Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6223 del 05/03/2020

Cassazione civile sez. trib., 05/03/2020, (ud. 18/12/2019, dep. 05/03/2020), n.6223

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO Donati Viscido di Nocera M.G. – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9996/2012 R.G. proposto da:

Raccorderie Metalliche s.p.a., in persona del suo legale

rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. Gregorio Leone

e dall’Avv. Valeria Fontana, elettivamente domiciliata in Roma, via

Luigi Luciani, n. 42, presso lo studio dell’avv. Lorenza Roberta

Leone (studio Salustri e Associati);

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Dogane, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale

dello Stato, in persona del Direttore p.t., con domicilio eletto

presso gli uffici della predetta Avvocatura, in Roma, via dei

Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Liguria depositata l’11 marzo 2011, n. 22.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 dicembre

2019 dal Cons. Salvatore Leuzzi.

Fatto

RILEVATO

che:

– La ricorrente propone ricorso per cassazione avverso la sentenza in epigrafe, di accoglimento dell’appello erariale avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di La Spezia, che aveva respinto il ricorso della contribuente relativo ad una pluralità di avvisi di accertamento aventi ad oggetto il recupero dei dazi in relazione ad importazioni effettuate dalla società negli anni 2004 e 2005 di partite di curve di riduttori metallici, dichiarate di origine filippina e risultate invece, a seguito di indagine svolta dall’OLAF, di origine della Repubblica popolare cinese;

– Il giudice di prime cure accoglieva l’impugnazione del contribuente sul presupposto della mancanza di motivazione degli avvisi, sottolineando, per un verso, l’omessa produzione in giudizio della relazione finale dell’OLAF e dei documenti di trasporto delle merci che, nella prospettazione dell’Ufficio, ne segnalavano la provenienza da un porto della Cina; riconoscendo, per altro verso, la buona fede dell’importatore;

– Nell’accogliere il gravame di merito agenziale, la Commissione tributaria regionale valorizza l’indicazione negli avvisi degli “elementi di fatto integrativi del presupposto d’imposta o della pretesa fiscale oggetto d’accertamento”; mette in luce come “la relazione OLAF, sopraggiunta dopo la notificazione degli avvisi impugnati” abbia confermato “la sussistenza degli elementi di fatto… per ritenere integrata la frode”;

– Il ricorso per cassazione della contribuente è affidato a sei motivi; l’Agenzia delle Dogane resiste con controricorso. La ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– Con il primo motivo di ricorso, la contribuente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 327 e 346 c.p.c., l’inammissibilità dell’appello e la nullità della setenza della Commissione tributaria regionale “per violazione dell’art. 112 c.p.c.”, ascrivendo al giudice di merito, d’avere, per un verso, trascurato la circostanza per la quale il gravame dell’Agenzia delle dogante veniva incongruamente formulato su una diversa, coeva sentenza, non a caso in esso trascritta; per altro verso, tralasciato di considerare la mancanza di specificità dei motivi dell’appello erariale;

– Con il secondo motivo, la contribuente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 1, del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5 bis, della L. n. 2012 del 2000, art. 7, del Reg. CE n. 1049 del 2001, art. 4; nel contempo, la contribuente si duole dell’omessa o insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando, tanto sotto l’aspetto della violazione di norme quanto sotto il profilo del deficit argomentativo, la mancata allegazione agli avvisi della nota INF AM/23/2005 in essi menzionata e l’irrilevanza probatoria della relazione finale redatta dall’OLAF, in quanto formata in un tempo posteriore rispetto alla notifica degli atti impositivi;

– Con il terzo motivo, la contribuente denuncia la violazione dell’art. 220 del codice doganale comunitario e “dei principi comunitari espressi dalla Corte di Giustizia della CEE” nonchè l’omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per avere il giudice d’appello: trattato di un’eccezione di decadenza mai sollevata dalla ricorrente; trascurato di considerare che la Commissione di primo grado si era limitata a constatare l’omessa allegazione delle polizze di carico della merce da Dalian (Cina) e la relazione finale dell’OLAF, senza affatto rilevare la sussistenza negli atti impositivi degli estremi dell’indagine OLAF e dei documenti di trasporto; affermato la natura vincolata degli avvisi in correlazione ad un processo penale conclusosi, in realtà, con l’assoluzione del legale rappresentante della contribuente;

– Con il quarto motivo, la contribuente censura la violazione dell’art. 220 codice doganale comunitario e dei “principi comunitari espressi dalla Corte di Giustizia”, nonchè l’omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, per essersi la Commissione tributaria regionale limitata a fare riferimento all’inapplicabilità nella specie del principio di buona fede di cui all’art. 220, n. 2, lett. b), del codice in parola, procedendo ad una “breve illustrazione dei requisiti previsti da detta norma” e trascurando la presunzione assoluta di buona fede in capo al contribuente, il quale non poteva ragionevolmente avvedersi dell’errore commesso dalle autorità doganali, non potendo in alcun modo rilevare sulla sua consapevolezza l’aumento delle esportazioni dalle Filippine della merce oggetto degli avvisi, circostanza invero nota solo all’Ufficio; con il medesimo articolato motivo, la ricorrente censura la valorizzazione, da parte del giudice d’appello, unicamente dei documenti di trasporto emessi a Dalian (Cina) e la mancata considerazione, da parte sua, dell’esistenza di polizze di carico delle merci emesse a Manila (Cina);

– Con il quinto motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 211 del Trattato CE e la violazione dell’art. 239 codice doganale comunitario, per avere la Commissione tributaria regionale trascurato di escludere la sussistenza dell’obbligazione doganale della ricorrente, avuto riguardo all’omissione di vigilanza degli organi comunitari in ordine all’origine delle merci e al mancato avvertimento nei confronti delle Autorità nazionali;

– Con il sesto ed ultimo motivo di ricorso, la contribuente censura la nullità della sentenza per “mancato esame, ovvero per manifesta insufficienza di motivazione su tutte le eccezioni svolte dalla ricorrente”, nonchè la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il giudice d’appello emesso la decisione “in difetto della doverosa analisi dei profili giuridici e fattuali eccepiti dalla ricorrente”.

– Il primo motivo è inammissibile e va respinto.

– L’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque l’ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso. Pertanto, ove il ricorrente censuri la ritenuta ammissibilità dell’appello, per difetto di specificità del motivo di gravame o per l’insanabile discordanza fra l’oggetto su cui la censura è stata erroneamente formulata e quello cui la stessa avrebbe dovuto rivolgersi, ha l’onere di specificare, nel ricorso, le ragioni per cui ritiene erronea la statuizione del giudice del gravame di merito, non potendo limitarsi a rinviare all’atto di appello o ad altro atto del relativo giudizio (nel caso che occupa, le controdeduzioni in appello “pag. 12 e ss.”), ma deve riportarne il contenuto nella misura necessaria ad evidenziare la pretesa non specificità del motivo o la suddetta insolubile antinomia (v., con riferimento alla omologa, per quanto speculare fattispecie relativa alla non specificità dei motivi d’appello ritenuta dal giudice di merito, Cass. n. 22880 del 2017; cfr., con riferimento alle modalità deduttive della questione pregiudiziale di rito già disattesa dal giudice del gravame, v. Cass. n. 22000 del 2006).

– Il motivo di censura contrasta, sul piano della formulazione, con l’esigenza che, nel giudizio di legittimità, il ricorrente che censuri la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quali quelle processuali, deve specificare, ai fini del rispetto del principio di autosufficienza, gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione (v. Cass. 9888 del 2016);

– Il secondo motivo è infondato e va rigettato.

– I Giudici di merito hanno ritenuto gli avvisi adeguatamente motivati, essendo stata comprovata l’origine cinese dei prodotti in base alle evidenze emerse all’esito delle indagini svolte in Indonesia dall’Ufficio antifrode della Comunità (OLAF).

– Il requisito formale della motivazione dell’atto impositivo di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7, e, per quanto specificamente attiene agli avvisi di rettifica in materia doganale, di cui al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5 bis, deve ritenersi assolto anche attraverso la motivazione “per relationem” alle risultanze dell’indagine condotta dall’OLAF (pacifica è la giurisprudenza di questa Corte in ordine alla piena legittimità di tale forma di motivazione, sol che si considerino ex multis Cass. n. 8399 del 2013, Cass. 2749 del 2009).

– Segnatamente, l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso (L. n. 212 del 2000, art. 7) va inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone la L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3: il contribuente ha, infatti, diritto di conoscere tutti gli atti il cui contenuto viene richiamato per integrare tale motivazione, ma non il diritto di conoscere il contenuto di tutti quegli atti, cui si faccia rinvio nell’atto impositivo e sol perchè ad essi si operi un riferimento, ove la motivazione sia già sufficiente (e il richiamo ad altri atti abbia, pertanto, mero valore “narrativo”), oppure se, comunque, il contenuto di tali ulteriori atti (almeno nella parte rilevante ai fini della motivazione dell’atto impositivo) sia già riportato nell’atto noto; ne deriva che, in caso di impugnazione dell’avviso sotto tale profilo, non basta per il contribuente dimostrare l’esistenza di atti a lui sconosciuti cui quello impositivo faccia riferimento, occorrendo, invece, la prova che almeno una parte del contenuto di quegli atti, non riportata nell’atto impositivo, sia necessaria ad integrarne la motivazione (v. Cass. n. 26683 del 2009 e, da ultimo, con specifico riferimento alla materia doganale Cass. n. 10118 del 2017).

– Inoltre, l’avviso di accertamento in materia doganale, che si fondi su verbali ispettivi Olaf, i quali hanno carattere riservato (Reg. CE n. 1073 del 1999, art. 8) ma possono essere utilizzati dall’Amministrazione nei procedimenti giudiziari per inosservanza della regolamentazione doganale, è legittimamente motivato ove, rispondendo alle prescrizioni del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma bis, riporti nei tratti essenziali, ai fini dell’esercizio del diritto di difesa, il contenuto di quegli atti presupposti richiamati per relationem ancorchè non allegati (Cass. n. 23985 del 2008), dovendosi ritenere la produzione del rapporto finale OLAF non inclusa tra i requisiti di validità della motivazione dell’atto impositivo (Cass. n. 8399 del 2013).

– Nel caso di specie, gli avvisi precisavano che la revisione era scaturita dalla segnalazione dell’ufficio antifrode INF AM 23/2005 e tanto appare sufficiente ad individuare la causa giustificativa del recupero daziario in relazione al “contenuto essenziale” dell’atto richiamato (rapporto OLAF) ed a porre la società in grado di apprestare le proprie difese, sia limitandosi alla mera negazione dei fatti costitutivi della pretesa (e cioè negando la diversa origine cinese del prodotto rispetto a quella filippina indicata nel documento di trasporto che indicava Dalian quale porto di partenza), sia contrastando gli atti impositivi mediante acquisizione di eventuale ulteriore documentazione e di altri elementi probatori idonei a dimostrare la effettiva origine dei prodotti, dovendosi, al riguardo, distinguere nettamente la questione relativa all’esistenza della motivazione dell’atto impositivo, quale “requisito formale di validità” dell’avviso di accertamento (L. n. 212 del 2000, art. 7; D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5 bis), dalla questione attinente, invece, alla indicazione ed alla effettiva sussistenza di elementi dimostrativi dei fatti costitutivi della pretesa tributaria (cfr. Cass. n. 10052 del 2000; Cass. n. 5544 del 1998; Cass. n. 459 del 1997), indicazione che non è richiesta – come dianzi osservato – quale elemento costitutivo della validità dell’atto impositivo, e che rimane disciplinata dalle regole processuali proprie della istruzione probatoria, le quali trovano applicazione nello svolgimento dell’eventuale giudizio introdotto dal contribuente con il ricorso di opposizione all’atto impositivo.

– Nell’ambito degli oneri di deduzione probatoria, e non dei requisiti di validità della motivazione dell’atto impositivo, ricade quindi la produzione in giudizio del “rapporto finale” OLAF, ritualmente depositato – in uno alla INF AM 23/2005 richiamata negli atti impositivi e alla nota prot. n. 41534 dell’1 dicembre 2006 – nel corso del processo di primo grado dall’Amministrazione doganale, in quanto mezzo di prova dei fatti costitutivi della pretesa tributaria;

– In ultima analisi, la sentenza d’appello si mostra, avuto riguardo al motivo di ricorso, in linea con i principi sedimentati della giurisprudenza di questa Corte: quello secondo cui la pretesa di recupero dei dazi, azionata con avviso di accertamento, è sufficientemente dimostrata ove si basi sulle risultante di atti ispettivi (allegati o richiamati) degli organismi antifrode comunitari (nella specie l’OLAF), spettando poi al contribuente che contesti il fondamento di tale pretesa fornire la prova contraria – che nel caso di specie fa difetto – della sussistenza delle condizioni di applicabilità del regime agevolativo (conf. Cass. n. 23985 del 2008, Cass. 4997 del 2009); quello secondo il quale i verbali ispettivi dell’OLAF ben possono essere posti a fondamento degli atti impositivi emessi dall’autorità doganale, ancorchè non siano materialmente allegati all’atto, purchè questo – in conformità al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5 bis, richiamando le risultanze ispettive ne riporti, – come nel caso di specie – i tratti essenziali, ai fini dell’esercizio del diritto di difesa (cfr. Cass. n. 5892 del 2013; Cass. n. 23985 del 2008).

– Nè rileva che negli atti impositivi fosse richiamata la nota INF AM 23/2005, in luogo della relazione conclusiva dell’OLAF, successivamente formata, atteso che pure detta nota – rispetto alla quale la ricorrente non ha denunciato nei gradi di merito alcuna difformità rispetto alla relazione anzidetta -, come tutte le informazioni acquisite ai sensi del Reg. CE n. 515 del 1997, art. 45, comma 3, possono essere utilizzati dall’amministrazione nei procedimenti giudiziali per inosservanza della regolamentazione doganale (v. Cass. n. 15780 del 2012; Cass. n. 23985 del 2008), il che spiega, d’altronde, perchè agli Stati membri debba essere trasmesso dall’OLAF anche “ogni documenti utile” pertinente all’indagine esterna compiuta (Reg. CE n. 1073 del 1999, art. 9, comma 3).

– Il terzo e il quarto motivo sono intimamente connessi, attingendo entrambi, sia sotto il profilo della violazione di legge che del difetto motivazionale, l’asserito contrasto della pronuncia d’appello con l’art. 220 del codice doganale comunitario.

– Le censure sono destituite di fondamento e vanno rigettate.

– In tema di tributi doganali, come precisato dalla giurisprudenza comunitaria, lo stato soggettivo di buona fede dell’importatore richiesto dall’art. 220, n. 2, lett. b, del codice doganale comunitario (Regolamento CE n. 2913 del 1992), ai fini dell’esenzione della contabilizzazione “a posteriori” dei dazi, può essere invocato solo se l’errore dell’autorità sia di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore di buona fede, il quale deve anche aver rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore in relazione alla sua dichiarazione in dogana, sicchè quando l’errore dell’Amministrazione sia consistito nella mera ricezione delle dichiarazioni inesatte dell’esportatore – in particolare sull’origine della merce – tale buona fede non sussiste e il debitore è tenuto a sopportare il rischio derivante da un documento commerciale che si riveli falso in occasione di un successivo controllo (Cass. n. 13770 del 2016; Cass. n. 7702 del 2013).

– L’errore dell’autorità, rilevante ai fini del Reg. CEE n. 2913/92, ridetto art. 220, n. 2, lett. b), deve palesarsi tale da non poter essere ragionevolmente riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza professionale e diligenza, occorrendo, inoltre, che il debitore abbia rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore relativamente alla dichiarazione in dogana; in particolare, detto errore non può consistere nella mera ricezione di dichiarazioni inesatte dell’esportatore, dato che l’Amministrazione non deve verificarne o valutarne la veridicità, ma richiede un comportamento attivo, perchè il legittimo affidamento del debitore è protetto solo se le autorità competenti hanno determinato i presupposti su cui si basa la sua fiducia, mentre la Comunità non è tenuta a sopportare le conseguenze pregiudizievoli di comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori (Cass. n. 3468 del 2014).

– L’esenzione prevista dall’art. 220 c.d.c., n. 2, lett. B), presuppone ineludibilmente la genuinità del certificato di origine, ragion per cui spetta all’importatore che intende usufruire dell’esenzione dimostrare l’origine della merce che importa e, in ogni caso, il suo stato soggettivo di buona fede, mediante la prova della sussistenza cumulativa di tutti i presupposti indicati dalla citata norma, mentre all’autorità doganale incombe esclusivamente l’onere di dare dimostrazione delle irregolarità delle certificazioni presentate, atteso che qualsiasi certificato risultante inesatto autorizza il recupero a posteriori, senza necessità di alcun procedimento intermedio che convalidi la non autenticità, provvedendo gli stessi organi dell’esecutivo comunitario a fornire tramite le disposte commissioni di inchiesta le conclusioni cui debbono attenersi le autorità nazionali.

– Il contribuente ha omesso di dimostrare la propria buona fede, limitandosi a pretenderla siccome presunta, astenendosi, in tal guisa, dalla dimostrazione che l’errore indotto dall’autorità non fosse riconoscibile da parte sua, nonostante l’esperienza professionale e l’uso dell’ordinaria diligenza, e che tale errore fosse imputabile a comportamento “attivo” delle autorità che rilasciarono il certificato e non si configurasse quale come meramente passivo, ossia indotto da dichiarazioni inesatte rese dall’esportatore all’autorità doganale (v. Cass. n. 5892 del 2013; Cass. n. 13496 del 2012; Cass. n. 4997 del 2009).

– Tali circostanze sono rimaste sfornite di prova, essendosi il contribuente limitato a richiamare la documentazione di trasporto da Manila dei carichi di merce, documentazione peraltro contraddetta, sia dalle risultanze delle indagini condotte dall’OLAF, che dal certificato di imbarco dei prodotti nel porto cinese di Dalian.

– Pertanto, essendo revocata in dubbio l’autenticità della documentazione relativa all’origine della merce importata (ossia al luogo in vui è realizzata) e/o alla provenienza (ossia al luogo da dove essa giunge ovvero è lavorata oppure trasformata) della merce importata, gli accertamenti compiuti dagli organi esecutivi dell’OLAF ai sensi del Reg. n. 1073 del 1999, in ragione della loro formazione e per il valore di atti pubblici ad essi attribuibile (artt. 2699 e 2700 c.c.), legittimamente rivelavano piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari; gli esiti delle indagini condotte dal predetto ente erano ben idonee ad essere posti, anche da soli – come è accaduto nel caso di specie – a base degli avvisi di accertamento per il recupero dei dazi sui quali erano incentrate le esenzioni o riduzioni, spettando al contribuente – che se ne è astenuto – di contestarne il fondamento, fornendo la la prova contraria in ordine alla sussistenza delle condizioni di applicabilità del regime agevolativo (Cass. n. 4997 del 2009; Cass. n. 23985 del 2008).

– In tal senso, appassisce il valore attribuibile, nell’economia del tessuto argomentativo che sorregge la sentenza d’appello, al riferimento dei giudici della Commissione tributaria regionale alle risultanze del procedimento penale conclusosi favorevolmente per il rappresentante legale della contribuente; del pari, non riveste peso probatorio dirimente, proprio in quanto contraddetta dalle antitetiche risultanze delle indagini dell’OLAF, la documentazione che attesta la provenienza da Manila della merce successivamente imbarcata in un porto cinese; infine, di nessun rilievo – in quanto privo di portata “esonerativa” del contribuente rispetto ai propri oneri probatori e di efficacia esimente rispetto alla contabilizzazione dei dazi – si palesa il riferimento, contenuto nella sentenza d’appello, in ordine al “subitaneo e transeunte incremento nel periodi di tempo… delle transazioni commerciali della merce”.

– Benchè la contribuente evochi l’art. 220, n. 2, lett. b), codice doganale comunitario, spettava, in ultima analisi, proprio ad essa la prova della sussistenza delle condizioni di applicabilità di un regime di tipo agevolativo (Cass. n. 1583 del 2012) e la dimostrazione d’aver agito con diligenza per assicurarsi che fossero state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale (Cass. n. 15547 del 2010).

– In particolare, la buona fede dell’importatore non era suscettibile di essere, nè ipotizzata, men che meno presunta – come pure preteso dalla contribuente -, non essendo essa esentata da responsabilità per l’adempimento dell’obbligazione doganale, palesandosi quale dichiarante della merce importata, quand’anche scortata da certificati inesatti o falsificati a sua insaputa (cfr. Corte di giustizia, sent. 17 luglio 1997 in causa C- 97/95); d’altronde, la Comunità Europea non è tenuta a subire le conseguenze di comportamenti scorretti dei fornitori dei suoi cittadini, che rientrano nel rischio dell’attività commerciale, contro il quale gli operatori economici ben possono premunirsi nell’ambito dei loro rapporti negoziali (Cass. n. 14509 del 2008).

– Di contro, la scelta effettuata dalla società contribuente riguardo al soggetto fornitore/esportatore con cui concludere rapporti commerciali e l’intensità e la protrazione nel tempo di tali rapporti ponevano la società stessa nelle condizioni di esaminare la merce importata e d’individuarne le origini quanto meno, ad esempio, attraverso la verifica di caratteristiche, tecniche e modi di lavorazione (Cass. n. 5343 del 2006).

– Nè va, infine, trascurato che quand’anche sussistente in astratto detta buona fede in capo all’importatore non avrebbe potuto rivestire un valore esimente in re ipsa (cfr. Cass. n. 13680 del 2009 e Cass. n. 7837 del 2010), e ciò in quanto: a) per effetto dell’art. 904, lett. e), del Regolamento n. 2454 del 1993, non può procedersi a sgravi o rimborsi all’importazione a seguito della presentazione, anche in buona fede, di certificati falsi, falsificati o irregolari; b) la presentazione in un ufficio doganale di una dichiarazione firmata dal dichiarante o dal suo rappresentante è impegnativa, ai sensi del Reg. CE n. 2454 del 1993, art. 199, per quanto riguarda l’esattezza delle indicazioni riportate nella dichiarazione, l’autenticità dei documenti acclusi e l’osservanza di tutti gli obblighi inerenti al regime considerato; c) vige il principio secondo cui la Comunità non è tenuta a sopportare le conseguente pregiudizievoli dei comportamenti scorretti dei fornitori degli importatori (Cass. n. 4947 del 2012 e Cass. n. 5400 del 2012).

– Il quinto motivo di ricorso è inammissibile.

– Mediante detta censura, la ricorrente assume l’avvenuta violazione dell’art. 211 del Trattato CE e quella dell’art. 239 codice doganale comunitario, lamentando una sostanziale, mancata vigilanza da parte degli organi comunitari sull’emissione dei certificati di origine e provenienza della merce (c.d. “Form A”) da parte delle Filippine.

– La doglianza impinge nella manifesta impossibilità di questa Corte di scrutinare l’asserita violazione omissiva, ad opera di un’istituzione comunitaria, del Trattato istitutivo della CE, dovendosi ricondurre il relativo sindacato alla Corte di giustizia, ai sensi e per gli effetti dell’art. 265 del richiamato trattato.

– Inammissibile è, infine, il sesto motivo di ricorso;

– Suo tramite la contribuente deduce la nullità della sentenza per “mancato esame, ovvero per manifesta insufficienza di motivazione su tutte le eccezioni svolte dalla ricorrente”, nonchè la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il giudice d’appello emesso la decisione “in difetto della doverosa analisi dei profili giuridici e fattuali eccepiti dalla ricorrente”.

– La censura difetta di autosufficienza, posto che, pur adombrando l’omessa considerazione di “decisive argomentazioni giuridiche” e di “significative circostanze fattuali”, la ricorrente non ne offre sostanza e contezza, limitandosi ad imprecisati e imperscrutabili riferimenti (“es le bili of landing in possesso della ricorrente debitamente prodotti”; “esempio le polizze di carico presentate in dogana”).

– E’ noto che, in tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacchè i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel “thema decidendum” del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito nè rilevabili di ufficio (v. Cass. n. 20694 del 2018; Cass. n. 16632 del 2010; Cass. n. 7981 del 2007).

– In quest’ottica, il ricorrente ha l’onere – disatteso nel caso che occupa – di riportare in ricorso, a pena di inammissibilità, gli esatti termini delle questioni poste in primo e secondo grado che assume obliterate o disattese dalla sentenza impugnata (Cass. n. 9765 del 2005; Cass. n. 12025 del 2000).

– Il ricorso va, in ultima analisi, rigettato; le spese sono regolate dalla soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali sostenute dall’Agenzia delle Dogane nel presente giudizio, che liquida in Euro 5.600,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria della Suprema Corte di Cassazione, il 18 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2020

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