Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 617 del 15/01/2021

Cassazione civile sez. un., 15/01/2021, (ud. 01/12/2020, dep. 15/01/2021), n.617

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Primo Presidente –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente di Sez. –

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente di Sez. –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5562/2020 proposto da:

S.P., S.G., S.E.,

S.A.A., S.M., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA BARNABA TORTOLINI 30, presso lo studio del Dott. ALFREDO

PLACIDI, rappresentati e difesi dagli avvocati GIACOMO VALLA, e

MICHELE SERRICCHIO;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI MONTE SANT’ANGELO, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. PAISIELLO 55, presso lo

studio dell’avvocato FRANCO GAETANO SCOCA, rappresentato e difeso

dall’avvocato GIUSEPPE MESCIA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5744/2019 del CONSIGLIO DI STATO, depositata

il 20/08/2019.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

01/12/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLO COSENTINO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso;

uditi gli avvocati Giacomo Valla, Michele Serricchio e Bruno

Taverniti, per delega dell’avvocato Giuseppe Mescia.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. I sigg. S.G., M., A.A., P. ed E. hanno proposto ricorso, sulla scorta di un solo motivo, per la cassazione della sentenza del Consiglio di Stato che, confermando la sentenza del TAR Puglia, ha declinato la giurisdizione del giudice amministrativo, in favore del giudice ordinario, sulla controversia da loro introdotta nei confronti del Comune di Monte Sant’Angelo per l’annullamento della Delib. Giunta Comunale 26 giugno 2015, n. 116 (successivamente integrata con Delib. correttiva n. 39 del 2015, della apposita Commissione Straordinaria) e degli atti presupposti e conseguenti.

2. L’impugnata Delib. n. 116 del 2015, aveva ad oggetto la modifica ed integrazione, in via di autotutela, della Delib. Giunta Comunale n. 341 del 2005, con la quale il medesimo Comune di Monte Sant’Angelo aveva dichiarato estinto il livello gravante sul terreno di proprietà della sig.ra V.M., previa determinazione del relativo capitale di affrancazione in Euro 156,97; con la Delib. n. 116 del 2015, il medesimo capitale di affrancazione è stato rideterminato nella somma di Euro 609.993,28.

3. In linea di fatto, è necessario esporre che – secondo la ricostruzione dei fatti offerta nel ricorso e non contestata dal Comune contro ricorrente – la suddetta sig.ra V. era proprietaria, in agro di (OMISSIS), di un terreno che, gravato in passato da usi civici, era stato affrancato da tali usi già in epoca remota, comunque anteriore al 1927 (nella memoria ex art. 378 c.p.c., a pag. 7, i ricorrenti fanno riferimento alla data del 1891). Detto terreno, secondo quanto riferito dai ricorrenti e non contestato nel controricorso del Comune, era dunque transitato, mediante la procedura di legittimazione dell’occupazione, dallo stato di terra appartenente al demanio civico allo stato di terra allodiale, rimanendo gravato di un livello in favore del Comune di Monte Sant’Angelo.

4. In proposito, ai fini della migliore intelligenza della questione di giurisdizione sottoposta a queste Sezioni Unite, è opportuno svolgere fin da ora le seguenti precisazioni.

5. Come più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, il “livello” si identifica in un diritto reale di godimento assimilabile all’enfiteusi (cfr. Cass. 1366/1961, Cass. 1682/1963, Cass. 64/1997, Cass. 23752/2011, Cass. 9135/2012, Cass. 3689/2018). Il termine “livello” derivante da libellus, la scrittura in doppio originale (“duo libelli pari tenore conscripti”) con cui veniva stipulato il contratto costitutivo del diritto e nel quale venivano documentati gli obblighi delle parti – designa, infatti, un contratto, conosciuto già nel tardo diritto romano e molto diffuso nel medioevo e fino alle soglie dell’età contemporanea, avente ad oggetto il possesso e lo sfruttamento, generalmente con clausole di miglioria, di fondi rustici, o anche urbani. Nella successiva evoluzione storica, fino ai nostri giorni, i nomi “livello” ed “enfiteusi” vennero promiscuamente adoperati nell’uso comune, per modo che i due istituti, pur se originariamente distinti (giacchè nell’enfiteusi il concedente si identificava nel proprietario del fondo, mentre nel contratto di livello il concedente non era il titolare del dominio diretto, bensì il vassallo o l’enfiteuta), finirono in prosieguo, già prima delle codificazioni moderne, per confondersi ed unificarsi, con la conseguente estensione della generale disciplina sulla enfiteusi anche ai livelli; la figura del livellario e quella dell’enfiteuta appaiono infatti considerate unitariamente, ad esempio, nel Regolamento per l’esecuzione delle disposizioni legislative sul riordinamento dell’imposta fondiaria, approvato con il R.D. n. 1539 del 1933, con riguardo alle modalità di intestazione dei beni (art. 55) e nel Regolamento per la conservazione del nuovo catasto terreni, approvato con il R.D. n. 2153 del 1938, con riguardo alle modalità di redazione della nota di voltura (art. 29).

6. Nel caso oggetto del presente giudizio – corrispondente, del resto, a situazioni largamente diffuse nel Mezzogiorno d’Italia in ragione dei processi storici originati dall’eversione della feudalità realizzata dal Re di Napoli B.G. tra il 1806 ed il 1808 – il livello risulta imposto, come accennato nel p. 2 che precede, in conseguenza dell’allodiazione di antiche proprietà collettive; si tratta, dunque, di un canone di natura enfiteutica che il titolare del diritto allodiale deve versare al Comune, quale rappresentante della comunità e referente di tali antiche proprietà collettive.

7. Va ancora evidenziato che, come queste Sezioni Unite hanno avuto occasione di chiarire nella sentenza n. 5600 del 1995, tanto nella disciplina dettata dalla L. n. 1755 del 1927, quanto nella previgente disciplina dettata negli anni immediatamente successivi alla unificazione nazionale (fissata, per quanto riguarda l’Italia meridionale, nei decreti della Luogotenenza generale di Napoli dell’1 gennaio e del 3 luglio del 1861), il provvedimento di legittimazione delle occupazioni abusive di terre del demanio civico comporta la trasformazione del demanio in allodio e, contestualmente, la nascita, in capo all’occupatore, di un diritto soggettivo perfetto di natura reale sul terreno.

8. Tale diritto tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto nel p. 4 della memoria ex 378 c.p.c., degli odierni ricorrenti (pag. 6), non si identifica nella piena proprietà, ma mantiene la caratteristica, storicamente tipica del livello, di jus in re aliena; infatti, come spiega la citata sentenza di questa Suprema Corte n. 64/1997, pagg. 7 e segg., “in esito al procedimento avente natura amministrativa – di legittimazione, da un lato, cessa il regime di inalienabilità e imprescrittibilità delle terre che diventano private, cioè nel patrimonio del comune (e non, come si invoca in ricorso “di proprietà” esclusiva del soggetto in favore del quale è stata pronunciata la legittimazione), dall’altro, viene emesso un provvedimento di natura concessoria (come tale impugnabile innanzi al giudice amministrativo) in forza del quale il privato acquista un diritto di natura reale, sul bene (v., Cass., sez. un., 9 novembre 1994 n. 9286, nonchè Cass. 23 giugno 1993 n. 6940 e, in precedenza, Cass. 15 giugno 1974 n. 1750: per effetto della legittimazione l’abusivo occupatore diventa titolare di un diritto soggettivo perfetto, con pienezza di facoltà) ma non certamente la proprietà (che rimane in capo al Comune) (cfr., sempre nel senso che per effetto della legittimazione, sorge, in capo al privato, già occupante abusivo, non la proprietà sul terreno, ma “un diritto soggettivo di natura privatistica”, valido erga omnes, Cass., sez. un. 21 novembre 1983 n. 6916; Cass. 8 novembre 1983 n. 6589). Appunto in questa ottica si giustifica la formula legislativa che prevede l’imposizione, a carico dei fondi, di un “canone enfiteutico”, che in tanto è – anche in termini di teoria generale – configurabile in quanto non esiste un diritto reale di proprietà, ma il diverso diritto di enfiteusi (tra le tantissime, nel senso che sia sotto il vigore dell’abrogato codice civile del 1865, che sotto quello vigente l’enfiteusi va configurata come diritto reale di godimento in favore del concessionario sul fondo che rimane di proprietà del concedente, Cass. 24 aprile 1969 n. 1331; Cass. 15 novembre 1976 n. 4231)”. In senso conforme si veda anche Cons. Stato, Sez. IV, 16 settembre 2011, n. 5233, ove, nel p. 3, si legge:” il livellario – così come l’enfiteuta – è titolare di un diritto reale con pienezza di facoltà nei limiti previsti dalla disciplina del codice civile (artt. 957 e segg.), su un bene di proprietà altrui, con obbligo di corrispondere un canone al proprietario e (nel caso dell’enfiteusi, non necessariamente nel caso del livello), con obbligo di migliorare il fondo”.

9. Con l’imposizione del livello, in definitiva, l’originaria demanialità delle terre – già civiche, ed ormai allodiali – si trasferisce sul canone di natura enfiteutica e sul relativo capitale di affrancazione; ed è proprio per questa persistente connotazione di demanialità del capitale di affrancazione che la L. n. 1766 del 1927, art. 24, dispone che esso venga “investito in titoli del debito pubblico intestati al Comune, alla frazione od alla associazione, con vincolo a favore del Ministero dell’economia nazionale (ora delle Politiche Agricole e Forestali, n.d.r.), per essere destinato in caso di bisogno, ad opere permanenti di interesse generale della popolazione” (cfr., in termini, Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per il Veneto, Deliberazione n. 663/2014/PAR).

10. Come accennato nel p. 2 che precede, con la menzionata Delib. n. 341 del 2005, il Comune di Monte Sant’Angelo dichiarò estinto il rapporto livellario e determinò il capitale di affrancazione a carico della sig.ra V. nell’importo di Euro 156,97, sulla scorta di una relazione tecnica di stima basata sul valore agricolo del terreno stesso.

11. Va pure precisato che, come riferisce lo stesso Comune di Monte Sant’Angelo, l’Amministrazione municipale procedette ad “estinguere i rapporti livellari esistenti e, contestualmente, a calcolare le indennità di esproprio” al fine di “procedere all’espropriazione delle aree interessate all’edificazione del comparto edificatorio” (pag. 4, p. III, del controricorso). Tale estinzione, conviene fin da ora sottolineare, è quindi l’effetto non di un contratto tra la pubblica amministrazione ed il privato, bensì di un provvedimento adottato dall’Amministrazione municipale, con Delib. di Giunta Comunale, nell’ambito del più complesso procedimento espropriativo avente ad oggetto il fondo gravato dal livello; ed infatti, come risulta dal testo della menzionata Delib. Comunale n. 341 del 2005, l’importo del capitale di affrancazione non fu materialmente versato dalla sig.ra V. ma venne scomputato dalla somma a costei dovuta a titolo di indennità di espropriazione, nella stessa Delib. liquidata in Euro 148.436,81.

12. Nel 2015, con Delib. Giunta n. 116 (successivamente integrata con Delib. correttiva n. 39 del 2015, della apposita Commissione Straordinaria), lo stesso Comune, in via di autotutela, modificò la Delib. n. 341 del 2005, rideterminando il canone livellario – e, conseguentemente, il capitale di affrancazione – in base al valore edificatorio del medesimo terreno. Con tali atti il Comune liquidò il capitale di affrancazione in un importo enormemente maggiore di quelle fissato nel 2005, ossia – come pure già accennato nel p. 2 che precede – in Euro 609.993,28, e addebitò agli eredi V. anche l’ulteriore importo dei canoni livellari relativi agli ultimi cinque anni, non prescritti, e degli interessi, formulando nei loro confronti la richiesta di una somma complessiva di Euro 765.611,57.

13. Non è superfluo precisare che l’iniziativa di autotutela adottata dal Comune di Monte Sant’Angelo nel 2015 fa seguito, come espressamente enunciato a pag. 3 della impugnata Delib. n. 116 del 2015, alla pronuncia della sentenza n. 1402/2012 con cui la Corte d’appello di Bari, investita dell’opposizione della sig.ra V. alla liquidazione dell’indennità di esproprio operata dal Comune (in Euro 148.436,81, come riferito nel precedente p. 11) aveva rideterminato tale indennità in Euro 610.000.

14. Gli eredi V. hanno impugnato davanti al TAR Puglia le delibere n. 116 e n. 39 del 2015, e gli atti alle stesse presupposti e conseguenti, deducendo l’illegittimità di tali delibere in quanto recanti una riliquidazione unilaterale dell’importo dovuto per l’affrancazione del terreno dal canone livellario in relazione ad una fattispecie già esaurita da circa dieci anni.

15. Il TAR ha declinato la giurisdizione in favore del giudice ordinario, argomentando che la controversia rientrerebbe nella giurisdizione di quest’ultimo in quanto, avendo ad oggetto la rideterminazione del capitale di affrancazione di canoni livellari, avrebbe un contenuto meramente patrimoniale.

16. Il Consiglio di Stato, adito degli eredi V., ha confermato la decisione del TAR argomentando che “l’oggetto del contendere è la legittimità della rideterminazione del canone di legittimazione e dell’importo (corrispettivo) di affrancazione del livello costituito sul fondo degli appellanti, da riparametrare sul valore venale, anzichè su quello agricolo, senza peraltro rimettere in discussione l’estinzione della concessione livellaria per effetto dell’atto di affrancazione di quella Delib. G.C. n. 341 del 2005. Dagli atti impugnati non è dato infatti evincere che sia stata annullata l’affrancazione del suolo terreno. Attiene ad altro piano del ragionamento giuridico quello degli effetti della mancata condivisione o mancata contestazione della nuova indennità di affrancazione, che comunque non appartiene al thema decidendum della presente controversia” (pag. 5, secondo capoverso, della sentenza impugnata).

17. Con l’unico motivo di ricorso, riferito all’art. 360 c.p.c., n. 1, in relazione all’art. 7 c.p.a., gli eredi V., dopo aver sostenuto che la rideterminazione unilaterale del capitale di affrancazione travolgerebbe necessariamente la stessa deliberazione di estinzione del livello, hanno argomentato che la controversia non avrebbe ad oggetto “la determinazione del capitale di affrancazione del terreno allodiale di proprietà dei ricorrenti, ma l’esercizio (illegittimo) da parte Comune di Monte Sant’Angelo, della potestà di autotutela, dieci anni dopo l’affrancazione del terreno stesso” (pag. 12, secondo capoverso, del ricorso).

18. Il Comune di Monte Sant’Angelo ha depositato controricorso.

19. La causa è stata discussa nella pubblica udienza dell’1 dicembre 2020, per la quale entrambe le parti hanno depositato una memoria e nella quale il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

20. Ai fini della pronuncia sulla questione di giurisdizione proposta dei ricorrenti è preliminarmente opportuno sottolineare che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, di recente confermata nella sentenza SSUU n. 156/2020, in ordine alle questioni di giurisdizione le Sezioni Unite della Corte di cassazione sono anche giudice del fatto e le risultanze fattuali vanno apprezzate, ai sensi dell’art. 386 c.p.c., per come emergenti dalla domanda giudiziale e dalla sua eventuale precisazione, con riguardo alla causa petendi ed al petitum sostanziale della stessa; le Sezioni Unite hanno quindi il potere di procedere all’esame diretto degli atti del giudizio (cfr. SSUU 28322/2019, nonchè, in materia di regolamento preventivo di giurisdizione, SSUU 1717/2020).

21. Tanto premesso, dal diretto esame del ricorso introduttivo del presente giudizio il Collegio rileva che gli odierni ricorrenti hanno adito il TAR non (solamente) per contestare l’importo del livello – e, quindi, del capitale di affrancazione – determinato dal Comune con la Delib. del 2015, ma (anche) per contestare, in via evidentemente preliminare e propedeutica, la stessa legittimità della riapertura, in sede di autotutela, della procedura di determinazione del capitale di affrancazione chiusa dieci anni prima con la Delib. Giunta Comunale n. 341 del 2005.

22. Nel 2015, infatti, l’Amministrazione municipale ha inteso modificare – vale a dire, sostanzialmente, annullare in parte qua e sostituire – la determinazione del capitale di affrancazione operata nella propria Delib. n. 341 del 2005. Il Comune di Monte Sant’Angelo ha cioè esercitato il potere di annullamento di ufficio degli atti amministrativi di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 21 nonies, sul ritenuto presupposto della illegittimità del capo della Delib. del 2005 concernente la liquidazione del capitale di affrancazione. Nel testo della Delib. n. 116 del 2015, infatti, dopo la menzione di un parere pro veritate di un legale che aveva riscontrato “incongruenze, errori ed inesattezza” nella sistemazione demaniale del fondo V. (pag. 3 della Delib.), si fa espresso riferimento alla necessità di modificare la Delib. n. 341 del 2005, giacchè, “per la determinazione del valore del canone di legittimazione ed il corrispettivo di affrancazione sarebbe stato necessario fare riferimento all’effettivo valore di mercato del fondo” invece che al valore agricolo medio posto a base della determinazione effettuata nella Delib. del 2005 (pag. 5 della Delib.).

23. Il nucleo fondamentale della domanda giudiziale presentata dagli eredi V. al TAR Puglia consiste, dunque, nell’accertamento dell’illegittimità di un intervento in autotutela che, a distanza di dieci anni dalla Delib. del 2005, che aveva dichiarato estinto il livello per un determinato capitale di affrancazione, ha rideterminato unilateralmente tale capitale, in violazione della L. n. 241 del 1990, art. 21 nonies e dei principi generali in materia di autotutela (si veda, in particolare, il terzo motivo del ricorso al TAR, riprodotto anche nel terzo dei motivi aggiunti pure ivi presentati).

24. Non può quindi condividersi l’affermazione del TAR, fatta propria dalla Consiglio di Stato, secondo cui la presente controversia avrebbe “natura meramente patrimoniale”; l’oggetto sostanziale della domanda giudiziale proposta dagli eredi V., infatti, non è la determinazione del capitale di affrancazione dovuto al Comune, bensì, in primo luogo, l’accertamento della illegittimità delle modalità con le quali il Comune di Monte Sant’Angelo ha esercitato il proprio potere di autotutela amministrativa modificando, con una Delib. del 2015, la liquidazione del capitale di affrancazione già effettuata con una Delib. del 2005.

25. D’altra parte, come queste Sezioni Unite hanno più volte affermato, nella materia delle concessioni amministrative di beni pubblici alla quale, alla stregua delle considerazioni svolte nel p. 8 che precede, va ricondotta la fattispecie in esame – l’art. 133, comma 1, lett. b) del codice del processo amministrativo, nell’attribuire alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ogni controversia relativa ai rapporti di concessione di beni e servizi pubblici, fatte salve quelle aventi ad oggetto indennità, canoni o altri corrispettivi, non implica affatto, in queste ultime ipotesi, un regime di giurisdizione esclusiva del giudice ordinario. Spettano, infatti, in base ai criteri generali del riparto di giurisdizione, alla giurisdizione ordinaria solo quelle controversie sui profili in esame che abbiano contenuto meramente patrimoniale, senza che assuma rilievo un potere di intervento della pubblica amministrazione a tutela di ipotesi generali, mentre restano nella giurisdizione amministrativa quelle che coinvolgano l’esercizio di poteri discrezionali inerenti alla determinazione del canone, dell’indennità o di altri corrispettivi (in termini, sent. n. 20939/2011; più di recente, cfr. ord. n. 16459/2020).

26. Del resto, proprio nella specifica materia degli usi civici, queste Sezioni Unite hanno reiteratamente, ancorchè incidentalmente, affermato che la determinazione della misura del canone, al pari di quella delle altre condizioni richieste per l’approvazione della concessione di legittimazione, e la conseguente trasformazione in allodio del bene gravato dall’uso civico, rientra nella valutazione autonoma dell’autorità pubblica, sindacabile, se affetta da vizi, dal giudice amministrativo; si vedano SSUU n. 8673/1995, pag. 6 e SSUU n. 11802/2017, pag. 6, ultimo capoverso del p. 4.2, ove si legge: “Nello specifico, con la determinazione n. A4923 del 4.10.2011 della Regione Lazio, che ha reso esecutivo il progetto di liquidazione, imponendo un canone annuo di Euro 148,88, contestualmente affrancato, a favore della soc. Mercurio, tale funzione amministrativa è stata esercitata; con la conseguenza che ogni contestazione relativa avrebbe dovuto essere sollevata attraverso una tempestiva impugnazione di tale provvedimento innanzi al giudice amministrativo”.

27. Anche a prescindere dai precedenti richiamati nel paragrafo che precede, peraltro, nel presente giudizio risulta assorbente la considerazione che il motivo per cui il ricorrente ha impugnato la Delib. n. 116 del 2015, e i provvedimenti alla stessa presupposti e conseguenti, consiste nella dedotta illegittimità dell’esercizio del potere di autotutela decisoria in forza del quale il Comune ha modificato l’originaria determinazione del capitale di affrancazione. Risulta pertanto evidentemente applicabile alla fattispecie il principio – di portata generale, ancorchè enunciato con specifico riferimento alla materia dell’accesso a finanziamenti o sovvenzioni pubbliche – alla cui stregua la cognizione di una controversia avente ad oggetto la contestazione mossa dal privato in ordine alla sussistenza dei presupposti dell’esercizio del potere di autotutela decisoria da parte della pubblica amministrazione compete al giudice amministrativo, giacchè in relazione all’esercizio di tale potere il soggetto inciso non vanta una situazione di diritto soggettivo, bensì di interesse legittimo (così, tra le tante, SSUU n. 18241/2018; in applicazione di tale principio si è deciso che, allorchè la mancata erogazione del finanziamento, pur oggetto di specifico provvedimento di attribuzione, sia dipesa dall’esercizio di poteri di autotutela dell’amministrazione, la quale abbia inteso annullare il provvedimento stesso per vizi di legittimità, la controversia riguarda una posizione di interesse legittimo, con conseguente devoluzione al giudice amministrativo; vedi SSUU n. 3166/2019, SSUU n. 16457/2020).

28. In sostanza, riprendendo l’icastica formula che si legge nella stessa sentenza qui impugnata, nella presente controversia la contrapposizione tra le parti va ricondotta al binomio potere-interesse e non, come ritenuto dal Consiglio di Stato, al binomio obbligo-pretesa.

29. La presente causa va quindi attribuita al giudice amministrativo perchè la domanda concretamente presentata dagli eredi V. al TAR tende all’accertamento dell’illegittimità dell’esercizio del potere di autotutela speso dall’Amministrazione municipale con l’adozione della Delib. n. 116 del 2015 e degli altri provvedimenti amministrativi impugnati.

30. Per assicurare la massima chiarezza sui principi che presidiano il riparto di giurisdizione con riguardo alle controversie che attengano alla materia della autotutela decisoria della pubblica amministrazione, il Collegio ritiene peraltro opportuno sottolineare le differenze fra la presente fattispecie ed altre nelle quali queste Sezioni Unite hanno attribuito al giudice ordinario la giurisdizione su controversie nelle quali veniva in discussione l’esercizio, o il mancato esercizio, del potere di autotutela decisoria.

31. Ci si riferisce, in primo luogo, alle numerose pronunce rese da questa Corte in materia di annullamento in via di autotutela di provvedimenti propedeutici alla conclusione di contratti della pubblica amministrazione, nelle quali si è affermato che la controversia sulla legittimità dell’esercizio dell’autotutela rientra nell’ambito della giurisdizione del giudice amministrativo soltanto se i vizi in ragione dei quali l’amministrazione si sia avvalsa del suo potere di eliminazione attengano al modo in cui tali atti sono stati posti in essere o siano, comunque, esclusivamente propri di tali atti e non quando essi costituiscano la mera proiezione di un vizio che in realtà infici la validità dello stesso contratto. Ciò perchè l’amministrazione, una volta concluso il contratto, è del tutto carente del potere di sottrarsi unilateralmente al vincolo che dal contratto medesimo deriva; cosicchè non può ammettersi che, pretendendo di adoperare il proprio potere discrezionale di autotutela per eliminare vizi in realtà afferenti (non già alle determinazioni prodromiche, di per se stesse considerate, ed alle modalità procedimentali ad esse solo proprie, bensì) al contratto ormai stipulato, l’amministrazione possa spostare l’asse della giurisdizione riconducendo nell’alveo di quella amministrativa una controversia sulla validità di un contratto di diritto privato, come tale rientrante nell’alveo della giurisdizione ordinaria (così ord. n. 22554/2014; conf. ordd. nn. 23600/2017 e 33013/2018).

32. Il suddetto principio, infatti, non è utilmente richiamabile a proposito della vicenda oggetto del presente giudizio, perchè tra la dante causa dei ricorrenti e il Comune di Monte Sant’Angelo nessun contratto è mai stato stipulato. Come riferito nel p. 11 che precede, infatti, i rapporti livellari sono stati estinti e l’importo del canone di affrancazione è stato determinato non con un atto negoziale bensì con una Delib. Giunta Comunale, la Delib. n. 341 del 2005, adottata nell’ambito della procedura di espropriazione del fondo, al fine di scomputare il relativo importo da quello dell’indennità di espropriazione.

33. Sotto altro aspetto, è necessario prendere in considerazione, per illustrarne le differenze rispetto alla fattispecie oggetto del presente giudizio, la vicenda oggetto della recente sentenza n. 26496/2020, con la quale queste Sezioni Unite hanno confermato una sentenza del Consiglio di Stato che aveva affermato la giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia in cui un privato, sanzionato per l’illecito amministrativo di indebita percezione di premi comunitari, aveva impugnato il rigetto della istanza di revoca o annullamento in autotutela del provvedimento sanzionatorio; detta istanza si fondava sul sopravvenuto accertamento, in sede penale, dell’insussistenza del fatto in relazione al quale la sanzione amministrativa era stata irrogata.

34. Nella suddetta sentenza queste Sezioni Unite – dopo aver chiarito che il Consiglio di Stato aveva qualificato l’atto impugnato non come diniego di annullamento o di revoca in autotutela ma come “rifiuto, per mancanza della volontà, prima che della possibilità giuridica, di intervenire in autotutela” – hanno affermato che “il diniego del ritiro in autotutela dell’ordinanza-ingiunzione (secondo l’espressione usata dalla parte ricorrente), diversamente da quanto illustrato nel ricorso, è inidoneo a trasformare il bene protetto preteso – “il diritto alla restituzione delle somme versate a titolo di sanzione amministrativa” secondo l’espressione letterale dell’atto impugnato – in mero interesse legittimo a fronte della sopravvenienza di un fatto cui non si ricollega l’effetto automatico e legale di decadenza della potestà sanzionatoria o una valutazione dell’amministrazione sulla rispondenza o meno all’interesse pubblico della conservazione della sanzione amministrativa irrogata, e riscossa, a titolo di concorso in una condotta non costituente più fatto-reato”. Tale affermazione, che questo Collegio condivide, riguarda, appunto, l’ipotesi del rifiuto di autotutela da parte della pubblica amministrazione.

35. Ciò posto, va precisato che, come fatto palese dal testo della L. n. 241 del 1990, artt. 21 quinquies e 21 nonies, il presupposto dell’esercizio dell’autotutela decisoria, tanto nella forma della revoca quanto nella forma dell’annullamento d’ufficio dell’atto amministrativo illegittimo, è sempre rappresentato dalla sussistenza di ragioni di interesse pubblico, il cui apprezzamento costituisce merito amministrativo; la situazione del privato che si dolga del mancato esercizio del potere di autotutela decisoria è dunque diversa da quella del privato che si dolga dello scorretto esercizio di tale potere. Nel primo caso, come spiega la giurisprudenza del Consiglio di Stato, la situazione del privato non è qualificabile come interesse legittimo, ma come mero interesse di fatto (Cons. Stato, Sez. VI, 19 dicembre 2000, n. 6838), non essendo l’Amministrazione tenuta ad attivarsi in via di autotutela (Cons. Stato, Sez. IV, 10 novembre 2003, n. 7136; Cons. Stato, Sez. IV, 20 luglio 2005, n. 3909; Cons. Stato, Sez. IV, 26 marzo 2012, n. 1757; in consonanza con tali principi, si veda, nella materia tributaria, C. Cost. n. 181/17, che ha affermato che l’annullamento d’ufficio non ha funzione giustiziale di tutela del contribuente, bensì costituisce espressione di amministrazione attiva e comporta valutazioni discrezionali); nel secondo caso, per contro, la legittimità delle modalità di esercizio del potere di autotutela è sindacabile, da parte del giudice amministrativo, su iniziativa del privato che lamenti che tale esercizio abbia leso un suo interesse legittimo (cfr. SSUU 33013/2018, pag. 10, primo capoverso: “la sfera riservata al potere discrezionale non sindacabile del provvedimento assunto in autotutela, al pari di ogni altro provvedimento amministrativo, riguarda esclusivamente le ragioni di convenienza ed opportunità delle scelte in concreto adottate e non la selezione dei parametri normativi alla cui applicazione la p.a. sia tenuta”).

36. Alla luce delle considerazioni che precedono va quindi evidenziato che nella vicenda oggetto della sentenza n. 26496/20, nella quale l’amministrazione non aveva esercitato il proprio potere di autotutela, la situazione soggettiva dedotta in giudizio dal privato non era qualificabile come interesse legittimo al corretto esercizio di tale potere, bensì – secondo la condivisa ricostruzione offerta, prima, dal Consiglio di Stato e, poi, da questa Corte regolatrice – come diritto soggettivo alla ripetizione di somme versate in esecuzione di una ordinanza sanzionatoria di cui, in sostanza, si deduceva la sopravvenuta carenza di base legale. Per contro, nella vicenda oggetto del presente giudizio la situazione soggettiva esplicitamente dedotta in giudizio dagli eredi V. nel ricorso davanti al TAR risulta costituita dall’interesse legittimo al corretto esercizio del potere di autotutela che è stato concretamente speso dal Comune di Monte Sant’Angelo con i provvedimenti amministrativi adottati nel 2015 in ordine alla rideterminazione del capitale di affrancazione del fondo de quo; atti che, secondo la prospettazione dei ricorrenti, sarebbero illegittimi per violazione di legge e, precisamente, per violazione della norma secondo cui il potere di autotutela decisoria può essere esercitato entro un termine “ragionevole” (L. n. 241 del 1990, art. 21 nonies, tanto nel testo anteriore quanto in quello posteriore alle modifiche recate dalla L. 7 agosto 2015, n. 124).

37. In definitiva il ricorso va accolto, la sentenza impugnata va cassata e va dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo, davanti al quale si rimettono le parti, che provvederà a regolare anche le spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo, davanti al quale rimette le parti, anche per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 1 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2021

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