Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6154 del 05/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 05/03/2021, (ud. 15/12/2020, dep. 05/03/2021), n.6154

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 22957/2014 R.G. proposto da:

P.A.G.M., rappresentato e difeso dall’avv.

Giancarlo Lombardi e dall’avv. Alessandro Graziani, elettivamente

domiciliato presso lo studio di quest’ultimo in Roma, viale Monte

Zebio, n. 37.

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato.

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, sezione n. 11, n. 2883/11/14, pronunciata il 04/04/2014,

depositata il 28/05/2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 dicembre

2020 dal Consigliere Riccardo Guida.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. l’Agenzia delle entrate emise due avvisi di accertamento nei confronti di P.A.G.M., che recuperavano a tassazione IRPEF, per gli anni d’imposta 2006 e 2007, redditi non dichiarati, sulla base di un processo verbale di constatazione della Guardia di finanza che ascriveva al contribuente disponibilità finanziarie presso la filiale ginevrina della banca HSBC – risultanti da una scheda di sintesi denominata “fiche” recante il profilo del cliente ed i suoi dati personali – per le quali egli aveva omesso di compilare il quadro RW della dichiarazione dei redditi;

2. il contribuente impugnò gli atti impositivi innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Milano, deducendone, in sintesi, l’illegittimità in ragione dell’inutilizzabilità della documentazione bancaria di riscontro, acquisita in violazione dello Statuto dei diritti del contribuente, art. 7, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, e della Dir. 77/799/CEE, e il giudice di primo grado, nel contraddittorio dell’Agenzia, con sentenza n. 12/43/13, dopo averli riuniti, accolse i ricorsi e annullò gli avvisi;

3. la decisione della CTP è stata riformata dalla Commissione tributaria regionale della Lombardia, la quale, con la sentenza indicata in epigrafe, in adesione ai motivi d’appello dell’Agenzia, ha affermato che: (a) erano utilizzabili, ai fini dell’accertamento dei redditi non dichiarati, i documenti acquisiti dall’Amministrazione finanziaria, attraverso una fonte attendibile e istituzionale come l’autorità fiscale francese, posti a base delle riprese a tassazione e, in particolare, la “fiche” da cui si desumeva che il contribuente aveva intrattenuto rapporti con la banca HSBC; (b) il contenuto del PVC e della relativa documentazione erano noti al contribuente che aveva sottoscritto il PVC, che gli era stato notificato; (c) gli atti impositivi erano sufficientemente motivati; (d) le risultanze della “fiche”, benchè quest’ultima fosse stata acquisita in fotocopia, erano utilizzabili e i dati del profilo cliente in essa riportati erano credibili e attendibili, ferma la considerazione che il contribuente, in concomitanza con la verifica fiscale, aveva cominciato a presentare il quadro RW della dichiarazione recante l’indicazione dei capitali detenuti all’estero; (e) detti documenti erano stati regolarmente acquisiti presso l’A.F. francese, tramite i canali di collaborazione informativa internazionale e nel rispetto delle disposizioni sovranazionali; (f) non sussisteva la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, perchè la parte privata non aveva mosso alcuna contestazione ai verbalizzanti che l’avevano informata della documentazione bancaria acquisita; (g) era infondata la tesi del contribuente secondo cui le somme depositate nella banca svizzera non erano redditi sottratti a tassazione, operando nella specie la presunzione di redditi sottratti all’imposizione nell’ipotesi di omessa presentazione del quadro RW;

4. il contribuente ricorre per cassazione, con cinque motivi; l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso; in prossimità dell’adunanza camerale, il ricorrente ha depositato, via PEC, una memoria, che il Collegio può esaminare, come affermato da Cass. 03/12/2020, n. 27672 (conf.: Cass. 10/12/2020, nn. 28174 e 28175), secondo cui nel giudizio di cassazione è legittimamente esaminabile la memoria ex art. 380-bis.1. c.p.c., depositata telematicamente dal ricorrente mediante l’invio dall’indirizzo PEC indicato dal difensore in sede di costituzione in giudizio all’indirizzo PEC della cancelleria della sezione e da questa tempestivamente ricevuta, considerati sia l’equiparazione della PEC alla raccomandata stabilita dal vigente D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6, comma 1, secondo periodo,(già del medesimo decreto, art. 48, comma 2), recante il Codice dell’amministrazione digitale, sia i principi generali della strumentalità delle forme degli atti processuali e del raggiungimento dello scopo degli stessi.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo del ricorso (“A) Violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, punto 3, in combinato disposto con la L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, e con il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3”), il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto sufficientemente motivati gli avvisi, ai quali nemmeno era allegata la “fiche”, cioè la scheda riepilogativa delle giacenze bancarie su cui poggiava il PVC della Guardia di finanza;

1.1. il motivo non è fondato;

in disparte la prospettabile inammissibilità della doglianza in esso contenuta, per inosservanza del principio d’autosufficienza, a causa del mancato assolvimento dell’onere di trascrivere, nel ricorso per cassazione, sia pure sinteticamente, nelle sue parti essenziali, ovvero di localizzare o altrimenti allegare, gli atti impositivi dei quali si assume un deficit argomentativo, la censura, comunque, è priva di fondamento alla stregua del radicato indirizzo giurisprudenziale (Cass. 21/11/2018, n. 30039), per il quale: “L’avviso di accertamento soddisfa l’obbligo di motivazione quando pone il contribuente nella condizione di conoscere esattamente la pretesa impositiva, individuata nel “petitum” e nella “causa petendi”, mediante una fedele e chiara ricostruzione degli elementi costitutivi dell’obbligazione tributaria, anche quanto agli elementi di fatto ed istruttori posti a fondamento dell’atto impositivo, in ragione della necessaria trasparenza dell’attività della Pubblica Amministrazione, in vista di un immediato controllo della stessa.” (in senso conforme, vedi, tra le molte, Cass. 30/10/2019, n. 27800, in tema di accertamento ai fini dell’IVA, che ha stabilito che: “l’avviso di accertamento, costituente l’atto con il quale l’Amministrazione esercita la propria pretesa tributaria nei confronti del contribuente, soddisfa l’obbligo di motivazione (…) ogni qualvolta l’Amministrazione abbia posto il contribuente medesimo in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestarne efficacemente l'”an” ed il “quantum debeatur” (…).”;

recentemente si è anche affermato (Cass. 10/07/2020, n. 14723) che: “In tema di avviso di accertamento, l’onere di allegazione di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7, è limitato ai documenti non conosciuti nè ricevuti dal contribuente e costituenti il presupposto dell’atto impositivo al fine di evitare il pregiudizio del diritto di difesa di quest’ultimo.”;

nella specie, precisato che il contribuente neppure allega di non essere stato posto nella condizione di conoscere gli elementi essenziali della pretesa impositiva, la CTR, con una valutazione di fatto ad essa riservata, ha ritenuto inconsistente la doglianza della parte privata di lesione del suo diritto di difesa, rilevando che il PVC e la documentazione ad esso correlata erano conosciuti dal contribuente, il quale aveva sottoscritto il processo verbale della Guardia di finanza, che per di più gli era stato notificato;

2. con il secondo motivo (“B) Violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, punto 3, in combinato disposto con il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, e artt. 2697e 2719 c.c.”), il ricorrente censura la sentenza impugnata per avere fondato la propria decisione su elementi di valore meramente indiziario, quali i dati contenuti in un prospetto (la “fiche” asseritamente proveniente da HSBC) senza data e sottoscrizione e, quindi, privo di rilevanza probatoria;

3. con il terzo motivo (“C) Violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, punto 3, in combinato disposto con la Dir. 77/799/CEE e con il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32”), il ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere rilevato che la procedura di acquisizione della “fiche” non era conforme alle disposizioni, interne e comunitarie, sullo scambio di informazioni tra Stati appartenenti all’Unione Europea, in quanto soltanto il Capo del dipartimento delle Finanze o i suoi rappresentati autorizzati erano competenti a riceverla, mentre, nella fattispecie concreta (e ciò emergeva dal PVC), la scheda riepilogativa era stata trasmessa dall’autorità francese alla Guardia di finanza. Soggiunge che, benchè l’ufficio non avesse indicato la fonte originaria della scheda bancaria di sintesi, è “verosimile” che essa provenisse dalla c.d. “lista Falciani” e che, quindi, quel prospetto avesse un’origine illecita, in quanto formatosi attraverso la raccolta di informazioni acquisite accedendo ad un sistema informatico riservato, quale condotta che integra il reato di cui all’art. 615-ter c.p., onde la sua inutilizzabilità nel processo tributario, secondo quanto stabilito da unanime giurisprudenza di legittimità. Indi, il ricorrente ricorda che, secondo autorevole dottrina, quand’anche l’acquisizione delle informazioni contenute nella c.d. “lista Falciani”, tramite scambio di informazioni tra Stati, fosse avvenuta mercè una procedura di scambio regolare, tale procedura non avrebbe comunque sanato l’illegittimità sostanziale, costituita dal fatto che le informazioni erano state dapprima trafugate e poi vendute alle autorità francesi, con palese lesione dei diritti della banca e dei suoi clienti;

4. con il quarto motivo (“D) Violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, punto 3, in combinato disposto con gli artt. 2727 e 2728 c.c., e il D.L. n. 78 del 2009, art. 12”), il ricorrente premette che, ai sensi del detto art. 12 cit., in deroga alle disposizioni di legge, gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenuti negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato ai soli fini fiscali si presumono costituiti, salva la prova contraria, mediante redditi sottratti a tassazione; soggiunge che la corretta interpretazione di questa norma, nel pieno rispetto del principio generale in tema di presunzioni legali, comporta che l’Amministrazione finanziaria debba dimostrare che determinati investimenti all’estero si riferiscono ad un soggetto residente in Italia e che, una volta provata tale circostanza, è possibile contestare l’evasione fiscale;

ascrive alla CTR di avere ravvisato la fondatezza della pretesa erariale, sulla base della “fiche” (verosimilmente tratta dalla c.d. “lista Falciani”) priva di valenza probatoria, ossia di non avere compreso che, nella fattispecie, mancava il “fatto noto” (la giacenza finanziaria all’estero) da cui trarre la presunzione d’evasione di cui al citato art. 12, comma 2;

4.1. il secondo, il terzo e il quarto motivo, suscettibili di essere trattati insieme per connessione, non sono fondati;

4.1.1. sul tema della c.d. “lista Falciani”, dalla quale, secondo la prospettazione del contribuente, sarebbe stata tratta la contestata “fiche”, seguendo le tappe salienti del percorso ermeneutico della Cassazione (ex aliis: Cass. 21/12/2018, n. 33223; Cass. 14/11/2019, n. 29632; Cass. 28/11/2019, n. 31085; Cass. 29/11/2019, n. 31243; Cass. 05/12/2019, n. 31779; Cass. 19/12/2019, n. 33893; Cass. 25/02/2020, n. 4984), è utile comporre nuovamente il nitido quadro dei principi di diritto, meticolosamente elaborati in questi anni, fin dalle ordinanze “gemelle” nn. 8605 e 8606 del 28/04/2015, secondo cui:

(a) in linea generale, il diritto interno, sia in materia di imposte dirette sia in materia di imposta sul valore aggiunto, consente l’acquisizione nel corso dell’accertamento fiscale e, successivamente, nel processo tributario, di elementi comunque acquisiti e, dunque, di prove atipiche, o di dati ottenuti in forme diverse da quelle regolamentate, secondo i canoni tipici della prova per presunzioni; la prova per presunzioni può, pertanto, essere costituita anche da acquisizioni provenienti da una autorità straniera nell’ambito di direttive comunitarie o di accordi bilaterali;

(b) nella fattispecie concreta, la fonte è costituita dalla Dir. 77/799/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1977, relativa alla reciproca assistenza fra le autorità competenti degli Stati membri nel settore delle imposte; come ha chiarito la Corte di giustizia – Corte Giust., Grande Sezione, 22 ottobre 2013, causa C-276/12 – la Dir. 77/799 non tratta del diritto del contribuente di contestare l’esattezza dell’informazione trasmessa e non impone alcun obbligo particolare quanto al contenuto di quest’ultima, dato che spetta solo agli ordinamenti nazionali fissare le relative norme. Ne discende che il contribuente può contestare le informazioni che lo riguardano trasmesse all’Amministrazione fiscale dello Stato membro richiedente secondo le norme e le procedure applicabili nello Stato membro interessato e spetta al giudice nazionale stabilire il valore probatorio che deve essere riconosciuto, nel caso specifico, all’informazione comunicata da uno Stato membro in base alla Dir. 77/799;

(c) sebbene i dati costituenti il frutto di cooperazione informativa intracomunitaria restino contestabili dal contribuente, il quale può, dunque, mettere in discussione, nell’ambito di un procedimento tributario nazionale, la correttezza delle informazioni fornite da altri Stati membri ai sensi della Dir. 77/799, art. 2, e seppure si debba negare che la mera acquisizione di informazioni mediante lo strumento di cooperazione comunitaria abbia la capacità di “purgare” gli elementi acquisiti da eventuali illegittimità o vizi per la sola derivazione da autorità estere, deve parimenti escludersi l’inutilizzabilità degli elementi trasmessi dall’autorità fiscale francese in ragione della loro provenienza illecita, ossia dal trafugamento dei dati bancari da parte di un ex dipendente della banca svizzera HSBC, F.H.;

(d) si è anche chiarito (Cass. n. 8605/15) che: “la giurisprudenza di questa Corte è orientata a mantenere una netta differenziazione fra processo penale e processo tributario, secondo un principio – sancito non soltanto dalle norme sui reati tributari (D.L. 10 luglio 1982, n. 429, art. 12, successivamente confermato dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 20), ma altresì desumibile dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p., ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto ai fini della “applicazione della legge penale” (Cass. nn. 22984, 22985 e 22986 del 12/11/2010; n. 13121 del 25/7/2012). Si riconosce quindi, generalmente, che “…non qualsiasi irritualità nell’acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale comporta, di per sè, la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso ed esclusi, ovviamente, i casi in cui viene in discussione la tutela dei diritti fondamentali di rango costituzionale (quali l’inviolabilità della libertà personale, del domicilio, ecc.) – cfr. Cass. n. 24923 del 2011 -. Tale prospettiva si collega al principio per cui nell’ordinamento tributario non si rinviene una disposizione analoga a quella contenuta nell’art. 191 c.p.p., a norma del quale “le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate””;

(e) per le ragioni che precedono non può ritenersi illegittima l’attività posta in essere dall’Amministrazione fiscale interna su impulso di quella francese, in forza della Dir. 77/799, tenuto conto che alla base della riservatezza dei rapporti tra banche e clienti non ci sono valori della persona umana da tutelare, ma ci sono solo interessi patrimoniali ed istituzioni economiche. Al riguardo questa Sezione tributaria (Cass. n. 33893/2019, cit.) ha riconosciuto il valore indiziario della c.d. “lista Falciani” e la sua utilizzabilità, anche se acquisita in modo irrituale, non venendo in considerazione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale, dei quali, in fattispecie analoghe, s’è ritenuta l’insussistenza (sul punto, nella detta ordinanza, sempre in relazione alla documentazione bancaria ottenuta dall’autorità italiana nel quadro degli strumenti di cooperazione comunitaria, si menzionano: “Cass. sez. 5, 19 agosto 2015, n. 16950, in tema di c.d. “lista Vaduz” e n. 16951, in pari data, ancora riguardo alla c.d. “lista Falciani”; Cass. sez. 5, 26 agosto 2015, n. 17183, con riferimento alla c.d. “lista Pessina”; la già citata Cass. n. 33223/18, in tema di “lista Falciani””);

(f) neppure potrebbe farsi discendere l’inutilizzabilità degli elementi desunti dalla c.d. “lista Falciani” dalla condotta illecita a monte dell’azione dell’ufficio fiscale francese, essendo essa riferibile personalmente al solo F.H.. Sul punto questa Corte, con le (menzionate) ordinanze “gemelle” nn. 8605 e 8606/2015, ha precisato che: “l’eventuale responsabilità penale dell’autore materiale della lista – questione che esula dalla vicenda processuale odierna, non risultando la condotta nemmeno posta in essere in Italia (v. art. 7 c.p. rispetto alle ipotesi delittuose per le quali è astrattamente profilabile una competenza del giudice italiano in relazione a condotte commesse all’estero) – e comunque, l’illiceità della di lui condotta nei confronti dell’istituto bancario presso il quale operava non è in grado di determinare l’inutilizzabilità della documentazione anzidetta nel procedimento fiscale a carico del contribuente utilizzata dal Fisco italiano al quale è stata trasmessa dalle autorità francesi – v. sul punto, la pronunzia della Cassazione penale francese del novembre 2013 (Cour de Cassation criminelle, 27.11.2013, ric. 13-85042) che ha espressamente riconosciuto l’utilizzazione -addirittura in ambito penale – della “lista Falciani” sul presupposto che al confezionamento eventualmente illecito delle prove non aveva cooperato l’autorità pubblica.”;

(g) si è altresì stabilito (Cass. 19/08/2015, n. 1695) che: “In tema di accertamento tributario, l’Amministrazione finanziaria, nell’attività di contrasto dell’evasione fiscale, può avvalersi di ogni elemento di valore indiziario, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda dalla legge tributaria o dalla violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale. Ne consegue che sono utilizzabili, anche nel contenzioso con il contribuente, i dati bancari, ottenuti mediante gli strumenti di cooperazione comunitaria, dal dipendente di una banca residente all’estero, il quale li abbia acquisiti trasgredendo i doveri di fedeltà verso il datore di lavoro e di riservatezza, privi di copertura costituzionale e tutela legale nei confronti del fisco italiano.”;

(h) con specifico riferimento all’asserita violazione, da parte della CTR, delle norme sulle presunzioni (artt. 2727 e 2728, c.c., D.L. n. 78 del 2009, art. 12), di cui al quarto motivo del ricorso, questa Corte (Cass. n. 33893/2019, cit.), ha stabilito che: “In tema di accertamento tributario, sebbene la presunzione di evasione sancita dal D.L. n. 78 del 2009, art. 12, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 102 del 2009, con riferimento all’omessa dichiarazione di investimenti e attività di natura finanziaria negli Stati o territori a regime fiscale privilegiato, non sia suscettibile di essere applicata retroattivamente agli anni di imposta antecedenti alla sua entrata in vigore (prevista dal 1 luglio 2009), stante la natura sostanziale e non procedimentale delle presunzioni, l’ufficio può ricorrere ai medesimi fatti oggetto della suddetta presunzione legale (redditi non dichiarati occultamente detenuti in Paesi a fiscalità privilegiata) “sub specie” di presunzione semplice.”;

(i) questa Corte (Cass. 26/08/2015, n. 17183) ha affermato che, al fine di valutare la corretta applicazione dell’art. 2729 c.c., anche successivamente alla modifica del vizio di motivazione nel giudizio di cassazione, occorre verificare che il giudice di merito abbia valutato i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza di tutti gli elementi offerti in giudizio attraverso un esame non parcellizzato, posto che la scorretta valutazione degli elementi, in quanto operata senza il rispetto dei criteri di legge, non integra un giudizio di fatto, ma una vera e propria valutazione in diritto soggetta al controllo di legittimità, anche in esito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 9760/2015, in tema di “lista Falciani”; conf.: Sez. U. 8054/2014 e Cass. 19894/2005). Compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione di nomofilachia, controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata a livello di proclamazione astratta, lo sia stata anche sotto il profilo dell’applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino o no ascrivibili alla fattispecie astratta (Cass. n. 17535/2008). Inoltre, se è sicuramente devoluta al monopolio del giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare elementi di fatto come fonti di presunzione, tale giudizio, tuttavia, non può sottrarsi al controllo in sede di legittimità, ai sensi dell’invocato art. 360 c.p.c., n. 3 (Cass. n. 9760/2015 e Cass. n. 19894/2005). Le circostanze sulle quali la presunzione si fonda devono essere tali da lasciare apparire l’esistenza del fatto ignoto come una conseguenza solo ragionevolmente probabile del fatto noto, dovendosi ravvisare una connessione fra i fatti accertati e quelli ignoti secondo regole di esperienza che convincano di ciò, sia pure con qualche margine di opinabilità (Cass. 6220/2005). A tal fine, il giudice di merito non può limitarsi ad enunciare il giudizio nel quale consiste la sua valutazione, ma deve impegnarsi anche nella descrizione del processo cognitivo attraverso il quale è giunto al finale giudizio. Il procedimento che deve necessariamente seguirsi in tema di prova per presunzioni, per non incorrere in vizi di legittimità della decisione (Cass. 13819/2003), si articola in due momenti valutativi: (i) prima occorre che il giudice esamini ognuno degli elementi indiziari per eliminare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e, invece, conservare quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; (ii) successivamente occorre che egli proceda a una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi così isolati e accerti se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una prova logicamente valida, in rapporto di vicendevole completamento (Cass. 9108/2012) e secondo crismi di ragionevole probabilità e non necessariamente di certezza (Cass. 4306/2010);

4.1.2. nel caso in esame, sempre in accordo con i suaccennati canoni in tema di prova presuntiva, il giudice d’appello ha correttamente riconosciuto l’utilizzabilità e il valore indiziario, idoneo ad integrare una presunzione semplice, della “fiche” tratta dalla c.d. “lista Falciani”, in punto di esistenza presso la banca elvetica di capitali non dichiarati dal contribuente, ed ha preso in considerazione altri elementi di fatto – in particolare, quello, allegato dall’Agenzia, che l’interessato, proprio in concomitanza con la verifica fiscale, abbia iniziato a presentare il quadro RW della dichiarazione con l’indicazione dei capitali detenuti all’estero -che, esaminati singolarmente e quindi nella loro valutazione complessiva, sono stati ritenuti dal giudice di merito idonei a dimostrare che le somme depositate presso l’istituto di credito di (OMISSIS) erano redditi del ricorrente sottratti a tassazione. In altri termini, la CTR ha valutato l’intero compendio logico e circostanziale, offerto dall’A.F. a supporto della pretesa impositiva, ed è pervenuta alla conclusione, giuridicamente ineccepibile, della conducenza di tali indici presuntivi, non contraddetti nè indeboliti dal raffronto con le controprove allegate dall’interessato, anch’esse vagliate dalla Commissione regionale che, alla stregua di un apprezzamento di fatto, insindacabile in cassazione, le ha reputate inconferenti;

5. con il quinto motivo (“E) Violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”), si censura l’omessa pronuncia della sentenza impugnata sulle contestazioni che il ricorrente aveva rivolto all’ammontare delle somme presuntivamente sottratte a tassazione, secondo la quantificazione compiuta dall’A.F., la quale aveva indicato in Euro 56.030,65 l’attività finanziaria detenuta all’estero, accertata con riferimento al 2006, e in Euro 36.774,17 quella relativa al 2007;

5.1. il motivo non è fondato;

a prescindere dai prospettabili profili d’inammissibilità della censura, per genericità e difetto d’autosufficienza, essa va comunque disattesa alla luce del tralatizio arresto nomofilattico, per il quale: “Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia.”;

nella specie, è chiaro che la CTR, là dove ha concluso per la legittimità degli avvisi, ha implicitamente rigettato le eccezioni sollevate dal contribuente anche in punto di quantum debeatur;

6. ne consegue il rigetto del ricorso;

7. le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a corrispondere all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2021

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