Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 614 del 15/01/2021

Cassazione civile sez. un., 15/01/2021, (ud. 13/10/2020, dep. 15/01/2021), n.614

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Primo Presidente f.f. –

Dott. MANNA Antonio – Presidente di Sez. –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 13794/2019 R.G. proposto da:

D.N., rappresentato e difeso dall’Avv. Massimiliano

Silvetti, con domicilio eletto in Roma, Lungotevere dei Mellini, n.

7;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE DELLA CORTE DEI CONTI;

– controricorrente –

e

COMUNE DI TARQUINIA, R.A., RO.CI., e C.I.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte dei conti, Sezione giurisdizionale

centrale di appello, n. 409/18, depositata il 23 ottobre 2018.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 13 ottobre

2020 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha chiesto

la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 4 dicembre 2017, la Corte dei conti, Sezione giurisdizionale regionale per il Lazio, condannò D.N., in qualità di presidente del consiglio di amministrazione della Tarquinia Multiservizi S.p.a., società in house partecipata dal Comune di Tarquinia, al pagamento della somma di Euro 33.480,01, oltre accessori, a titolo di risarcimento del danno erariale cagionato dalla deliberazione con cui il consiglio di amministrazione della società aveva deciso una spesa di Euro 76.960,02 per l’allestimento di addobbi natalizi, a fronte di una spesa di Euro 10.000,00 autorizzata dal Comune.

2. L’impugnazione proposta dal D. è stata rigettata dalla Corte dei conti, Sezione giurisdizionale centrale d’appello, con sentenza del 23 ottobre 2018.

A fondamento della decisione, la Corte ha innanzitutto escluso il difetto di giurisdizione del Giudice contabile, osservando che la natura della società escludeva la possibilità di distinguere il danno causato alla stessa da quello causato all’ente partecipante, in quanto il patrimonio della prima, pur essendo separato, era comunque riconducibile al secondo. Ha ritenuto ammissibile il concorso dell’azione erariale con quella di responsabilità proposta dinanzi al Giudice ordinario nei confronti degli amministratori della società, precisando che, in caso di duplice condanna, l’amministrazione danneggiata deve tener conto, in sede esecutiva, di quanto già recuperato a carico del responsabile. Ha infine escluso la prescrizione dell’azione, affermando che la volontà manifestata dall’amministrazione attraverso l’azione proposta in sede civile era equiparabile ad un atto di costituzione in mora, idoneo ad interrompere la prescrizione anche in riferimento all’azione di responsabilità amministrativa.

Nel merito, la Corte ha ritenuto provato il danno, rilevando che la somma stanziata dal Comune costituiva un chiaro limite di spesa imposto dal socio pubblico alla società in house, mentre il riconoscimento del debito da parte degli organi dell’ente costituiva un atto dovuto in conseguenza della deliberazione della spesa in questione. Ha precisato che l’insindacabilità delle scelte discrezionali dell’amministrazione non esclude la possibilità di verificarne la compatibilità con i fini pubblici dell’ente, nonchè la conformità ai criteri di economicità, congruità e razionalità dell’azione amministrativa, affermando che nella specie tali criteri risultavano violati, in considerazione del vincolo di spesa posto dal socio pubblico e della situazione finanziaria della società. Ha ritenuto altresì sussistente la colpa grave dell’amministratore, il quale, pur essendo a conoscenza del predetto vincolo e della situazione finanziaria della società, aveva contribuito ad una decisione che già ex ante poteva ritenersi dannosa per quest’ultima.

La Corte ha ritenuto infine corretto l’addebito al D. di una maggior quota del danno, in ragione del suo ruolo di presidente del consiglio di amministrazione, escludendo invece la possibilità di tener conto dei vantaggi conseguiti dall’amministrazione, in quanto tale circostanza non era stata eccepita in primo grado, e risultava comunque non provata.

3. Avverso la predetta sentenza il D. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi, illustrati anche con memoria. Il Procuratore generale della Corte dei conti ha resistito con controricorso. Gli atri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, art. 12, comma 2, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto sussistente la giurisdizione contabile, nonostante la mancanza di un danno erariale. Premesso che tale danno sussiste esclusivamente nel caso in cui l’agente abbia tradito la finalità d’interesse pubblico perseguita attraverso l’investimento di denaro pubblico, afferma che nella specie tale tradimento non era configurabile, in quanto i fondi messi a disposizione dal Comune erano stati spesi proprio per lo scopo programmato, mentre l’utilizzazione di ulteriori somme stanziate dal consiglio di amministrazione della società non era qualificabile come danno erariale.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente insiste sulla violazione del D.Lgs. n. 175 del 2016, art. 1, comma 2, ribadendo che la sentenza impugnata non si è limitata a verificare l’esistenza del danno erariale conseguente all’esborso del denaro messo a disposizione dal Comune, ma ha esteso la giurisdizione contabile alla spesa di una somma facente parte del patrimonio della società.

3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la violazione degli artt. 2392 c.c. e segg., art. 2448 c.c., comma 2 e art. 2450 c.c. e del D.Lgs. n. 175 del 2016, art. 16, rilevando che, nel ritenere sussistente la giurisdizione contabile, la sentenza impugnata non ha tenuto conto del carattere eccezionale della stessa, i cui confini sono tipizzati dal legislatore. Premesso che le società in house sono riconducibili al modello societario di diritto comune, e precisato che eventuali deroghe vanno interpretate restrittivamente, trattandosi di norme che fanno eccezione a regole generali, osserva che la predetta disciplina attribuisce la gestione dell’impresa esclusivamente agli amministratori, le cui decisioni nella specie non potevano essere eterodirette da parte del Comune, in assenza di una norma statutaria che riconoscesse a quest’ultimo un potere di ingerenza nell’amministrazione della partecipata. Limitare alla amministrazione ordinaria i poteri di gestione degli amministratori comporterebbe infatti una violazione dei principi inderogabili su cui si fonda la responsabilità degli stessi nei confronti della società e dei creditori sociali, impedendo inoltre di individuare con certezza i casi nei quali essi sono tenuti a rispondere per mala gestio, in relazione ad atti ordinati dal superiore gerarchico. Aggiunge che le società di capitali costituite o partecipate da enti pubblici per il perseguimento delle proprie finalità restano società di diritto privato, la cui disciplina, in mancanza di diverse disposizioni, dev’essere desunta dalle norme del codice civile; queste ultime configurano le predette società come soggetti di diritto pienamente autonomi e distinti, sia rispetto alle persone che rivestono la qualità di organi, sia rispetto ai soci ed al patrimonio, con la conseguenza che alle predette persone non è imputabile il rapporto di servizio intercorrente tra l’ente pubblico e la società partecipata, e che il danno cagionato dagli amministratori di quest’ultima al patrimonio della società non può ritenersi arrecato all’ente partecipante.

4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta l’illegittima duplicazione di giudicati inerenti al medesimo fatto ed al medesimo danno, sostenendo che, nel ritenere ammissibile il concorso tra l’azione di responsabilità contabile e quella di responsabilità civile, la sentenza impugnata non ha considerato che nel caso in esame i relativi giudicati potrebbero risultare contraddittori ed impossibili da armonizzare, sia nel dispositivo che nei fatti accertati, e che il D.Lgs. n. 175 del 2016, art. 12, attribuisce l’azione di responsabilità ad un solo giudice, escludendo quindi qualsiasi concorso di giurisdizioni.

5. In quanto recanti una chiara illustrazione delle ragioni per cui il ricorrente chiede la cassazione della sentenza impugnata, accompagnata dalla puntuale indicazione delle argomentazioni in diritto che intende sottoporre a censura e delle norme giuridiche di cui denuncia la violazione, i predetti motivi si sottraggono all’eccezione d’inammissibilità sollevata dal controricorrente, risultando la loro esposizione conforme ai requisiti di tassatività e specificità prescritti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4: quest’ultimo esige infatti una precisa enunciazione delle censure proposte, in linea con la natura del ricorso per cassazione, quale mezzo d’impugnazione a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, i quali assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1 (cfr. Cass., Sez. lav., 18/08/2020, n. 17224; Cass., Sez. VI, 14/05/2018, n. 11603; 22/09/2014, n. 19959).

5.1. Le censure, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti profili diversi della medesima questione, sono peraltro infondate.

A fondamento della decisione, il Giudice contabile di appello ha rilevato che il ricorrente non aveva contestato l’affermazione contenuta nella sentenza di primo grado, secondo cui, alla luce della disciplina dettata dallo statuto vigente all’epoca dei fatti, la Tarquinia Multiservizi S.p.a., nell’ambito della quale il D. aveva rivestito la carica di presidente del consiglio di amministrazione, doveva essere qualificata come società in house del Comune di Tarquinia. Alla stregua di tale accertamento, rimasto incensurato anche in questa sede, non merita censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha ribadito la devoluzione della controversia alla giurisdizione contabile, risultando tale statuizione conforme all’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità in tema di società di capitali partecipate da enti pubblici, secondo cui, ove dalle disposizioni statutarie vigenti all’epoca cui risale la condotta ritenuta illecita emerga la sussistenza di tutti i requisiti necessari per la qualificazione della partecipata come società in house providing, la cognizione in ordine all’azione di responsabilità promossa nei confronti degli organi di amministrazione e di controllo per i danni cagionati al patrimonio della società spetta alla Corte dei conti (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 21/06/2019, n. 16741; 13/09/2018, n. 22409; 25/11/2013, n. 26283).

Com’è noto, tale principio rappresenta un’eccezione rispetto alla regola, anch’essa costantemente ribadita da queste Sezioni Unite, secondo cui la mera assunzione della qualità di socio da parte dello Stato o di un ente pubblico non costituisce una ragione sufficiente ai fini della devoluzione dell’azione di responsabilità alla giurisdizione contabile: si è infatti osservato che, al di fuori delle ipotesi della società in house e delle società c.d. legali (quelle, cioè, attraverso le quali l’ente pubblico svolge un’attività amministrativa in forma privatistica), il danno subito dalla società a causa della mala gestio degli amministratori o dei componenti dell’organo di controllo non è qualificabile come danno erariale, inteso come pregiudizio arrecato direttamente allo Stato o all’ente pubblico che rivesta la qualità di socio, dal momento che la distinta soggettività giuridica riconosciuta alle società di capitali e l’autonomia patrimoniale di cui le stesse sono dotate rispetto ai loro soci escludono da un lato la possibilità di riferire al patrimonio di questi ultimi il danno che l’illecito comportamento degli organi sociali abbia eventualmente arrecato al patrimonio della società, dall’altro la configurabilità di un rapporto di servizio tra l’agente e l’ente titolare della partecipazione (cfr. Cass., Sez. Un., 11/09/ 2019, n. 22712; 2/09/2013, n. 20075; 3/05/2013, n. 10299). La ragione per cui tale principio viene ritenuto inoperante per le società in house è stata individuata nel fatto che esse costituiscono diretta espressione dell’Amministrazione che se ne avvale per l’autoproduzione di beni e servizi, rispetto alla quale si pongono alla stessa stregua di articolazioni organizzative interne, sicchè la loro attività non è rapportabile a quella di un soggetto privato dotato di un’autonoma soggettività giuridica, ma resta sostanzialmente imputabile all’Amministrazione di riferimento; i vincoli gerarchici cui sono assoggettati i loro organi nei confronti di quest’ultima impediscono inoltre di considerarli, come gli altri amministratori delle società a partecipazione pubblica, investiti di un mero munus privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la società, rendendo invece configurabile un vero e proprio rapporto di servizio, così come accade per gli altri dirigenti preposti ai servizi erogati direttamente dall’ente pubblico: per tale motivo, si è affermato che il pregiudizio derivante dalla condotta degli agenti, pur incidendo sul patrimonio della società, formalmente separato da quello dell’ente titolare della partecipazione, rileva, sotto il profilo sostanziale, come danno al patrimonio di quest’ultimo, con la conseguenza che la giurisdizione in ordine all’azione risarcitoria spetta alla Corte dei conti (cfr. Cass., Sez. Un., 21/6/2019, n. 16741; Cass., Sez. Un., 13/9/2018, n. 22409; Cass., Sez. Un., 13/4/2016, n. 7293). Si è comunque precisato che l’affermata insussistenza di un vero e proprio rapporto di alterità soggettiva tra la società partecipata e l’ente pubblico partecipante non consente di escludere la possibilità di un concorso tra la giurisdizione ordinaria e quella contabile, in quanto, laddove sia prospettato sia un danno erariale che un danno arrecato alla società, al di là di una semplice interferenza fra i due giudizi, deve ritenersi ammissibile la proposizione, per gli stessi fatti, di un giudizio civile e di un giudizio contabile risarcitorio (cfr. Cass., Sez. Un., 10/04/2019, n. 10019; 13/09/2018, n. 22406).

Le conclusioni cui è pervenuta l’elaborazione giurisprudenziale, lungi dallo essere smentite dal D.Lgs. n. 175 del 2016, art. 12, invocato dalla difesa del ricorrente, hanno trovato conferma in tale disposizione: la stessa, nel disciplinare la responsabilità dei componenti degli organi di amministrazione e controllo delle società a partecipazione pubblica, ha infatti ribadito l’assoggettamento di questi ultimi alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali, facendo però salva la giurisdizione della Corte dei conti per il danno erariale causato dagli amministratori e dai dipendenti delle società in house.

In quest’ottica, venendo a cadere lo schermo rappresentato dall’autonomia soggettiva e patrimoniale della società, la diretta incidenza sul patrimonio di quest’ultima del danno arrecato dagli amministratori o dai componenti degli organi di controllo non consente di escludere anche la configurabilità di un danno erariale, neppure, come vorrebbe la difesa del ricorrente, in relazione alla provenienza delle risorse utilizzate per la copertura dell’esborso che ha cagionato il pregiudizio: la circostanza che nel caso in esame la spesa deliberata dal consiglio di amministrazione sia stata finanziata con mezzi economici forniti dal Comune soltanto nei limiti dell’importo per il quale quest’ultimo aveva concesso la propria autorizzazione non esclude dunque la configurabilità di un pregiudizio anche in riferimento all’importo dell’esborso eccedente quello autorizzato, la cui ripercussione sul patrimonio dell’ente pubblico è stata più volte sottolineata dalla sentenza impugnata anche attraverso il ripetuto accenno alla situazione finanziaria in cui versava la società.

Quanto poi alla possibilità che l’esclusione del rapporto di alterità soggettiva tra la società in house e l’ente pubblico partecipante conduca, attraverso l’affermazione del concorso tra la giurisdizione del Giudice contabile investito dall’azione di risarcimento del danno erariale e quello ordinario investito della azione sociale di responsabilità, ad una duplicazione di giudicati inerenti al medesimo fatto, è sufficiente richiamare l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, secondo cui la circostanza che le predette azioni abbiano ad oggetto il medesimo danno non costituisce ostacolo alla loro coesistenza, nè comporta un rischio di violazione del principio del ne bis in idem: considerato infatti che le due giurisdizioni sono reciprocamente indipendenti nei loro profili istituzionali, e tenuto altresì conto della tendenziale diversità di oggetto e di funzione tra i relativi giudizi, il rapporto tra le due azioni si pone in termini di alternatività anzichè di esclusività, e non dà quindi luogo a questioni di giurisdizione ma, eventualmente, di proponibilità della domanda (cfr. Cass., Sez. Un., 13/09/2018, n. 22406; 7/01/2014, n. 63; 22/12/2009, n. 27092), fermo restando il limite (che può essere fatto valere, se del caso, anche in sede di esecuzione) rappresentato dal divieto di duplicazione del risarcimento, il quale impone a ciascuno dei Giudici di tener conto, nella liquidazione, di quanto eventualmente già riconosciuto nell’altra sede (cfr. Cass., Sez. III, 20/12/2018, n. 32929; 14/07/2015, n. 14632).

6. Il ricorso va dichiarato pertanto inammissibile, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla posizione istituzionale del Procuratore generale della Corte dei conti, il quale, così come non può sostenere l’onere delle spese processuali nel caso di sua soccombenza, al pari di ogni altro ufficio del pubblico ministero, non può essere destinatario di una pronuncia attributiva della rifusione delle spese quando, come nella specie, soccombente risulti un suo contraddittore (cfr. Cass., Sez. Un., 9/04/2020, n. 7762; 28/02/2020, n. 5589; 22/11/2004, n. 21945).

Va infine rigettata la richiesta, avanzata dal Procuratore generale della Corte dei conti, di condanna del ricorrente al pagamento di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, non risultando a tal fine sufficiente la mera inammissibilità delle censure proposte dal D., la quale, avuto riguardo anche alla peculiarità della situazione determinata dalla parziale autorizzazione dell’esborso che ha cagionato il danno erariale, non può essere considerata di per sè sintomatica della volontà di piegare lo strumento del ricorso per cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione a finalità devianti rispetto a quelle di tutela dei diritti e degli interessi legittimi per cui è previsto dall’art. 111 Cost., comma 8 e quindi di un abuso del processo, che la sanzione prevista dalla predetta disposizione è volta a reprimere, nell’interesse generale della collettività (cfr. Cass., Sez. III, 30/03/2018, n. 7901; Cass., Sez. II, 21/11/2017, n. 27623).

PQM

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2021

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