Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6123 del 09/03/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 09/03/2017, (ud. 25/01/2017, dep.09/03/2017),  n. 6123

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7260-2015 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., ((OMISSIS)), – società con socio unico in

persona dell’Amministratore Delegato e legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25-B, presso lo

studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la rappresenta e difende

giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIANTURCO 1,

presso lo studio dell’avvocato MARIA CRISTINA LENOCI, rappresentato

e difeso dall’avvocato MICHELE BRUNETTI giusta procura a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 56/2014 della CORTI D’APPELLO di LECCE SEZIONE

DISTACCATA di TARANTO, depositata l’11/3/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 25/1/2017 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

– con ricorso al Giudice del lavoro di Taranto, C.M. chiedeva che fosse dichiarato nullo il termine apposto ad un contratto a tempo determinato con il quale era stato assunto alle dipendenze di Poste Italiane S.p.A., stipulato per “esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche ovvero conseguenti alla introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi, nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002”, per il periodo dall’1/2/2002 al 30/4/2002. Il Tribunale accoglieva la domanda e dichiarava l’illegittimità del termine con condanna della società a riammettere in servizio il lavoratore ed a corrispondergli le retribuzioni maturate a far data dalla richiesta di tentativo di conciliazione. La decisione veniva solo in parte riformata dalla Corte di appello di Lecce – sezione distaccata di Taranto che, in applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32 condannava la società al risarcimento del danno nella misura di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. La Corte territoriale, superata la questione della risoluzione per mutuo consenso del rapporto, riteneva che nel contratto vi fosse il mero richiamo ad una pluralità di esigenze tra cui il riposizionamento sul territorio degli organici della società e la sperimentazione di nuove tecnologiche, senza alcun riferimento a necessità a carattere locale e che le circostanze allegate dalla società a dimostrazione della sussistenza delle ragioni giustificative del termine fossero prive delle precisazioni necessarie a superare la genericità della suddetta indicazione;

– per la cassazione della sentenza propone ricorso Poste Italiane affidato a tre motivi;

– C.M. resiste con controricorso;

– la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata;

– non sono state depositate memorie;

– il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

– i motivi proposti dalla soc. Poste si riassumono come segue:

– violazione dell’art. 1372 c.p.c., commi 1 e 2, in relazione alla esclusione della risoluzione per mutuo consenso, stante la presenza di evidenti elementi rivelatori del disinteresse, da parte del lavoratore, al mantenimento della funzionalità del rapporto (primo motivo).

– violazione ed erronea applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23 dell’art. 1362 c.c. e art. 1363 c.c. e ss., nonchè degli artt. 421 e 437 c.p.c., in relazione alla mancata considerazione del fatto che l’assunzione in questione era stata effettuata nel rispetto della previsione di cui all’art. 25 del c.c.n.l. del 2001, e quindi in virtù della delega in bianco conferita dalla L. n. 56 del 1987, art. 23 nonchè in relazione alla ritenuta insussistenza delle ragioni giustificative ed al mancato esercizio dei poteri d’ufficio (secondo motivo);

– violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 8 nonchè dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, commi 5 – 7, in relazione alla quantificazione dell’indennità risarcitoria, effettuata sulla base di una valutazione del tutto parziale dei criteri di cui alla citata norma e senza alcun riferimento all’anzianità di servizio del prestatore di lavoro o al comportamento delle parti e, sotto altro profilo, in relazione all’erronea esclusione del limite delle sei mensilità di cui all’art. 32, comma 6 (terzo motivo);

– il primo motivo è manifestamente infondato;

– come questa Corte già da tempo affermato, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, occorre che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare “una volontà chiara e certa della parti di volere, d’accordo tra loro, pone definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. Cass. nn. 15403/2000, 4003/1998); tra l’altro, è onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. nn. 2279/2010, 16303/2010, 15624/2007, 17070/2002, 15403/2000);

– l’indirizzo consolidato di questa Corte (si vedano, oltre alle più datate decisioni sopra citate, Cass. nn. 17674/2002, 23554/2004, 20390/2007, 17150/2008, 26935/2008, 23057/2010, 5887/2011 e tra le più recenti, Cass. nn. 1780/2014, 24069/2015, 24951/2015, 1179/2016, 1244/2016, 3026/2016) è, così, innanzitutto nel senso di ritenere che la mera inerzia del lavoratore non è sufficiente a far considerare sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo (v. Cass. nn. 20390/2007, 26935/2008);

– questa S.C., poi, ha più volte avuto modo di rilevare che non sono indicative di un intento risolutorio nè l’accettazione del t.f.r. nè la mancata offerta della prestazione, trattandosi di comportamenti entrambi non interpretabili, per assoluto difetto di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione del termine (cfr., Cass., n. 15628/2001, in motivazione). Lo stesso dicasi della condotta di chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni (cfr. Cass. n. 839/2010, in motivazione, nonchè, in senso analogo, Cass., n. 15900/2005, in motivazione)” – si vedano, in termini, anche le recenti Cass. nn. 8061/2014, 6632/2014 -.

– la valutazione del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative di una consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto;

– nel caso in esame, la Corte di appello ha respinto l’eccezione di scioglimento del vincolo contrattuale sul rilievo che fosse mancata ogni prova di condotte concludenti utili a rappresentare la disaffezione del lavoratore (tali non potendo ritenersi – contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente – l’accettazione senza riserve del t.f.r. e il ritiro del libretto di lavoro all’atto della cessazione del rapporto), essendo perciò rimasta detta eccezione meramente fondata sul decorso del tempo (che non è di per sè espressione di una tacita rinuncia a coltivare il diritto a far accertare l’illegittimità del termine apposto al contratto);

– trattasi di considerazioni di merito corrette sul piano giuridico e congruamente motivate, come tali non censurabili sul piano logico;

– il secondo motivo è manifestamente infondato;

– del tutto inconferente rispetto al decisum è il richiamo all’art. 25 del c.c.n.l. del 2001 atteso che il contratto è stato stipulato dopo la scadenza di tale c.c.n.l. e nella vigenza del D.Lgs. n. 368 del 2001, (si veda Cass. n. 25558/2015). Le stesse argomentazioni utilizzate dai giudici di appello sono, del resto, tutte incentrate sulla conformità del contratto rispetto alle previsioni di tale D.Lgs.;

– quanto agli ulteriori rilievi va osservato che, come è stato chiarito da questa Corte, “l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita dal D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1, a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa. Spetta al giudice di merito accertare – con valutazione che, se correttamente motivata ed esente da vizi giuridici, resta esente dal sindacato di legittimità – la sussistenza di tali presupposti, valutando ogni elemento, ritualmente acquisito al processo, idoneo a dar riscontro alle ragioni specificamente indicate con atto scritto ai fini dell’assunzione a termine, ivi compresi gli accordi collettivi intervenuti fra le parti sociali e richiamati nel contratto costitutivo del rapporto” (v. Cass. n. 10033/2010, cfr. anche Cass. n. 1931/2011, sull’onere di specificazione delle ragioni giustificatrici di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo del termine finale, che “debbono essere sufficientemente particolareggiate così da rendere possibile la conoscenza della loro effettiva portata e il relativo controllo di effettività”, pur con riferimento ad un unico contratto);

– orbene, pur se è legittimo recuperare la specificità nella formulazione della causale mediante il rinvio per relationem al contenuto di accordi sindacali o di altri scritti accessibili alle parti del rapporto, sul piano della prova, specialmente a fronte di precise contestazioni del lavoratore, deve essere fornita la dimostrazione del collegamento tra l’assunzione e l’esigenza produttive ed organizzative che la stessa è chiamata a realizzare;

– al riguardo, la Corte territoriale ha evidenziato che, già in sede di ricorso e di articolazione della prova, non era stato allegato dalla società alcun collegamento concreto con la assunzione a termine de qua (collegamento tanto più necessario in presenza di plurime esigenze legittimanti in astratto la conclusione di contratti a termine riposizionamento sul territorio degli organici della società e la sperimentazione di nuove tecnologiche -);

– legittimamente, quindi, la Corte di merito ha affermato, sulla base di una motivazione esente da vizi logici, che la sussistenza in concreto della causale del rapporto a termine in questione non fosse stata sufficientemente allegata nè dimostrata dalla società datrice di lavoro, sulla quale incombeva il relativo onere probatorio (cfr., in particolare, Cass. n. 2279/2010);

– quanto, poi, alle censure afferenti la ritenuta genericità dei mezzi di prova articolati dalla società ed alla mancata utilizzazione dei poteri d’ufficio è sufficiente osservare che il giudice di merito ha esplicitato in maniera addirittura analitica le ragioni di tale ritenuta genericità ed inconferenza della prova richiesta, evidenziando come le circostanze dedotte fossero prive di precisi riferimenti a dati obiettivi oltre che di ogni riferimento all’ufficio di destinazione del lavoratore, così da risultare, quand’anche dimostrate, non utili a soddisfare l’onere probatorio gravante sulla società; nel rito del lavoro, poi, il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 c.p.c., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori (v. Cass. n. 6023/2009); in ogni caso, gli indicati poteri d’ufficio non possono essere dilatati fino a richiedere che il giudice supplisca in ogni caso alle carenze allegatorie e probatorie delle parti, in assenza di una pista probatoria rilevabile dal materiale processuale acquisito agli atti di causa;

– anche il terzo motivo è infondato;

– in applicazione dei principi generali in materia di sindacato di legittimità, deve affermarsi, coerentemente con quanto più volte statuito da questa Corte in tema di indennità di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 8 (cfr. Cass. n. 107/2001; Cass. n. 11107/2006; Cass. n. 13732/2006; da ultimo, con riferimento all’art. 32, comma 5, per tutte, vedi Cass. nn. 6122/2014, 8747/2014) che la determinazione tra il minimo e il massimo della misura dell’indennità de qua spetta al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria. Nel caso in esame la Corte territoriale ha tenuto conto dei criteri stabiliti nella L. n. 604 del 1966, art. 8 ed ha concluso ritenendo congruo determinare l’indennità onnicomprensiva in dodici mensilità in considerazione delle notevoli dimensioni aziendali (cfr. nei medesimi termini Cass. n. 9127/2016, Cass. n. 8994/2016);

– infondato è poi il rilievo riguardante l’omessa applicazione dell’art. 32, comma 6 citato;

– innanzitutto la Corte territoriale ha spiegato perchè nella specie non potesse farsi applicazione dell’indicata riduzione; in ogni caso non è stata fornita dalla ricorrente alcuna prova della vigenza di accordi rilevanti a termini dell’art. 32, comma 6 e della concreta applicabilità degli stessi in relazione alla fattispecie concreta (cfr. in termini Cass. n. 7344/2015);

– la proposta va, pertanto, condivisa e il ricorso va rigettato;

– la regolamentazione delle spese segue la soccombenza;

– va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge e rimmborso forfetario in misura del 15% da corrispondersi all’avv. Michele Brunetti, anticipatario.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 25 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2017

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