Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6215 del 14/03/2018


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Cassazione civile, sez. VI, 14/03/2018, (ud. 07/02/2018, dep.14/03/2018),  n. 6215

Fatto

– che con la sentenza in epigrafe la CTR campana accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto da I.A., di professione avvocato, avverso gli avvisi di accertamento di maggiori redditi professionali ai fini IVA, IRPEF ed IRAP relativi agli anni di imposta 2007 e 2009;

– che secondo i giudici di appello la rinuncia “diffusa e sistematica” ai compensi per le prestazioni professionali, anche di non modico valore, rese sia dinanzi ai giudici di pace che al tribunale, civile ed amministrativo, connotava di gravità, precisione e concordanza, le presunzioni di maggiori redditi accertati induttivamente dall’amministrazione finanziaria, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 2, trattandosi di comportamento che, tenuto conto del numero esiguo delle fatture emesse e dell’esiguità del reddito dichiarato, configgeva con le elementari regole di ragionevolezza, non superabile dalle dichiarazioni rese da alcuni clienti, in quanto prive di intrinseca credibilità;

– che il contribuente ricorre per cassazione sulla base di tre motivi, di cui il primo articolato in due diverse censure, cui replica l’intimata Agenzia con controricorso;

– che la Corte, costituito il contraddittorio camerale sulla relazione prevista dall’art. 380-bis c.p.c., ha disposto la redazione dell’ordinanza con motivazione semplificata.

Diritto

CONSIDERATO

– che con il primo motivo il ricorrente deduce l’omessa pronuncia dei giudici di appello in ordine alle eccezioni di inammissibilità dell’appello dell’Agenzia delle entrate per nullità della delega conferita al funzionario che aveva sottoscritto l’atto (prima censura) e per difetto di specificità dei motivi proposti dall’Ufficio appellante (seconda censura);

– che la prima doglianza è fondata in quanto la CTR, pur avendo dato atto, nella parte dedicata all’esposizione dello svolgimento del processo, dell’eccezione formulata dall’appellato nelle controdeduzioni, ometteva di pronunciarsi sulla stessa, dovendo escludersi la sussistenza di un’incompatibilità logica dell’eccezione in esame con la statuizione adottata, tale da consentire di ritenere che la stessa sia stata implicitamente rigettata (arg. da Cass. n. 16788 del 2006, n. 20311 del 2011, n. 3417 del 2015, n. 1360 del 2016);

– che, invece, a diversa conclusione deve pervenirsi con riguardo alla seconda censura, che è inammissibile perchè denuncia l’omessa pronuncia del giudice di appello su questione processuale e non di merito (Cass. n. 321 del 2016, secondo cui “Il mancato esame da parte del giudice di una questione puramente processuale (…) non è suscettibile di dar luogo al vizio di omissione di pronuncia, il quale si configura esclusivamente nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito, ma può configurare un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c. se, ed in quanto, si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte”);

– che, diversamente dalla proposta formulata dal relatore, il Collegio ritiene che vada esaminato anche il secondo motivo di ricorso, con cui il ricorrente, deducendo la violazione di diverse disposizioni di legge, anche processuali, ha sostanzialmente dedotto la carenza dei presupposti giustificativi dell’accertamento induttivo nonchè la violazione dei criteri legali di valutazione della prova;

– che il primo profilo di censura incorre nel vizio di inammissibilità per genericità della censura; il ricorrente, infatti, si limita ad affermare “che gli elementi che l’Ufficio ha posto a base della motivazione dei due diversi avvisi di accertamento impugnati non presentano affatto le connotazioni legali e tipiche prescritte dal D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 37, 38 e 39, e D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 55, non assurgendo a fatti costitutivi della (maggiore) pretesa tributaria azionata e non fornendo, dunque, la prova di elementi e circostanze rilevatori dell’esistenza di un maggior reddito” (ricorso, pag. 18), omettendo, altresì, di riprodurre il contenuto degli atti impostivi, necessario ai fini della verifica della fondatezza della censura in esame, in evidente spregio alla regola della necessaria autosufficienza del ricorso per cassazione postulata dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6;

– che la censura è, peraltro, anche palesemente infondata, posto che l’omessa fatturazione di corrispettivi conseguiti nello svolgimento di attività professionale giustifica ampiamente il ricorso al tipo di accertamento in concreto espletato dall’amministrazione finanziaria (arg. da Cass. n. 1942 del 2007, n. 11680 del 2002), essendo noto e consolidato il principio in virtù del quale, in tema di rettifica delle dichiarazioni dei redditi d’impresa, qualora l’amministrazione constati delle irregolarità della contabilità di gravità tale da determinare un’inattendibilità globale delle scritture, è autorizzata, ai sensi delle citate disposizioni, a prescindere da esse ed a procedere in via induttiva, avvalendosi anche di semplici indizi sforniti dei requisiti necessari per costituire prova presuntiva: la circostanza che le irregolarità contabili siano così gravi e numerose da giustificare un giudizio di complessiva inattendibilità delle stesse rende, dunque, di per sè sola legittima l’adozione del metodo induttivo (tra le altre, Cass. n. 9097 del 2002, n. 27068 del 2006, n. 6086 del 2009, n. 18902 del 2011, n. 13735 del 2016);

– che inammissibile, oltre che palesemente infondata, è anche la violazione dei criteri legali di valutazione della prova di cui agli artt. 115 e 166 c.p.c. dedotta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

– che, invero, questa Corte ha condivisibilmente affermato che “In tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012” (Cass. n. 23940 del 2017); a ciò aggiungasi che la doglianza circa il cattivo esercizio da parte del giudice di merito del prudente apprezzamento delle prove è fondata su circostanze niente affatto decisive, tali non potendosi considerare nè l’erroneo riferimento fatto dai giudici di appello agli anni di imposta oggetto di verifica, nè il numero, ritenuto erroneamente elevato, di prestazioni gratuite rese dal professionista (che andava comunque rapportato all’esiguità delle fatture emesse e dei ricavi dichiarati, come affermato dalla CTR), nè, infine, la ragione di inattendibilità delle dichiarazioni dei clienti, fondata principalmente sulla mancata rilevazione delle stesse agli atti del processo, “con conseguente impossibilità di verificare se inerenti anche alle cause oggetto di contestazione” (pag. 3 della sentenza impugnata);

– che è invece fondato il terzo motivo di cassazione con cui il ricorrente lamenta l’omessa pronuncia della Commissione di appello sul motivo di ricorso con cui aveva dedotto la violazione dei criteri legali di determinazione del valore delle cause e dei compensi, ovvero l’erroneità della determinazione dei compensi per le singole prestazioni professionali riprese a tassazione, nonchè l’insussistenza dei presupposti per l’applicabilità dell’IRAP, non rinvenendosi nella sentenza impugnata alcuna statuizione in merito alle predette questioni, proposte come motivi di ricorso di primo grado e riproposti nelle controdeduzioni d’appello;

– che, in estrema sintesi, va accolto il primo motivo di ricorso, nei termini di cui sopra si è detto, nonchè il terzo motivo, rigettato il secondo, con conseguente cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla competente CTR, che regolamenterà anche le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

accoglie il primo e terzo motivo di ricorso, nei termini di cui in motivazione, rigetta il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2018

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