dell’accertamento, contenuto nella prima sentenza del Tribunale, lo stesso giudice di prime cure non avrebbe potuto rendere una seconda statuizione e individuare il saggio di interesse debitore pattuito tra la banca e il correntista. Infatti, il Tribunale si era spogliato della potestas judicandi su detta questione con la decisione resa attraverso la sentenza non definitiva (onde gli era precluso riesaminarla e modificare la pronuncia precedentemente adottata).

Peraltro, sul punto che qui interessa si era pure formato il giudicato interno: la detta statuizione (vertente sull’insussistenza di una convenzione di tasso tra la correntista e la banca) non è stata fatta oggetto di impugnazione da parte di Unicredit e il gravame proposto dall’odierno ricorrente non investiva il detto accertamento; erra pertanto la Corte di merito allorquando assume che il detto giudicato non si sarebbe prodotto.

2.1. – L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento del secondo, del terzo e del quinto.

2.2. – Nei termini che si vengono a esporre anche il quarto motivo merita accoglimento.

La soluzione fatta propria dalla Corte distrettuale non risulta conforme all’insegnamento di Cass. sez. U. 2 dicembre 2010, n. 24418, secondo cui, dichiarata la nullità della previsione negoziale di capitalizzazione trimestrale, per contrasto con il divieto di anatocismo stabilito dall’art. 1283 c.c. (il quale osterebbe anche ad un’eventuale previsione negoziale di capitalizzazione annuale), gli interessi a debito del correntista devono essere calcolati senza operare alcuna capitalizzazione (in senso conforme: Cass. 17 agosto 2016, n. 17150; Cass. 14 marzo 2013, n. 6550).

Mentre analoga conclusione va seguita per la capitalizzazione degli interessi sulla commissione di massimo scoperto, la questione relativa alla mancata regolamentazione della detta commissione, pure oggetto del quarto motivo, appare carente di autosufficienza. Infatti, il ricorrente non spiega se e come la questione stessa fosse stata proposta nella precedente fase del giudizio, nè di un tale tema la sentenza impugnata si occupa. Va ricordato, in proposito, che ove con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; cfr. pure, ad es.: Cass. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. 26 febbraio 2007, n. 4391).

2.3. – Va invece respinto il sesto motivo.

La Corte di merito, con riferimento all’eccezione ex art. 1956 c.c. proposta dall’odierno ricorrente ha osservato che, tra l’altro, il fatto impeditivo su cui si fonda l’eccezione stessa doveva essere dimostrato dal fideiussore e non poteva ricavarsi dal semplice incremento, nel tempo, dell’esposizione debitoria, oltre il limite dell’affidamento.

L’affermazione della Corte di merito poggia su una corretta applicazione dei principi di diritto, dal momento che il fideiussore che chieda la liberazione della garanzia prestata invocando l’applicazione dell’art. 1956 c.c. ha l’onere di provare, ai sensi dell’art. 2697 c.c., l’esistenza degli elementi richiesti a tal fine, e cioè che, successivamente alla prestazione della fideiussione per obbligazioni future, il creditore, senza la sua autorizzazione, abbia fatto credito al terzo pur essendo consapevole dell’intervenuto peggioramento delle sue condizioni economiche (Cass. 17 novembre 2016, n. 23422; Cass. 7 febbraio 2006, n. 2524).

La violazione, o falsa applicazione di legge, dunque, non si ravvisa, mentre ogni questione vertente sulla sussistenza o meno, in concreto, delle diverse condizioni poste dall’art. 1956 c.c. inerisce all’accertamento di fatto demandato al giudice del merito, non sindacabile nella presente sede.

3. – In conclusione, vanno accolti il primo e, per quanto di ragione, il quarto motivo, deve essere respinto il sesto e vanno dichiarati assorbiti i restanti.

La sentenza è cassata con riferimento ai motivi accolti e la causa deve essere rinviata alla Corte di appello di Roma, in altra composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo e, per quanto di ragione, il quarto, rigetta il sesto e dichiara assorbiti il secondo, il terzo e il quinto; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 1 Sezione Civile, il 6 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2018

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