Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6200 del 05/03/2020

Cassazione civile sez. I, 05/03/2020, (ud. 15/01/2020, dep. 05/03/2020), n.6200

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 6464/2016 proposto da:

P.B.R., rappresentato e difeso dall’Avv. Domenico

Romito, giusta mandato speciale ex art. 83 c.p.c., elettivamente

domiciliato presso il suo studio in Bari alla via Principe Amedeo,

n. 115;

– ricorrente –

contro

Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a., nella persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. Paolo

Pellegrino, come da mandato rilasciato su foglio separato,

elettivamente domiciliata, insieme al suo difensore, in Roma, presso

lo studio del sig. Marco Gardin;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 536/2015 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

pubblicata in data 19/08/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/01/2020 dal consigliere Dott. Lunella Caradonna.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. P.B.R. ha convenuto in giudizio la MPS Banca Personale, oggi Monte dei Paschi di Siena S.p.a. per la declaratoria di nullità, annullamento e/o inefficacia del contratto sottoscritto il 10 luglio 2001 denominato “(OMISSIS)” e la condanna della Banca convenuta alla restituzione delle somme addebitate e prestate dalla data del versamento alla definitiva cessazione delle pretese e, in subordine, per la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno pari agli importi versati o alla diversa somma stabilita, oltre interessi e danno da svalutazione monetaria ex art. 1224 c.c.

2. La causa, trattata con il rito societario, è stata decisa dal Tribunale adito con sentenza n. 857/2011 del 17 febbraio – 2 aprile 2012, che ha rigettato la domanda e compensato integralmente le spese processuali.

3. Avverso la pronuncia di primo grado P.B.R. ha proposto appello e la Corte di appello di Lecce ha dichiarato la nullità del contratto “(OMISSIS)”, stipulato tra le parti il 10 luglio 2001 e condannato la Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a. alla restituzione della somma risultante dalle rate versatele in esecuzione del citato contratto, compensando le spese processuali del grado.

4. P.B.R. ricorre in cassazione con tre motivi, oltre alla riproposizione delle domande assorbite nel giudizio di merito.

5. La Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a. ha presentato controricorso.

6. Il ricorrente ha depositato memoria difensiva ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo Rocco P.B. lamenta la violazione dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, violazione e applicazione degli artt. 2033,1332,1337,1338 e 1375 c.c.. Omessa motivazione con riferimento alla buona fede della banca e decorrenza interessi.

Il ricorrente, in particolare, deduce che la Corte territoriale abbia disposto la decorrenza degli interessi dalla data della domanda in assenza di una adeguata motivazione, così da implicitamente ritenere che la Banca sia stata ritenuta in buona fede.

1.1 Il motivo è infondato.

E’ orientamento di questa Corte che “In materia di indebito oggettivo, la buona fede dell'”accipiens”, rilevante ai fini della decorrenza degli interessi dal giorno della domanda, va intesa in senso soggettivo, quale ignoranza dell’effettiva situazione giuridica, derivante da un errore di fatto o di diritto, anche dipendente da colpa grave, non trovando applicazione l’art. 1147 c.c., comma 2, relativo alla buona fede nel possesso, sicchè, essendo essa presunta per principio generale, grava sul “solvens”, che intenda conseguire gli interessi dal giorno del pagamento, l’onere di dimostrare la malafede dell'”accipiens” all’atto della ricezione della somma non dovuta, quale consapevolezza della insussistenza di un suo diritto a conseguirla” (Cass., 18 novembre 2016, n. 23543).

Lo stesso principio è stato affermato in tema di risoluzione del contratto evidenziando che “In tema di intermediazione finanziaria, allorchè sia stata pronunciata la risoluzione del contratto per inadempimento della banca, non può reputarsi “in re ipsa” la prova della mala fede, traendo tale convincimento dalla mera imputabilità ad essa dell’inadempimento che abbia determinato la risoluzione del contratto. Ne consegue che il credito del cliente avente ad oggetto il rimborso del capitale investito produce interessi, in base ai principi in tema di ripetizione dell’indebito, solo a seguito della proposizione della domanda giudiziale, gravando su chi richiede la decorrenza dalla data del versamento l’onere di provare che la banca era in mala fede (Cass., 16 febbraio 2018, n. 3912).

Nel caso in esame, dalla lettura della sentenza impugnata non risulta che il ricorrente abbia prima allegato e poi provato la mala fede dell’istituto di credito, che di conseguenza non è stata mai oggetto di accertamento nel giudizio di merito.

2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, in relazione all’art. 1224 c.c., all’art. 112 c.p.c., con riferimento alla domanda di svalutazione monetaria.

In particolare, il ricorrente lamenta che la Corte territoriale non si era espressa sulla richiesta, formulata in primo grado e ribadita in appello, di condanna all’ulteriore danno da svalutazione monetaria ex art. 1224 c.c.

2.1 Il motivo è infondato.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all’art. 1224 c.c., comma 2, può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l’attività svolta (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l’onere di provare l’esistenza e l’ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l’onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero – attraverso la produzione dei bilanci – quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l’onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale. (Cass., Sez. Un. 16 luglio 2008, n. 19499).

Nel caso in esame, il ricorrente ha formulato la domanda di risarcimento del maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, in modo estremamente generico, limitandosi a chiedere il “danno da svalutazione monetaria” senza neppure dedurre che, nel periodo di interesse, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi fosse stato superiore al saggio degli interessi legali.

3. Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, in relazione agli artt. 91 e 92 c.p.c., nonchè omessa motivazione in ordine alla compensazione delle spese. Ad avviso del ricorrente la Corte ha fatto un’errata applicazione degli artt. 91 e 92, poichè i giusti motivi devono essere specificati e motivati e che la laconica motivazione della Corte (“reputa la Corte che la peculiarità della questione giustifichi la compensazione delle spese processuali”) si sostanzia di fatto in un grave vizio di motivazione censurabile in Cassazione. 3.1 Il motivo è infondato.

Al riguardo va osservato che al presente giudizio, iniziato in primo grado il 14 febbraio 2008, è applicabile ratione temporis l’art. 92 c.p.c., nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2 il quale consentiva la compensazione delle spese solo per “giusti motivi” espressamente indicati nella motivazione.

E’ giurisprudenza di questa Corte che la compensazione delle spese costituisce una facoltà discrezionale riservata al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimità (Cass., 20 dicembre 2017, n. 30592) e che quando il giudice di merito decida di compensare le spese non limitandosi a fare riferimento all’esistenza di “giusti motivi”, ma indichi specificamente le ragioni della sua pronuncia, il sindacato di legittimità si deve estendere in tal caso alla verifica dell’idoneità in astratto dei motivi posti a giustificazione della pronuncia (Cass., 31 maggio 2018, n. 13767).

Nel caso in esame, la Corte territoriale ha compensato le spese in considerazione della peculiarietà della questione, facendo così implicito riferimento alla non chiara formulazione – precedentemente rilevata nella motivazione – della domanda di nullità, poi accolta, nell’atto di citazione introduttivo del giudizio.

4. Il ricorrente ha, poi, reiterato le domande ritenute assorbite dalla Corte di appello di Lecce: domande che non configurano motivi di ricorso e sulle quali questa Corte non è comunque tenuta a pronunciarsi.

5. Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e la parte ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla società controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonchè al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 15 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2020

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