Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6223 del 10/03/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 10/03/2017, (ud. 31/01/2017, dep.10/03/2017),  n. 6223

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 23386 del ruolo generale dell’anno 2012

proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

gli uffici della quale in Roma, alla Via dei Portoghesi, n. 12,

elettivamente si domicilia;

– ricorrente –

contro

P.M.;

– intimato –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale dell’Umbria, sezione 3^, depositata in data 14 luglio

2011, n. 133/03/2011;

udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data

31 gennaio 2017 dal Consigliere Dott. Angelina Maria Perrino;

udito per l’Agenzia delle entrate l’avvocato dello Stato Giammarco

Rocchitta;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per

l’accoglimento del ricorso.

Fatto

L’Agenzia delle Entrate, facendo leva su accertamenti della guardia di finanza concernenti l’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi per diversi anni e l’inosservanza di vari altri adempimenti contabili, ha recuperato per l’anno 2001 l’Irpef dovuta dal contribuente, scaturente dalla ricostruzione induttiva dei relativi redditi ed ha irrogato le sanzioni conseguenti. Inoltre, in assenza delle fatture di vendita, l’Ufficio ne ha ricostruito induttivamente anche il volume di affari, recuperando l’Iva dovuta. Il contribuente ha impugnato il conseguente avviso senza successo in primo grado, laddove il giudice d’appello ne ha parzialmente accolto il gravarne, limitatamente alle sanzioni, che ha annullato, facendo leva sulla buona fede del contribuente, derivante dall’essersi affidato a persona che operava abusivamente come commercialista, nonchè, in relazione all’Iva, riconoscendo le poste detraibili vantate. Contro questa sentenza propone ricorso l’Agenzia per ottenerne la cassazione, che affida a due motivi, cui il contribuente non replica.

Diritto

1.- Fondato è il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, col quale l’Agenzia lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 5 e 6, là dove la Commissione tributaria regionale ha annullato le sanzioni valorizzando la buona fede del contribuente, manifestatasi nell’affidarsi ad una persona che appariva come consulente.

2.- In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, ai fini dell’affermazione di responsabilità del contribuente, occorre che l’azione od omissione causativa della violazione sia volontaria, ossia compiuta con coscienza e volontà, e colpevole, ossia compiuta con dolo o negligenza, e la prova dell’assenza di colpa grava sul contribuente (Cass. n. 11433/15; n. 5965/14; n. 14042/12; n. 13068/11). All’Amministrazione spetta dunque l’onere di provare, anche mediante presunzioni semplici, i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria vantata; una volta dimostrata la ricorrenza della fattispecie tipica dell’illecito, compete a chi voglia andare esente da responsabilità dimostrare di aver agito in assenza di colpevolezza (Cass., sez. un., n. 20930/09, sia pure resa con riguardo in generale alle sanzioni amministrative).

2.1.- E’ espressione di queste regole del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, a norma del quale “nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”. In questo contesto, dell’art. 6, comma 3 del medesimo decreto ha codificato un’ipotesi in cui la dimostrazione di determinati fatti (ossia l’omessa esecuzione del pagamento di un tributo dovuta a fatto denunciato all’autorità giudiziaria e addebitabile esclusivamente a terzi) integra una presunzione legale assoluta di mancanza di colpevolezza.

3.- Nel caso in esame, pacifici sono i fatti costitutivi della pretesa sanzionatoria, dati dall’omessa presentazione delle dichiarazioni annuali per diversi anni e dall’omissione degli ulteriori adempimenti contabili di cui dà conto la narrativa della sentenza impugnata.

Di contro, anzitutto non è configurabile l’ipotesi codificata del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 3, giacchè non si discute del – mero – omesso pagamento del tributo, sibbene dell’omissione di tutte le attività dichiarative ad esso prodromiche e funzionali.

Inoltre, il contribuente non ha dato prova della mancanza della propria colpevolezza. Senz’altro tale prova non scaturisce dall’essersi affidato ad una persona apparentemente esercente attività di intermediario: ciò in quanto la mancanza di colpevolezza postula assenza di negligenza, di guisa che occorre che il contribuente il quale affidi ad un commercialista il compito di trasmettere le dichiarazioni all’Agenzia delle Entrate vigili sulla corretta esecuzione dell’incarico, a meno che non dimostri che l’intermediario abbia mascherato fraudolentemente il proprio inadempimento (da ultimo, in termini, Cass., ord. n. 11832/16).

Nel caso in esame non emerge che il contribuente abbia vigilato sul corretto adempimento dell’incarico affidato; anzi, la circostanza che egli abbia affidato per più anni l’incarico a persona sprovvista di abilitazione (e per questa ragione condannata per esercizio abusivo della professione, come riferito in sentenza) evidenzia non solo culpa in eligendo, ma anche in vigilando, in considerazione dell’omissione di qualunque riscontro in ordine allo svolgimento delle attività da espletare.

3.- Parimenti fondato è il secondo motivo di ricorso, anch’esso proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, col quale l’Agenzia si duole della violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 55, nonchè del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, là dove il giudice d’appello ha riconosciuto la detrazione dell’iva concernente l’anno d’imposta 2001, sebbene il contribuente non avesse presentato le dichiarazioni per gli anni al 1999 al 2005.

Questa Corte (Cass. n. 14767/15) ha già avuto occasione di chiarire che il diritto di detrazione sorge nel momento stesso in cui diviene dovuta l’imposta da detrarre; in quel momento, però, non si verifica l’automatica estinzione del debito d’imposta, ma, semplicemente, sorge in testa al cessionario il diritto di estinguere il debito esercitando il diritto di detrazione. Quest’ultimo è certamente un diritto potestativo, ma pur sempre occorre che esso sia esercitato. Di qui la conseguenza che la violazione degli obblighi formali di contabilità e di dichiarazione, pur non impedendo di per sè la nascita del diritto di detrazione, può incidere sul suo esercizio, allorquando entro il termine previsto dal legislatore nazionale il relativo titolare non ne faccia uso. E’ difatti con riguardo ad un caso in cui, pur mancando la dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, un’eccedenza d’imposta risultava da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno ed era stata dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, che le sezioni unite di questa Corte (Cass., n. 17757/16) hanno stabilito che non può essere negato il diritto alla detrazione, se sia dimostrato in concreto, oppure non sia controverso, che si tratti di acquisti compiuti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati ad Iva e finalizzati ad operazioni imponibili, va riconosciuta dal giudice tributario se il contribuente abbia rispettato tutti i requisiti sostanziali per la detrazione.

3.1.- Nel caso in esame, di contro, il termine di decadenza, che è quello biennale stabilito dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, ritenuto più volte compatibile con la normativa unionale (da ultimo, Corte giust. 28 luglio 2016, causa C-332/15, Astone) inequivocabilmente non è stato rispettato, in considerazione del fatto che nel biennio utile non sono state presentate le prescritte dichiarazioni.

4.- Il ricorso va in conseguenza accolto.

Ne deriva la cassazione della sentenza impugnata in relazione ad entrambi i profili. Non occorrendo ulteriori accertamenti di fatto, il giudizio va deciso nel merito, col rigetto dell’impugnazione originariamente proposta per i profili ancora d’interesse.

Le peculiarità della vicenda comportano la compensazione delle spese inerenti ai gradi di merito. Quelle concernenti il giudizio di legittimità seguono, invece, la soccombenza.

PQM

la Corte:

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’impugnazione originariamente proposta in relazione ai profili ancora d’interesse. Compensa le spese inerenti ai gradi di merito e condanna il contribuente a rifondere quelle inerenti al giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5200,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 31 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2017

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