Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6145 del 24/02/2022

Cassazione civile sez. II, 24/02/2022, (ud. 19/01/2022, dep. 24/02/2022), n.6145

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8112/2017 proposto da:

S.A., rappresentato e difeso dall’avvocato GUIDO FIORANI,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

S.S.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

PIAVE 52, presso lo studio dell’avvocato RENATO CARCIONE,

rappresentato e difeso dagli avvocati FERDINANDO MAZZARELLA,

GIUSEPPE MAZZARELLA, MASSIMO FRICANO, in virtù di procura in calce

al controricorso;

– controricorrenti –

avverso le sentenze n. 294/2016 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 16/02/2016 e n. 673/2014 della CORTE D’APPELLO di

PALERMO, depositata il 18/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19/01/2022 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie delle parti.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. S.S.B. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Termini Imerese il fratello A., deducendo che il (OMISSIS) era deceduto il genitore, S.G., al quale erano succeduti i due figli. Aggiungeva che nella successione dovevano includersi, oltre ai beni di cui alla denuncia di successione, anche i beni ricevuti in donazione da parte del convenuto, relativamente ad alcune donazioni immobiliari in nuda proprietà, espressamente richiamate in citazione, evidenziando altresì che erano state oggetto di donazione anche un’imbarcazione da diporto nonché consistenti somme di denaro, che il de cuius aveva posto a vario titolo nella disponibilità del fratello, tramite cointestazione e deleghe su rapporti bancari, depositi titoli e cassette di sicurezza intestate al de cuius presso vari istituti bancari.

Concludeva, quindi, affinché si procedesse alla divisione dei beni relitti, previa collazione delle donazioni effettuate in favore del convenuto.

Questi si costituiva e nell’opporsi alla domanda attorea, in via riconvenzionale deduceva a sua volta che l’attore era stato beneficiato di varie donazioni di somme di denaro ed immobiliari, anche effettuate in favore dei figli, nipoti del de cuius, e della moglie dell’attore.

All’esito dell’istruttoria, il Tribunale adito, con la sentenza non definitiva n. 266/2004, dichiarava aperta la successione legittima del de cuius, e devoluta la stessa in pari quote alle parti in causa.

Quindi stabiliva che il convenuto era tenuto alla collazione delle donazioni immobiliari ricevute in vita, nonché delle somme di denaro meglio specificate in sentenza e dei titoli parimenti riportati nella sentenza.

Rimessa la causa in istruttoria per la redazione del progetto di divisione, con sentenza definitiva del 21 febbraio 2007 approvava il progetto di divisione dei beni relitti e di quelli da porre in collazione, determinando altresì il conguaglio dovuto al convenuto in favore dell’attore.

Avverso entrambe le sentenze proponeva appello S.A., cui resisteva l’attore, proponendo a sua volta appello incidentale.

La Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza non definitiva n. 673 del 18 aprile 2014, rigettava l’appello principale, ed in parziale accoglimento di quello incidentale, dichiarava che il convenuto era tenuto alla collazione anche dell’imbarcazione da diporto ricevuta in donazione dal padre, dovendo altresì corrispondere gli interessi sulle somme oggetto di collazione per imputazione.

Quindi, disposta la correzione di alcuni errori materiali contenuti nella sentenza definitiva del Tribunale, rimetteva la causa in istruttoria per il rinnovo delle operazioni divisionali.

La Corte d’Appello, disattesa l’eccezione di non integrità del contraddittorio, per non essere stati evocati in giudizio i figli dell’attore, trattandosi di soggetti non chiamati come coeredi e comunque non tenuti alla collazione, disattendeva il primo motivo di appello, con il quale si deduceva l’improcedibilità della domanda di divisione per la mancata produzione della documentazione ipocatastale relativa ai beni caduti in successione.

Secondo la Corte distrettuale l’attore aveva prodotto anche una relazione notarile attestante lo stato ipotecario dei beni immobili caduti in successione, aggiungendo che nella specie non rilevava la mancata produzione dei certificati di destinazione urbanistica, trattandosi di una divisione ereditaria. Quanto invece alla deduzione di indeterminatezza della domanda, secondo la sentenza di appello, la citazione introduttiva permetteva di comprendere che l’intento dell’attore fosse quello di conseguire la divisione dei beni indicati nella denuncia di successione, dei due immobili di cui si documentava la donazione in favore del convenuto e delle ulteriori donazioni mobiliari (imbarcazione da diporto, denaro e valori mobiliari, custoditi presso istituti di credito, titoli azionari e quant’altro), individuati in maniera sufficientemente determinata per relationem.

Del pari era disatteso il secondo motivo dell’appello principale concernente l’improcedibilità della domanda per il mancato esercizio dell’azione di riduzione, attesa la diversità tra tale ultima domanda e quella di divisione e collazione, posto altresì che l’attore non aveva lamentato la lesione della propria quota di riserva, ma intendeva solo pervenire alla divisione, sebbene con la collazione delle donazioni effettuate in vita dal de cuius. In relazione al terzo motivo dell’appello principale, che censurava i risultati cui era pervenuto il CTU quanto alla ricostruzione dei rapporti bancari, al fine di individuare l’esistenza di donazioni mobiliari, la Corte d’Appello riteneva che il motivo fosse inammissibile ex art. 342 c.p.c., in quanto le critiche dell’appellante si erano tradotte in una confusa e caotica contestazione dell’operato del consulente, con l’espressione di un disorganico dissenso rispetto alle diverse conclusioni dell’ausiliario d’ufficio, critiche prive di corrispondenza rispetto alle dettagliate argomentazioni giuridiche esposte nella sentenza di primo grado.

Il Tribunale aveva analiticamente ricostruito il patrimonio mobiliare del de cuius, sulla base della documentazione bancaria acquisita, specificando che dovesse reputarsi che tutte le somme che avevano alimentato i rapporti erano riferibili esclusivamente al genitore, per poi individuare quali somme e titoli fossero stati elargiti al convenuto.

Questi con l’appello aveva sollevato critiche disorganizzate, ora alla consulenza, ora alla mancata valutazione di qualche documento, il tutto in contrasto con il principio di specificità del motivo di appello, che deve esser volto a contrastare il fondamento logico-giuridico della decisione di primo grado.

Non era sufficiente che il motivo di appello consentisse di individuare quali statuizioni erano impugnate, ma era necessario esporre con sufficiente determinatezza le ragioni sulle quali si fondava il gravame, in rapporto con il contenuto della sentenza impugnata.

In ogni caso il motivo era infondato nel merito in quanto il Tribunale aveva spiegato in maniera minuziosa le ragioni in base alle quali si dovessero qualificare come donazioni le dazioni di determinate somme e titoli in favore dell’appellante principale.

Quanto al quarto motivo di appello che investiva la mancata qualificazione come donazioni da parte del de cuius in favore dell’attore e dei suoi figli, di alcuni acquisti immobiliari, la sentenza, dopo avere ribadito l’estraneità alla collazione dei nipoti, rilevava che la doglianza, oltre che essere priva di specificità, era anche infondata avendo il Tribunale evidenziato le ragioni in base alle quali doveva reputarsi che gli acquisti immobiliari dell’attore fossero avvenuti con denaro proprio, attesa l’autonomia economica di cui già godeva alla data degli acquisti, ed in mancanza di prova circa il fatto che il denaro impiegato per il pagamento del prezzo fosse stato fornito dal genitore.

Andava disattesa anche la censura che investiva la diversa stima degli immobili effettuata dal CTU rispetto ai valori indicati da Nomisma, essendo quest’ultima una società di consulenza che non fornisce stime vincolanti, sicché era corretta la valutazione del CTU che si era attenuta al valore di mercato, alla luce delle analisi condotte in concreto.

In relazione all’appello incidentale, la sentenza reputava fondato il motivo con il quale si assumeva l’esistenza di una donazione anche per l’imbarcazione da diporto, essendo invece infondato il motivo che intendeva far effettuare la stima dei beni donati secondo il valore alla data della decisione, occorrendo invece far riferimento al diverso momento dell’apertura della successione.

Era invece da attualizzare la stima dei beni non oggetto di collazione, ma caduti in successione, dovendosi invece riconoscere gli interessi sulle somme dovute dal convenuto per effetto della scelta della collazione per imputazione.

La sentenza, infine, provvedeva a correggere una serie di errori materiali contenuti nella sentenza definitiva del Tribunale.

Successivamente la Corte d’Appello di Palermo con la sentenza definitiva n. 294/2016 ha rideterminato la somma dovuta dall’appellante principale al fratello, per effetto del calcolo degli interessi sulle somme dovute.

Avverso la sentenza non definitiva della Corte d’Appello di Palermo n. 673/2014, e di riflesso avverso la successiva sentenza definitiva, sul presupposto che l’accoglimento del ricorso avverso la prima è idoneo a travolgere le statuizioni consequenziali contenute nella seconda, ha proposto ricorso S.A. sulla base di cinque motivi, illustrati da memorie.

S.S.B. ha resistito con controricorso, illustrato da memorie.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la nullità della sentenza o del processo per violazione e falsa applicazione degli artt. 111 Cost., artt. 112,115 c.p.c., art. 163 c.p.c., nn. 3 e 4, artt. 164,132 c.p.c., nonché degli artt. 737 e 2697 c.c.Assume il ricorrente che la sentenza impugnata ha errato nel ritenere che la domanda di divisione fosse adeguatamente determinata.

Si evidenzia che attualmente la divisione dei beni relitti sarebbe oggetto anche di un altro procedimento intentato dall’attore (peraltro definito nelle more del presente giudizio, con sentenza della Corte d’Appello di Palermo n. 2191/2017 che ha dichiarato improponibile la domanda di divisione di beni oggetto di donazioni asseritamente sottoposte a collazione, in quanto proposta autonomamente rispetto alla domanda di divisione del relictum, che è invece il tema del presente giudizio), ma che quello oggetto di causa sarebbe affetto da gravi errori procedurali, nella parte in cui sono state incluse, ai fini della collazione, anche le donazioni di somme di denaro asseritamente poste in essere dal de cuius.

La citazione aveva, infatti, ad oggetto solo la divisione dei beni relitti e della donazioni immobiliari ivi menzionate, il che non avrebbe permesso di estendere il giudizio anche alle donazioni mobiliari scaturenti dalla gestione dei rapporti bancari intestati o cointestati al de cuius, essendo invece evidente la genericità dell’atto introduttivo, con la sua conseguente nullità.

Il motivo è infondato.

I giudici di appello nell’esaminare il primo motivo, nella parte in cui proponeva la questione circa la corretta identificazione dei beni suscettibili di essere presi in considerazione ai fini della divisione, hanno rilevato che l’atto di citazione permetteva di comprendere che l’attore avesse inteso chiedere la divisione dei beni di cui alla denuncia di successione, con la collazione dei due immobili donati in vita al convenuto e delle ulteriori donazioni di beni mobili (imbarcazione da diporto, denaro e valori mobiliari custoditi presso istituti di credito, titoli azionari e quant’altro), permettendo quindi di individuare per relationem l’oggetto della domanda.

Va qui ribadito che la rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito ed è sindacabile: a) ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; b) qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del “petitum”, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; c) quando si traduca in un errore che coinvolge la “qualificazione giuridica” dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un “fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo”, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di “error in judicando”, in base all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, o al vizio di “error facti”, nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. n. 11103/2020).

Peraltro, come affermato dalle stesse sezioni Unite (Cass. S.U. n. 3041/2007) l’interpretazione della domanda deve essere diretta a cogliere, al di là delle espressioni letterali utilizzate, il contenuto sostanziale della stessa, desumibile dalla situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria, essendo censurabile in sede di legittimità solo quando ne risulti alterato il senso letterale o il contenuto sostanziale dell’atto, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire, e ciò sebbene, nel caso in cui, poi, venga dedotto il vizio di violazione dell’art. 112 c.p.c., e cioè del principio di corrispondenza tra chiesto e il pronunciato, la Corte di cassazione, essendo prospettato un “error in procedendo”, abbia il potere – dovere di procedere all’esame diretto degli atti giudiziari pregressi, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini della pronuncia richiesta (Cass. n. 2148/2004).

La sentenza impugnata riferisce del fatto che l’attore avesse inteso specificare la propria domanda di divisione in relazione ai beni relitti, oltre che alle donazioni immobiliari, specificamente individuate, anche a quelle mobiliari, quali evincibili da una disamina dei rapporti bancari intestati al de cuius, il che consente di escludere che la domanda si connoti di assoluta indeterminatezza.

Tal conclusione trova conforto nella lettura della sentenza non definitiva del Tribunale, che alla pag. 2 riporta le conclusioni dell’atto di citazione ed in particolare le richieste di cui alla lett. e), riportate a pag. 3, che denotano come l’evidente intento dell’attore fosse quello di assicurare la collazione anche delle donazioni mobiliari relative ai valori dei quali il fratello aveva potuto disporre, grazie a meccanismi di cointestazione e deleghe da parte del genitore.

Il riferimento a siffatte elargizioni, non ancora specificamente individuate quanto alle modalità realizzative in citazione, essendo a tal fine necessario, come si ricava dalle richieste istruttorie poi formulate in corso di causa e dall’espletamento della CTU contabile, assicura con certezza che la domanda fosse intesa ad estendere la richiesta di collazione a tutte le donazioni effettuate in vita dal de cuius, non solo per quanto concerneva quelle immobiliari, ma anche per quelle di denaro, titoli e valori, in relazione appunto, quale fonte idonea a favorire tale modalità di arricchimento del donatario, alla gestione dei rapporti bancari.

Va, pertanto, esclusa la nullità della citazione per violazione dell’art. 163 c.p.c., nn. 3 e 4, come del pari risulta esclusa la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato, avendo i giudici di merito statuito circa l’esistenza delle donazioni suscettibili di collazione, in conformità della richiesta attorea, come formulata sin dall’atto di citazione, ed in applicazione del principio reiteratamente affermato da questa Corte che la domanda di collazione non è sottoposta ai termini di cui all’art. 167 c.p.c., in quanto l’obbligo della collazione sorge automaticamente a seguito dell’apertura della successione ed i beni donati devono essere conferiti indipendentemente dalla proposizione di una domanda dei condividenti, salva l’espressa dispensa da parte del “de cuius” nei limiti in cui sia valida (Cass. n. 19833/2019; Cass. n. 8510/2018, che ribadisce che l’obbligo della collazione sorge automaticamente e i beni donati in vita dal “de cuius” devono essere conferiti indipendentemente da una espressa richiesta, essendo sufficiente al momento della proposizione della domanda la menzione dell’esistenza di determinati beni facenti parte dell’asse ereditario da ricostruire; Cass. n. 15131/200). Ne deriva che, una volta che la prova delle donazioni poste in essere dal de cuius sia emersa dall’attività istruttoria, e sulla base degli elementi di prova forniti nel rispetto del regime delle preclusioni istruttorie, il giudice dovrebbe tenere conto delle stesse ai fini della collazione, anche a prescindere da una domanda della parte, attesa l’automaticità che connota tale istituto e la sua intrinseca inerenza allo svolgimento delle operazioni divisionali.

E’ in pratica la stessa domanda di divisione che regge e giustifica la collazione, anche in assenza di un’espressa richiesta della parte, una volta che, appunto, dalle prove ritualmente ammesse, risulti l’esistenza di atti di liberalità non esenti da collazione.

Ne’ a contrarie conclusioni possono indurre i passaggi, peraltro riprodotti in maniera non del tutto organica, di alcuni provvedimenti istruttori adottati dal Tribunale circa la delimitazione dell’oggetto del contendere (e che avrebbero, a detta del ricorrente, indotto l’attore ad introdurre un ulteriore giudizio di divisione), atteso che, per quanto è dato comprendere dai passaggi della sentenza non definitiva del Tribunale, per come riportati in motivo, l’esclusione dal giudizio ha riguardato richieste finalizzate a far accertare l’esistenza di donazioni diverse da quelle indicate in citazione (come sopra determinate per relationem), e delle quali non si era proceduto all’individuazione nei limiti segnati per la fissazione del thema decidendum.

E’ invece indubbio, proprio alla luce del contenuto della domanda introduttiva, anche a seguito della verifica contabile compiuta sulla documentazione bancaria acquisita, che le donazioni mobiliari accertate fossero state già dedotte in citazione, ancorché non specificamente individuate, attesa la necessità di dover approfondire le movimentazioni bancarie operate, onde trarre dalle stesse la prova delle liberalità compiute in favore dell’attore.

Infine alcuna incidenza nel procedimento in esame assume il contenuto della diversa sentenza della Corte d’Appello di Palermo n. 2191/2017, emessa all’esito del diverso giudizio intentato da S.A. in relazione alla divisione di altri beni asseritamente oggetto di donazione da parte del de cuius, la quale ha concluso per l’improcedibilità in ragione della impossibilità di richiedere la collazione senza contestualmente proporre domanda di divisione, ma sul presupposto, quanto meno implicito che la domanda di divisione fosse stata validamente proposta nel presente giudizio.

3. Il secondo motivo del ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., nonché dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e art. 118 disp. att. c.p.c..

Si denuncia l’errore commesso dai giudici di appello nel dichiarare l’inammissibilità del terzo motivo di appello, per difetto di specificità ex art. 342 c.p.c..

Si rileva che in realtà la sentenza aveva ben compreso quali fossero le censure del ricorrente, e che la declaratoria di inammissibilità risulta non supportata da adeguata motivazione.

Si rinvia al contenuto dei motivi di appello che invece assicura la specificità delle censure mosse.

Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

E’ inammissibile nella parte in cui, pur denunciando un error in procedendo, in violazione del principio di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, operante anche in caso di error in procedendo (Cass. S.U. n. 8077/2012), omette di riportare in ricorso, ovvero anche per sintesi, il contenuto dei motivi di appello onde permettere alla Corte di poter apprezzare l’effettiva conformità degli stessi al dettato dell’art. 342 c.p.c..

E’ altresì infondato.

In primo luogo nella parte in cui denuncia la nullità della sentenza per asserita inesistenza della motivazione, dovendosi per converso rilevare che le argomentazioni del giudice di secondo grado nel giustificare la decisione di inammissibilità del terzo motivo di appello a suo tempo proposto, si sviluppano per oltre due pagine, con una articolazione del ragionamento connotata da logicità e coerenza, con il richiamo anche ai principi affermati aa questa Corte, ponendo a raffronto il contenuto della sentenza di primo grado con il contenuto dell’appello, dovendosi pertanto ritenere che la decisione sia ampiamente satisfattiva del principio del cd. minimo costituzionale della motivazione (Cass. S.U. n. 8053/2014).

In secondo luogo, e con specifico riferimento all’erronea applicazione dell’art. 342 c.p.c., occorre in primo luogo precisare che alla fattispecie risulta applicabile, ratione temporis l’art. 342 c.p.c., nella sua formulazione anteriore alle modifiche introdotte dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. 0a), conv. nella L. 7 agosto 2012, n. 134,

destinate a trovare applicazione solo ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato ovvero di cui sia stata richiesta la notifica a far data dal 12 settembre 2012.

Al fine quindi di verificare la corretta applicazione della norma in esame, che nella formulazione in questa sede rilevante recita che “l’appello si propone con citazione contenente l’esposizione sommaria dei fatti ed i motivi specifici dell’impugnazione, nonché le indicazioni prescritte nell’art. 163 c.p.c.”, si ritiene tuttora attuale quanto affermato dalle SS.UU. nella sentenza n. 16 del 2000, nella cui parte motiva è dato leggere che “nel giudizio di appello – che non è un iudicium novum, ma è una revisio prioris instantiae – la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso l’enunciazione di specifici motivi. Tale specificità dei motivi esige che, alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono; ragion per cui, alla parte volitiva dell’appello, deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Pertanto, non si rivela sufficiente il fatto che l’atto d’appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità, da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata (Cass. 15 aprile 1998 n. 3805; Cass. 1 settembre 1997 n. 8297; Cass. 23 luglio 1997 n. 6893; Cass. 21 febbraio 1997 n. 1599; Cass. 30 maggio 1995 n. 6066), con la conseguenza che se da un lato, il grado di specificità dei motivi non può essere stabilito in via generale e assoluta, dall’altro lato esige pur sempre che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante volte ad incrinare il fondamento logico giuridico delle prime (Cass. 12 agosto 1997 n. 7524)”.

Tali considerazioni, alle quali si accompagna la precisazione che l’assenza di specificità dei motivi dell’atto di appello ne determina l’inammissibilità, sono sostanzialmente rimaste ferme nella successiva giurisprudenza di questa Corte la quale, anche in seguito, ha ribadito l’indispensabilità che l’atto di appello contenga sempre tutte le argomentazioni volte a confutare le ragioni poste dal primo giudice a fondamento della propria decisione senza la possibilità di rinviare l’esposizione delle stesse ad un momento successivo del giudizio o addirittura alla comparsa conclusionale, essendo l’atto di appello quello che fissa i limiti della controversia in sede di gravame ed esaurisce il diritto potestativo di impugnazione (Cass. 30 luglio 2001 n. 10401; Cass. S.U. 23 dicembre 2005 n. 28498, secondo cui l’atto d’appello non può limitarsi ad individuare le “statuizioni” concretamente impugnate, e così i capi di sentenza non ancora destinati a passare in giudicato ex art. 329 cpv. c.p.c., ma deve contenere anche le argomentazioni dirette a confutare la validità delle ragioni poste dal primo giudice a fondamento della soluzione delle singole questioni su cui si regge la decisione e, quindi, non può non indicare le singole “questioni” sulle quali il giudice ad quem è chiamato a decidere, sostituendo o meno per ciascuna di esse soluzioni diverse da quelle adottate in prime cure).

Quanto alla possibilità di avvalersi di una tecnica redazionale dell’atto di appello che si concreti nel richiamo alle difese svolte in primo grado, non mancano precedenti (cfr. Cass. 16 dicembre 2005 n. 27727) per i quali l’onere della specificazione dei motivi di appello previsto dall’art. 342 c.p.c., può ritenersi soddisfatto solo quando l’atto di appello esprime articolate ragioni di doglianza su punti specifici della sentenza di primo grado, non essendo, perciò, sufficiente, il generico rinvio alle difese svolte in primo grado (conf. Cass. 23 gennaio 2009 n. 1707), con la puntualizzazione, del tutto condivisibile (così Cass. Sez. U., 25 novembre 2008 n. 28057) secondo cui l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno dell’appello, può sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice.

Appare al Collegio che, alla luce dei principi ricavabili dai sopra richiamati precedenti della Corte, l’individuazione del carattere di specificità del motivo di appello debba essere ispirata ad un principio di simmetria, nel senso che quanto più approfondite e dettagliate risultano le argomentazioni del giudice di primo grado, anche in rapporto agli argomenti spesi dalle parti nelle loro difese, altrettanto puntuali debbano profilarsi le argomentazioni logico giuridiche utilizzate dall’appellante per confutare l’impianto motivazionale del giudice di prime cure (in tal senso si veda Cass. 27 gennaio 2014 n. 1651, la cui massima recita: La specificità dei motivi di appello deve essere commisurata alla specificità della motivazione e non è ravvisabile laddove l’appellante, nel censurare le statuizioni contenute nella sentenza di primo grado, ometta di indicare, per ciascuna delle ragioni esposte nella sentenza impugnata sul punto oggetto della controversia, le contrarie ragioni di fatto e di diritto che ritenga idonee a giustificare la doglianza).

La mera riproduzione del contenuto dei precedenti scritti difensivi potrebbe quindi apparire in grado di soddisfare il requisito di forma-sostanza posto dalla norma in esame, laddove ad esempio il giudice di primo grado si sia limitato a confutare in maniera apodittica o con argomentazioni di carattere meramente negatorio quelle già addotte in primo grado dall’appellante, ma non altrettanto laddove l’iter logico motivazionale della sentenza impugnata abbia addotto elementi di valutazione e di giudizio, sia in fatto che in diritto, in grado di confutare le tesi sostenute nei precedenti scritti difensivi, sì da imporre a carico di colui che impugna, l’onere di proporre a sua volta elementi in chiave critica in grado di permettere al giudice di appello di rivedere, ove siano ritenuti fondati, la decisione sottoposta al suo esame.

E’ evidente quindi che si tratta di una valutazione del fatto processuale che impone una verifica in concreto, condotta alla luce del raffronto tra la motivazione del provvedimento appellato e la formulazione dell’atto di appello.

Ponendosi in tale prospettiva, va ricordato che il giudice di primo grado nella sentenza non definitiva aveva fatto riferimento alla puntuale ricostruzione dei rapporti bancari, anche cointestati, quale operata dal CTU (cfr. pagg. 16 e ss.) evidenziando i vari prelievi e trasferimenti operati in favore del convenuto, aggiungendo come fosse del tutto corretta la metodologia tecnica seguita, in quanto nemmeno contrastata sotto tale profilo da parte del consulente del convenuto.

Questi, infatti, si era limitato a contestare la riferibilità delle giacenze bancarie alla sola persona del de cuius, intendendo attribuire rilievo alla qualità di cointestatario del ricorrente, ma tale deduzione è stata smentita in sentenza con il rilievo per cui dalle prove raccolte doveva reputarsi vinta la presunzione di pari appartenenza delle somme depositate di cui all’art. 1298 c.c., comma 2, emergendo invece che i vari rapporti fossero stati alimentati dal solo de cuius.

Inoltre, e quanto alla censura che investiva la mancata disamina di documentazione prodotta dal convenuto in un secondo momento, il Tribunale rilevava che si trattava di documentazione tardivamente prodotta, ben oltre il maturare delle preclusioni istruttorie, e senza che potesse trovare accoglimento la richiesta di rimessione in termini ex art. 184 bis c.p.c..

In particolare, a pag. 21 della sentenza non definitiva, si chiarisce che tale conclusione trovava il conforto del contenuto dell’ordinanza istruttoria del 29/1/2001, nella quale si era chiarito che la documentazione de qua era stata prodotta ben oltre la scadenza dei termini di cui all’art. 184 c.p.c., e che si trattava di documenti provenienti da un soggetto diverso da quelli nei cui confronti era stata in precedenza autorizzata l’acquisizione documentale, il che escludeva che la produzione potesse essere recuperata in quanto tardiva attuazione della richiesta di autorizzazione a suo tempo data dal Tribunale.

Non risultava mai avanzata dal convenuto una richiesta di acquisire documentazione bancaria anche presso i soggetti che avevano rilasciato la documentazione tardivamente prodotta, il che escludeva, quindi, la possibilità di applicare la rimessione in termini.

Orbene, a fronte di tale complessa motivazione del giudice di primo grado, il terzo motivo di appello, come correttamente evidenziato dal giudice di appello, si risolve in una generica e disorganica riproposizione di argomenti già spesi in primo grado, ma senza mai rapportarsi alle specifiche argomentazioni invece offerte dal Tribunale.

Già la premessa del motivo con l’affermazione che la divisione predisposta dal CTU sarebbe inaccettabile denota come la critica sia legata all’insoddisfazione per l’esito divisionale raggiunto, ma senza che sia effettivamente individuata l’erroneità della soluzione offerta dall’ausiliario d’ufficio.

Le prime pagine del motivo si rifanno ad una dichiarazione del de cuius circa l’avvenuta divisione dei beni, priva però di carattere impegnativo e che non tocca affatto il thema decidendi costituito dalla correttezza delle indagini peritali.

La censura poi si richiama al contenuto della documentazione di cui il Tribunale ha rilevato la tardiva produzione, assumendone la rilevanza ai fini della decisione, ma senza però confrontarsi con la valutazione di inammissibilità invece espressa dal Tribunale, palesandosi del tutto generica ed immotivata la necessità di fare applicazione dell’art. 184 bis c.p.c., come espressa a pag. 33 dell’atto di appello.

In particolare, nel corpo del motivo si deduce una resistenza delle parti in possesso della documentazione a fornirla al ricorrente, ma trattasi di affermazione che non si confronta con il fatto che trattavasi di soggetti per i quali non era stata a suo tempo data l’autorizzazione all’acquisizione documentale.

Analogamente prive di corrispondenza con le motivazioni della sentenza appellata appaiono le doglianze relative ai conti cointestati, in quanto si ribadisce apoditticamente la necessità di tenere conto della formale cointestazione dei rapporti, ma senza in alcun modo sottoporre a critica la diversa affermazione dei giudici di primo grado per la quale la presunzione di contitolarità doveva ritenersi essere stata vinta nei rapporti interni tra i cointestatari.

Ritiene pertanto la Corte che la valutazione di inammissibilità del motivo di appello in esame sia incensurabile.

4. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 184 bis, ora novellato dagli artt. 153,101 c.p.c. e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, nonché dell’art. 111 Cost.. Si deduce che risulta violato il principio del contraddittorio in quanto il giudice di appello ha omesso di statuire sulla richiesta di rimessione in termini, in relazione alla produzione della documentazione prodotta dal ricorrente in epoca successiva alla maturazione dei termini di cui all’art. 184 c.p.c..

Il motivo va disatteso.

In disparte l’inapplicabilità alla fattispecie della previsione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, quanto alla mancata utilizzazione della documentazione tardivamente prodotta dal ricorrente, vale il richiamo a quanto già esposto in occasione della disamina del precedente motivo di ricorso.

Il Tribunale ha analiticamente esposto in motivazione le ragioni per le quali la documentazione de qua era da reputarsi tardivamente prodotta, individuando anche le ragioni per le quali non potesse trovare spazio la rimessione in termini di cui all’art. 184 bis c.p.c., ratione temporis applicabile.

Siffatte argomentazioni non appaiono però specificamente oggetto di censura con i motivi di appello, fatta eccezione del generico richiamo alla pag. 33 dell’appello al fatto che fosse stato espressamente richiesta nel corso del giudizio di primo grado la rimessione in termini.

Tuttavia, la richiesta de qua, ove anche la si voglia intendere come reiterativa della analoga richiesta già avanzata in primo grado, e disattesa in sentenza, appare del tutto generica e connotata, ove intesa come idonea a supportare un motivo di appello, da difetto di specificità in rapporto al dettato dell’art. 342 c.p.c., mancando, come già sottolineato, una parametrazione della censura alla puntualità e specificità delle ragioni in base alle quali il Tribunale aveva ritenuto preclusa la produzione documentale in oggetto.

Peraltro, nemmeno il motivo di ricorso si confronta con la ragione che ha indotto il Tribunale a disattendere la richiesta, e cioè che si trattava di documentazione che la parte avrebbe potuto procurarsi in via anticipata e che proveniva da soggetti diversi da quelli per i quali era stata autorizzata l’acquisizione nel rispetto delle preclusioni istruttorie.

Ne’ appare di ausilio alla difesa del ricorrente il richiamo alla previsione di cui all’art. 345 c.p.c., che nel motivo viene ancora letta come riferita alle sole prove costituende e non anche alle prove precostituite, quali quelle documentali.

Infatti, sebbene al giudizio di appello si applichi la previsione di cui all’art. 345 c.p.c., nella formulazione anteriore alla novella del 2009, che ha espressamente incluso tra le prove vietate in appello, anche quelle documentali, va ricordato che secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel rito ordinario, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l’art. 345 c.p.c., comma 3, deve essere interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova “nuovi” – la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza – e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con il porre in via alternativa i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame (sempre che essi siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo): requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per causa ad esse non imputabile, ovvero nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione (Cass. S.U. n. 8203/2005).

Ne’ può giovare il richiamo alla nozione di prova indispensabile per consentire la produzione della documentazione in oggetto in appello.

Infatti, in relazione alla norma applicabile ratione temporis, è pur vero che le Sezioni Unite (Cass. S.U. n. 10790/2017) hanno chiarito che nel giudizio di appello, costituisce prova nuova indispensabile, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo previgente rispetto alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, quella di per sé idonea ad eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado, ma in motivazione hanno altresì specificato che, stante la natura del giudizio d’appello come mera revisio prioris instantiae anziché come iudicium novum, in nessun caso il potere del giudice d’appello di ammettere la prova indispensabile potrebbe essere esercitato riguardo a prove già in prime cure dichiarate inammissibili perché dedotte in modo difforme dalla legge o a prove dalla cui assunzione il richiedente sia decaduto a seguito di particolari vicende occorse nel giudizio di primo grado, non essendo queste – a rigori – neppure prove “nuove” (su ciò v. Cass. n. 26009/10; Cass. n. 10487/04).

Ne discende che a fronte del rilievo di inammissibilità della prova documentale compiuto da parte del Tribunale, non poteva il ricorrente far richiamo all’art. 345 c.p.c., per aggirare la preclusione nella quale era ormai incorso.

5. Il quarto motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 737,2695 c.c., artt. 112,115 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, quanto alla omessa motivazione del giudice di appello circa le censure sollevate con il terzo motivo di appello.

Inoltre, si lamenta che il giudizio si è svolto a senso unico, procedendosi alla collazione delle sole donazioni asseritamente ricevute dal ricorrente, omettendosi invece di considerare le rilevanti donazioni di denaro di cui aveva beneficiato l’attore. Il quinto motivo di ricorso deduce la violazione delle medesime norme di cui al quarto motivo, e ciò sul presupposto che la sentenza definitiva abbia recepito quanto statuito nella sentenza non definitiva, occorrendo invece tenere conto del fatto che la riforma della seconda, per effetto dell’accoglimento dei motivo di ricorso, implicherà il travolgimento anche della sentenza definitiva.

I motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.

La Corte d’Appello, una volta rilevata l’inammissibilità del terzo motivo di appello, che appunto investiva la correttezza delle conclusioni raggiunte dall’ausiliario d’ufficio, e fatte proprie dal Tribunale, attesa la violazione della previsione di cui all’art. 342 c.p.c., ha arrestato la propria decisione per la preclusione ostativa di rito, essendole quindi preclusa la disamina nel merito delle censure mosse, censure che peraltro si fondavano sulla rilevanza in chiave probatoria di documentazione di cui, con decisione del pari non specificamente censurata, si era dichiarata la tardiva produzione, e quindi l’esclusione dal materiale probatorio suscettibile di essere posto a sostegno della decisione.

Il rigetto dei precedenti motivi di ricorso implica quindi che è incensurabile la decisione del giudice di merito di non tenere conto delle asserite donazioni compiute in favore dell’attore, in quanto emergenti da elementi di prova non utilizzabili, e che del pari l’ausiliario non poteva prendere in esame.

6. Poiché tutti i motivi esaminati e disattesi sono proposti avverso il contenuto della sentenza non definitiva della Corte d’Appello, sostenendosi che il loro accoglimento avrebbe prodotto effetti caducatori anche in relazione alla sentenza definitiva, l’assenza di specifiche censure avverso tale ultima pronuncia rende inammissibile il ricorso proposto anche nei conforti della pronuncia definitiva.

7. Atteso l’esito del ricorso, le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

8. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30

gennaio 2013 ed è disatteso, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

La Corte rigetta il ricorso avverso la sentenza non definitiva di appello e dichiara inammissibile il ricorso avverso la sentenza definitiva di appello e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio in favore del controricorrente che liquida in complessivi Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 19 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2022

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA