Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6191 del 05/03/2020

Cassazione civile sez. I, 05/03/2020, (ud. 04/12/2019, dep. 05/03/2020), n.6191

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. LIBERATI Giovanni – Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 36650/2018 proposto da:

B.K., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza dei Consoli

62, presso lo studio dell’avvocato Enrica Inghilleri, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Lucia Paolinelli;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno (OMISSIS);

– intimato –

avverso il Decreto n. 12001/2018 del 29 ottobre 2018 del Tribunale di

Ancona;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

4/12/2019 dal Consigliere Dottoressa Irene Scordamaglia.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. B.K., cittadino del Gambia, ricorre avverso il decreto, in data 29 ottobre 2018, n. 12001/2018, con il quale il Tribunale di Ancona ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento di diniego di protezione internazionale e umanitaria emesso dalla locale Commissione territoriale.

1.1. Col primo motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “la violazione e falsa della legge”, per avere il Tribunale di Ancona reso una motivazione apparente o comunque insufficiente sui capi 4, 5 e 6;

1.2. Con il secondo motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione: dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra; del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1, 2, 3, 4 e 5, e art. 14, e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, e art. 11, in riferimento ai capi 3, 4 e 5; del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, in riferimento al capo 6. E’ pure dedotto il vizio di motivazione.

2. L’Amministrazione intimata non ha svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Il ricorso è inammissibile.

1. Il Tribunale censurato ha escluso che ricorressero nella vicenda narrata dal B. – il quale aveva allegato di essere fuggito nel 2016 dal Gambia, suo Paese di origine, per sottrarsi alla detenzione in un campo di prigionia, nel quale era stato recluso ed ivi sottoposto a vessazioni di ogni tipo, dopo che con la sua famiglia era stato vittima di una violenta rappresaglia posta in essere dai mussulmani sunniti in ragione del rifiuto di abiurare la religione Ahmediyya praticata; situazione, quella rappresentata, che gli aveva cagionato la perdita della casa, dei familiari ed una condizione di cecità – i requisiti delle forme di protezione richieste, vuoi perchè le sue dichiarazioni erano state ritenute scarsamente credibili e, comunque, contraddittorie rispetto a punti fondamentali della vicenda narrata (il motivo dell’espatrio), vuoi perchè il pericolo di subire persecuzioni o di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti ad opera dei proseliti della confessione religiosa (la mussulmana) dominante non poteva dirsi più attuale, posto che, con l’avvento del nuovo Presidente Ba., è stato costituzionalizzato in Gambia il divieto di discriminazioni religiose ed i rapporti informativi delle più autorevoli istituzioni internazionali non danno conto di episodi di conversioni forzate. Ha, parimenti, escluso sulla base della consultazione di affidabili fonti di informazioni, delle quali ha dato puntualmente conto nel provvedimento impugnato, che in Gambia sia riscontrabile una situazione di instabilità politico-sociale di livello così elevato da potere essere qualificata nei termini di quella “violenza generalizzata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, che consente il riconoscimento nei confronti dello straniero della forma di protezione internazionale di cui al D.Lgs. n. 251 del 2008, art. 14, lett. c), in considerazione del percorso di pacificazione nazionale, di democratizzazione delle istituzioni e di rispetto dei diritti umani, avviato dal Presidente Ba.Ad.. Quanto alla richiesta protezione umanitaria, ne ha fondato il diniego evidenziando, in generale, come l’assenza di allegazioni da parte dello straniero vuoi di peculiari situazioni soggettive attestanti condizioni di vulnerabilità, vuoi di un effettivo radicamento sul territorio dello Stato ospitante, determinato da ragioni familiari o di una concreta integrazione lavorativa, letta in connessione con il mancato riscontro di una situazione di grave vulnerazione dei diritti umani fondamentali nel Paese di origine, non consentisse di pervenire ad una prognosi positiva quanto all’esposizione del richiedente, in ipotesi di rimpatrio, ad una situazione di negazione della dignità personale. Non ha mancato, peraltro, di precisare che i trattamenti sanitari connessi al problema alla vista allegato dal ricorrente, pur se non suscettibili di essere valorizzati ai fini del rilascio del permesso per seri motivi umanitari, erano tali da integrare le condizioni per il divieto di espulsione ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 2, e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, lett. b bis, e per il rilascio di uno speciale permesso ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 36.

2. Al cospetto di un simile impianto argomentativo, sotteso al diniego di tutte le forme di protezione internazionale, il primo motivo di ricorso, che denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la motivazione apparente o insufficiente è generico e quindi manifestamente inammissibile.

Il provvedimento impugnato contiene, infatti, una spiegazione esauriente delle ragioni atte a suffragare il rigetto delle domande proposte, sicchè non si ravvisano quei radicali vizi motivazionali che oggi assumono rilievo in sede di legittimità: “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, “motivazione apparente”, “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830 – 01; Sez. U, n. 8054 del 07/04/2014, Rv. 629833 – 01).

3. Il secondo motivo è parimenti inammissibile.

Il Tribunale ha fondato il proprio giudizio su di una lettura integrata, siccome stabilito alla disposizione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), delle dichiarazioni rese dal B. e delle informazioni circa il suo Paese di origine, siccome ritraibili dalla consultazione di fonti qualificate ed aggiornate, e sulla base di ciò ha escluso che ricorressero le condizioni per il riconoscimento sia della protezione maggiore che di quella minore. Con specifico riguardo all’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ha rilevato che il Gambia non si segnala attualmente per alcun tipo di instabilità politica: il che all’evidenza esclude la fattispecie della “minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armalo interno o internazionale”. Del resto l’accertamento circa l’esistenza di tale minaccia costituisce apprezzamento di fatto di esclusiva competenza del giudice di merito (Sez. 6 – 1, n. 32064 del 12/12/2018, Rv. 652087 – 01; Sez.ò 1 -, n. 30105 del 21/11/2018, Rv. 653226 – 02), salvo il rilievo che possano assumere i vizi motivazionali: vizi che, come spiegato, nella fattispecie non ricorrono.

A fronte di tali approfonditi rilievi, che danno conto della correttezza dell’operazione di sussunzione dei fatti allegati alle norme di legge di cui il ricorrente ha chiesto l’applicazione, le doglianze sviluppate in ricorso si caratterizzano per genericità e per astrattezza, in quanto risultano prive di qualsivoglia specifica correlazione con le specifiche rationes decidendi delle singole statuizioni negatorie.

In particolare nessun decisivo rilievo assume, ai fini della corretta applicazione delle norme di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 2, l’allegata integrazione socio-lavorativa asseritamente raggiunta dal richiedente, posto che vige nella materia de qua il principio di diritto secondo il quale non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU, può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Sez. 6 – 1, n. 17072 del 28/06/2018, Rv. 649648 – 01).”. Approdi interpretativi, quelli riportati, che, di recente, hanno ricevuto l’autorevole avallo del Supremo Consesso di legittimità, che, con la sentenza n. 29459 del 13 novembre 2019, hanno affermato il principio di diritto così enunciato: “In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza”.

Prive di rilievo risultano le argomentazioni difensive circa la condizione di salute del richiedente la protezione umanitaria, trattandosi di deduzioni che non illustrano il dedotto vizio di violazione di legge, ma, al più, una questione di fatto, il cui apprezzamento, ove ritenuta non adeguatamente valutata ed affrontata con una motivazione adeguata, avrebbe potuto essere censurato esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: norma, questa, neppure evocata nell’articolazione del motivo.

4. Il ricorso deve essere, dunque, dichiarato inammissibile. Nulla deve disporsi sulle spese del presente giudizio, atteso che l’intimato è rimasto tale. Il doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dovrà essere corrisposto ove ne sussistano i presupposti, secondo quanto chiarito dalla sentenza Sez. 1 n. 9660/2019, cui si intende prestare adesione.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla è dovuto a titolo di spese. Il doppio contributo di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dovrà essere versato, ove ne sussistano i presupposti.

Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2020

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