Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6097 del 24/02/2022

Cassazione civile sez. I, 24/02/2022, (ud. 19/01/2022, dep. 24/02/2022), n.6097

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio P. – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 2565/2021 proposto da:

Costruzioni V. s.r.l., in liquidazione e in concordato preventivo,

nella persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata

ed assistita dall’Avv. Alberto Piperno, e dall’Avv. Giovanni Sensi,

ed elettivamente domiciliati presso lo studio dell’Avv. Paolo

Piperno, in Roma, via F. Denza, n. 27, come da mandato a margine del

ricorso per cassazione.

– ricorrente –

contro

Gestione Liquidatoria della ex U.S.L. n. (OMISSIS) di Firenze, nella

persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e

difeso dall’Avv. Gaetano Viciconte, come da procura speciale

appositamente conferita, elettivamente domiciliata presso lo studio

dell’Avv. Alessandro Turco, in Roma, Largo dei Lombardi, n. 4.

– controricorrente e ricorrente in via incidentale –

avverso la sentenza n. 2789/2019 della Corte di appello di FIRENZE,

pubblicata il 25 novembre 2019, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/01/2022 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott.

NARDECCHIA Giovanni Battista, che ha concluso per l’inammissibilità

del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con lodo emesso in data 30 ottobre 2002, il Collegio arbitrale previsto dal contratto di appalto stipulato il 22 giugno 1992 tra la U.S.L. n. (OMISSIS) di Firenze e la V. Costruzioni s.r.l., per la esecuzione di una prima parte dei lavori di restauro del complesso ospedaliero di (OMISSIS), dichiarò legittimi l’atto di diffida ad adempiere agli obblighi derivanti dal contratto nonché alla consegna di tutti i lavori, notificato dall’impresa il 14 dicembre 1993, e la conseguente risoluzione del contratto per inadempimento della stazione appaltante. Accolse poi numerose riserve dall’impresa formulate durante l’esecuzione dei lavori.

2. La U.S.L. n. (OMISSIS) di Firenze propose impugnazione dinanzi alla corte d’appello di Firenze, la quale, con sentenza non definitiva n. 1431 del 13 ottobre 2005, dichiarò la nullità del lodo per difetto assoluto di motivazione in ordine agli addebiti relativi alla omessa, frazionata o ritardata consegna dei lavori da parte dell’amministrazione; respinse, perché non consentite dalle disposizioni del D.P.R. n. 1063 del 1962, art. 10, le domande di risoluzione del contratto e di risarcimento del danno, fondate sull’asserito inadempimento della committente all’obbligo di detta consegna; dispose con separata ordinanza la prosecuzione del giudizio per provvedere sulle ulteriori pretese dell’impresa, non collegate con l’inadempimento e la risoluzione suddetti.

3. Questa Corte, con sentenza n. 8960 del 14 aprile 2010, rigettò il ricorso per cassazione proposto dalla Costruzioni V. s.r.l. e dichiarò assorbito il ricorso incidentale della Gestione liquidatoria della U.S.L. n. (OMISSIS).

4. Nella prosecuzione del giudizio veniva svolta una consulenza tecnica d’ufficio, all’esito della quale la Corte d’appello, con sentenza n. 1155 del 3 luglio 2014, condannò la Gestione Liquidatoria della U.S.L. n. (OMISSIS) al pagamento di somme, a titolo di risarcimento dei danni, conseguenti a comportamenti illegittimi della Stazione appaltante, escluse le conseguenze derivanti dalla ritardata consegna dei lavori, per complessivi Euro 379.736,60, oltre accessori.

5. Avverso la suddetta sentenza la Gestione Liquidatoria della U.S.L. n. (OMISSIS) propose ricorso per cassazione e la V. costruzioni s.r.l., in liquidazione e concordato preventivo, replicò con controricorso e ricorso incidentale condizionato.

6. Questa Corte, con sentenza n. 15342 del 25 luglio 2016, accolse i primi due motivi del ricorso principale e dichiarò assorbiti gli altri motivi e il ricorso incidentale e rinviò alla Corte d’appello di Firenze in relazione ai motivi accolti.

7. La Corte di appello di Firenze, con sentenza pubblicata in data 25 novembre 2019, ha, in via preliminare, rigettato l’eccezione di inammissibilità dell’atto di riassunzione del procedimento notificato ex art. 392 c.p.c., sollevata dalla Gestione Liquidatoria della U.S.L. n. (OMISSIS) e, nel merito, ha ritenuto infondata la domanda risarcitoria formulata dalla Costruzioni V. s.r.l. in liquidazione.

8. In particolare, la Corte territoriale ha dapprima individuato gli accertamenti e le decisioni non più suscettibili di riesame o di revisione, coperte dal giudicato, e specificamente: il contenuto del lodo arbitrale del 30 ottobre 2002 perché ritenuto nullo ed improduttivo di effetti giuridici dalla sentenza non definitiva n. 1431/2005, confermata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 8960/2010; l’insussistenza di alcun inadempimento posto in essere dalle parti in relazione agli obblighi contrattuali discendenti dal contratto di appalto del 22 giugno 1992, avendo la sentenza non definitiva sostenuto l’infondatezza “delle domande di risoluzione e di risarcimento della V. Costruzioni s.r.l., nella misura in cui trovavano la loro giustificazione nel ritardo nella consegna dei lavori”; le riserve formulate dall’appaltatore connesse a profili di inadempimento contrattuale, perché escluse dalla sentenza non definitiva; i giudici di secondo grado hanno, quindi, individuato l’unica questione ancora in discussione, ovvero se la V. Costruzioni s.r.l. avesse allegato e provato fatti e condotte della U.S.L. integranti fatti illeciti, estranei a questioni legate a presunti inadempimenti contrattuali, tali da cagionare, per colpa o dolo, un danno ingiusto e dunque da obbligare l’autore al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c., affermando che non potevano trovare ingresso le domande formulate dalla V. Costruzioni s.r.l. correlate alle “gravi negligenze e mancanza di cooperazione e buona fede che causarono lo stravolgimento dell’intero appalto”.

9. La Corte d’appello ha, poi, evidenziato che la V. Costruzioni s.r.l. non aveva adempiuto all’onere probatorio sulla stessa incombente, avendo, piuttosto, operato nel contesto di domande in parte ambigue, perché mai precisate o distinte, sotto il profilo genetico tra condotte contrattuali o extracontrattuali, ma astrattamente affidate all’esperimento dell’attività peritale che, sotto tale profilo, nulla avrebbe potuto esprimere ed avendo, dopo la sentenza della Corte di Cassazione n. 15342/2016, corretto il tiro, prospettando in modo più analitico, ma sempre in linea astratta e teorica, una responsabilità extracontrattuale proveniente dalla riferita “condotta ostruzionistica e contraria ai principi della buona fede”, finalizzata a causare quel ritardo nella consegna delle opere che avrebbe legittimato il recesso della stazione appaltante, ciò nel contesto di una certa ed inammissibile “mutatio libelli”; che le voci risarcitorie dedotte dalla V. Costruzioni s.r.l. o attenevano a questioni finanziarie legate allo svolgimento del rapporto contrattuale e, quindi, avevano come premessa l’accertamento della condotta inadempiente, o, se poste fuori dal negozio, erano prive di qualsivoglia fondamento probatorio; che l’unico accertamento che rimaneva da espletare, esclusa la sussistenza di una responsabilità extracontrattuale in capo alla Stazione appaltante, era di stabilere se e in che misura, alla data del recesso operato dalla U.S.L. ai sensi del R.D. n. 2248 del 1865, art. 345 (all. F). vigente all’epoca dei fatti, erano state versate all’appaltatore tutte le somme dovute in relazione all’intero complesso dei lavori eseguiti e, tuttavia, era rimasto del tutto indimostrato da parte della V. Costruzioni s.r.l. se l’impresa avesse o meno riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri analoghi lavori o servizi o forniture, prova necessaria, anche secondo la giurisprudenza amministrativa, al fine di riconoscere l’obbligo di pagamento dei lavori eseguiti e il valore dei materiali utili esistenti nel cantiere, oltre al decimo dell’importo delle opere non eseguite previsto dall’art. 345 citato.

10. I giudici di secondo grado hanno, infine, determinato le somme dovute all’Impresa, richiamando le risultanze dell’elaborato tecnico, in complessive vecchie Lire 96.571.473, pari a quelle determinate all’epoca del recesso effettuato dalla U.S.L., e che, dunque, null’altro era dovuto alla V. Costruzioni s.r.l..

11. La V. Costruzioni s.r.l., avverso la superiore sentenza, ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a sette motivi di ricorso.

12. La Gestione Liquidatoria della U.S.L. n. (OMISSIS) ha depositato controricorso e ricorso incidentale condizionato affidato ad un unico motivo.

13. La Procura Generale della Corte di Cassazione ha depositato, in data 11 gennaio 2022, conclusioni scritte.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si lamenta la violazione di legge, rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento all’art. 2697 c.c. e agli artt. 115 e 116 c.p.c.; difetto di valutazione, ovvero falsa valutazione delle risultanze istruttorie laddove la Corte d’appello di Firenze ha ritenuto la pretesa esistenza di idonea prova dell’avvenuto pagamento di tutti i corrispettivi di appalto maturati dalla società Costruzioni V.. In ipotesi, violazione di legge, rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per incomprensibilità della motivazione sul punto. In ipotesi ancora ulteriore, nullità della sentenza, rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per tale difetto di motivazione sul medesimo punto.

Si duole la società ricorrente che la Corte d’appello, senza alcun tipo di motivazione, aveva escluso le questioni inerenti i rapporti di dare-avere fra le parti limitandosi a prendere atto degli aspetti contabili del rapporto di appalto, come riferiti dal consulente tecnico d’ufficio. Ing. M. e che aveva recepito le risultanze della contabilità dei lavori ad essa riferite dal consulente tecnico d’ufficio, attribuendo loro un valore di prova di pagamenti che, invece non avevano; la Corte d’appello aveva omesso di motivare sul rigetto della domanda del pagamento dei corrispettivi per Euro 72.593,10 (già Lire 140.559.843) e che tale rigetto era frutto di una totale obliterazione della questione da parte del Collegio decidente.

2. Con il secondo motivo si lamenta la violazione di legge, rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento all’art. 2909 c.c. e alla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 345, laddove la Corte d’appello di Firenze aveva ritenuto l’inapplicabilità al rapporto di appalto in oggetto delle regole e della disciplina dell’adempimento e dell’inadempimento contrattuali, in quanto preteso oggetto di giudicato negativo formatosi nella sentenza n. 1155/2014 di altra sezione della medesima Corte d’appello. In ipotesi, violazione di legge, rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per incomprensibilità della motivazione sul punto dell’esistenza di preteso giudicato impeditivo dell’applicazione al rapporto di appalto delle regole e della disciplina dell’adempimento e dell’inadempimento contrattuali. In ipotesi ancora ulteriore, nullità della sentenza rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per totale difetto di motivazione sul medesimo punto.

Si duole la società ricorrente che la Corte d’appello aveva errato nell’escludere dalla responsabilità della stazione appaltante le ipotesi diverse da quelle dipendenti da ritardo nella consegna dei lavori, poiché il giudicato si era formato soltanto con riguardo alla responsabilità da ritardo nella consegna dei lavori, come emergeva chiaramente sia dalla sentenza della Corte d’appello n. 1431/2005, dalla prima sentenza della Corte di Cassazione n. 8960/2010 ed anche dalla seconda sentenza della Corte di Cassazione n. 15242/2016; la Corte d’appello, inoltre, avevano motivato, in modo assertivo e apodittico, sull’esistenza del preteso giudicato ostativo, con la conseguenza che la motivazione sul punto era inesistente.

3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione di legge rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento alla L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 345, laddove la Corte d’appello di Firenze aveva ritenuto l’inapplicabilità al rapporto di appalto in oggetto delle regole e della disciplina dell’adempimento e dell’inadempimento contrattuali, in quanto escluse dall’operatività della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 345.

Assume la società ricorrente che laddove la sentenza impugnata avesse ritenuto che l’operatività della L. n. 2248 del 1865, art. 345, conducesse effetti retroattivi e l’inapplicabilità al rapporto di appalto delle disposizioni in tema di responsabilità contrattuale, la sentenza chiaramente violava la predetta norma e meritava di essere cassata.

4. Con il quarto motivo si lamenta la violazione di legge, rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento all’art. 2697 c.c., artt. 2730,2733 e 2735 c.c. e artt. 115 e 116 e altresì all’art. 112 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto non chiaramente dedotte e provate da Costruzioni V. le fattispecie di danno da risarcire oggetto della propria domanda. In ipotesi, violazione di legge, rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per incomprensibilità della motivazione in punto di pretesa irrilevanza delle produzioni istruttorie della Costruzioni V. ai fini della individuazione delle fattispecie di danno da risarcire. In ipotesi ancora ulteriore, nullità della sentenza, rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per totale difetto di motivazione sul medesimo punto.

Si duole la società ricorrente che la Corte d’appello abbia errato nel ritenere che le ragioni contrattuali non potevano essere esaminate ed accolte e che non aveva ragion d’essere la distinzione fra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale, dato che i comportamenti della stazione appaltante censurati avevano tutte le caratteristiche proprie della responsabilità per danno ingiusto, ove ricollocati in una relazione non contrattuale, e che le vicende dell’appalto erano state le sole nel cui ambito le parti erano state in relazione; le evidenze di danno (non riconducibili alla ritardata consegna dei lavori) erano state specificate già in sede del giudizio di rinvio avanti alla Corte d’appello, deciso con sentenza n. 1155/2014 e ribadite nel più recente giudizio di rinvio e nel ricorso per cassazione, alle pagine 101 – 103, che avevano causato un completo stravolgimento del programma e delle consistenze dei lavori; la Corte d’appello aveva violato l’art. 112 c.p.c., di fatto omettendo di pronunciare sulle domande risarcitorie della società ricorrente, oltre che degli artt. 115 e 116 c.p.c., e dell’art. 2967 c.c., in quanto vi era stata una inesatta e illegittima percezione del materiale probatorio e una totale obliterazione del valore confessorio della formale dichiarazione della Stazione appaltante resa con Delib. 19 febbraio 1994, n. 202, con violazione degli artt. 2730,2733 e 2735 c.c.; la Corte territoriale non aveva nemmeno motivato sulla irrilevanza delle deduzioni e delle allegazioni documentali riguardanti le domande di risarcimento dei danni non dipendenti da ritardo nella consegna dei lavori.

5. Con il quinto motivo si lamenta la violazione di legge, rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento all’art. 112 c.p.c., laddove la Corte d’appello ha ritenuto di non potere prendere in esame le contestazioni di Costruzioni V. in ordine ai difetti di collaborazione contrattuale della controparte e alle relative conseguenze dannose nell’ambito del rapporto fra le parti, assumendo la pretesa novità processuale di simili contestazioni dell’appaltatrice. Si duole la società ricorrente che la Corte territoriale aveva ritenuto che le domande risarcitorie fossero state modificate o che fossero state introdotte domande tardive, atteso che il motivo primario e comune a tutte le richieste risarcitorie era sempre stato il difetto di collaborazione nell’ambito del rapporto di appalto e il sostanziale stravolgimento degli interi contenuti del medesimo rapporto.

6. Con il sesto motivo si lamenta la violazione di legge, rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento agli artt. 61,62,191,115 e 116 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto di non disporre consulenza tecnica sui quesiti proposti da Costruzioni V. e di non disporre integrazione della consulenza tecnica sulle questioni eccepite da Costruzioni V..

Si duole la società ricorrente che la Corte fiorentina non aveva disposto l’integrazione della consulenza svolta in primo grado o una nuova consulenza, ritenendo da un lato l’inammissibilità delle domande di risarcimento dei danni derivanti da inadempienze contrattuali della stazione appaltante e l’inammissibilità delle domande di danno articolate con riferimento alla condotta priva di buona fede della ex U.S.L. n. (OMISSIS) e allo stravolgimento del rapporto da questa colpevolmente determinato e dall’altro che i quesiti formulati erano generici ed esplorativi e, quindi, irrituali, quando invece le doglianze erano sempre state riferite a fatti circostanziati e documentati, per i quali si era sempre rivolta una censura individuale, anche riprendendo il percorso argomentativo delle singole riserve riportate nelle difese e corredate, ciascuna, dei richiami alla relativa documentazione; la Corte di appello non aveva tenuto in considerazione che la controversia era pendente in ordine al risarcimento dei danni provocati dalla ex U.S.L. n. (OMISSIS) (il solo oggetto che necessitava di verifica peritale), al mancato pagamento di alcuni corrispettivi maturati nel corso dei lavori e oggetto di riserve (quelle di gruppo 3 e in parte anche alcune di quelle del gruppo 2) e al mancato pagamento di alcuni altri corrispettivi regolarmente contabilizzati e attestati nei SAL e poi non liquidati dalla Stazione appaltante.

7. Con il settimo motivo si lamenta la violazione di legge, rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento agli artt. 61,62,191,115 e 116 c.p.c., per avere la Corte d’appello ritenuto di non disporre integrazione della consulenza tecnica espletata in giudizio sulle questioni eccepite da Costruzioni V. al riguardo delle incompletezze e deficienze di contenuto della relazione dell’Ing. M. in ordine all’applicazione delle previsioni della L. n. 2248 del 1865, art. 345. In ipotesi, violazione di legge, rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per incomprensibilità della motivazione in punto di rigetto delle istanze di integrazione istruttoria della Costruzioni V. suddette. In ipotesi ancora ulteriore, nullità della sentenza, rilevante agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per totale difetto di motivazione sul medesimo punto.

Si duole la società ricorrente che il consulente tecnico d’ufficio non aveva considerato tra i lavori eseguiti anche quelli che non erano stati certificati e poi pagati dalla Stazione appaltante, per complessive vecchie Lire 140.499.843, e le domande a suo tempo tradotte in alcune delle riserve del gruppo 2 e nelle riserve del gruppo 3, tutte relative a sottostime di lavori eseguiti e/o difetto di riconoscimento di lavori eseguiti; la Corte d’appello di Firenze aveva acriticamente recepito le conclusioni del perito, senza rendersi conto che si trattava di riferimenti contabili e non giuridici, e senza procedere ad una analisi propria e compiuta della questione; la Corte d’appello non aveva, di fatto, motivato in merito alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, in rapporto alle istanze istruttorie della società Costruzioni V..

8. L’esame delle esposte censure, che vanno trattate unitariamente perché logicamente e giuridicamente connesse, non può prescindere dalle argomentazioni svolte da questa Corte, contenute nella sentenza resa tra le parti n. 15342 del 25 luglio 2016, tenendo ben presente i principi espressi in sede di legittimità in tema di giudizio di rinvio, secondo cui “in tema di ricorso avverso sentenza emessa in sede di rinvio, ove sia in discussione, in rapporto al petitum concretamente individuato dal giudice di rinvio, la portata del decisum della sentenza di legittimità, la Corte di cassazione, nel verificare se il giudice di rinvio si sia uniformato al principio di diritto da essa enunciato, deve interpretare la propria sentenza in relazione alla questione decisa e al contenuto della domanda proposta in giudizio dalla parte, con la quale la pronuncia rescindente non può porsi in contrasto” (Cass., 19 febbraio 2018, n. 3955) e secondo cui “i limiti dei poteri attribuiti al giudice di rinvio sono diversi a seconda che la pronuncia di annullamento abbia accolto il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, ovvero per vizi di motivazione in ordine a punti decisivi della controversia, ovvero per entrambe le ragioni: nella prima ipotesi, il giudice deve soltanto uniformarsi, ex art. 384 c.p.c., comma 1, al principio di diritto enunciato dalla sentenza di cassazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti acquisiti al processo; mentre, nella seconda, non solo può valutare liberamente i fatti già accertati, ma anche indagare su altri fatti, ai fini di un apprezzamento complessivo in funzione della statuizione da rendere in sostituzione di quella cassata, ferme le preclusioni e decadenze già verificatesi; nella terza, infine, la sua potestas iudicandi, oltre ad estrinsecarsi nell’applicazione del principio di diritto, può comportare la valutazione ex novo dei fatti già acquisiti, nonché la valutazione di altri fatti, la cui acquisizione, nel rispetto delle preclusioni e decadenze pregresse, sia consentita in base alle direttive impartite dalla decisione di legittimità” (Cass., 14 gennaio 2020, n. 448; Cass., 7 agosto 2014, n. 17790).

8.1 Ciò posto, il Collegio di legittimità, nella sentenza n. 15342 del 25 luglio 2016, ha statuito che:

– la sentenza non definitiva n. 1431/2005 della Corte d’appello, come emergeva dalla sentenza di cassazione n. 8960/2010, aveva rigettato tra l’altro la domanda dell’impresa di risoluzione del contratto per inadempimento della stazione appaltante, e tale statuizione aveva travolto quella consequenziale degli arbitri relativa all’inefficacia della Delibera di risoluzione del contratto ai sensi della L. n. 2248 del 1865, art. 345 (all. F);

– era, dunque, rimasta ferma e operante la (sola) risoluzione consentita su iniziativa della committenza, ed essa soltanto aveva provocato la definitiva caducazione del contratto e la sostituzione della disciplina dei corrispettivi predisposta dai contraenti, riguardanti i compensi aggiuntivi conseguibili mediante le riserve, con quella normativamente stabilita, ovvero il “pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell’importo delle opere non eseguite”;

– la sentenza non definitiva aveva comportato l’annullamento anche dei capi del lodo relativi alle riserve, che avrebbero potuto trovare giustificazione soltanto nella esecuzione dell’appalto; le riserve non potevano essere scisse dalla sorte del contratto, il quale era stato caducato ai sensi della L. n. 2248 del 1865, art. 345 e, dunque, non era stato eseguito, sicché al giudizio rescissorio era stata consegnata la sola funzione di esaminare le eventuali pretese risarcitorie dell’impresa che non avessero avuto titolo nella ritardata consegna dei lavori;

– l’impresa, come ancora una volta emergeva dalla sentenza n. 8960/2010 della Corte di Cassazione, non aveva esercitato, nell’ottica dell’art. 10 del capitolato ex D.P.R. n. 1063 del 1962, la facoltà di recesso, sicché alla stessa “era precluso sia di chiedere (..) la risoluzione del contratto per inadempimento del committente ravvisato nella mancata o frazionata consegna dei lavori (..)”, sia di “avanzare richieste risarcitorie per i maggiori oneri dipendenti dal ritardo con cui la stessa era stata eseguita”;

– conclusivamente, in base alla sentenza non definitiva: era da escludere la spettanza all’impresa di poste a titolo di riserve; non era invece da escludere e imponeva ulteriori accertamenti la spettanza di poste a diverso titolo risarcitorio, ove del risarcimento ricorressero gli estremi e purché si fosse trattato di poste non correlate alla questione afferente la consegna dei lavori;

– la Corte d’appello, in sede di rinvio, aveva ripercorso alcune delle riserve dell’appaltatore (per l’esattezza diciassette riserve) affermando di condividere quanto al riguardo ritenuto dal consulente tecnico d’ufficio, nel rilievo che si trattava di pretese risarcitorie non considerabili sotto il profilo indennitario, della L. n. 2248 del 1865, ex art. 345, né ricollegabili a ritardi nella consegna dei lavori, ma, nel rassegnare siffatta conclusione, la Corte d’appello aveva mancato di indicare a quale concreto fatto, costituente inadempimento di precisi obblighi diversi dalla consegna dei lavori, ovvero integrante sotto altro profilo l’illecito civile, le poste risarcitorie avrebbero dovuto essere ascritte onde poter essere imputate alla stazione appaltante;

– la Corte territoriale, operando una valutazione diretta delle riserve, sotto mentite spoglie di risarcimenti, aveva in pratica riconosciuto all’appaltatore ciò che egli non avrebbe potuto vantare proprio a causa dell’avvenuta risoluzione del contratto ritenuta, ai sensi della L. n. 2248 del 1865, art. 345, dalla sentenza non definitiva, violando il giudicato da essa discendente;

– poiché il risarcimento postula sempre un danno-conseguenza imputabile, il punto decisivo della causa era se esistesse, a monte delle pretese avanzate dall’appaltatore, un distinto fatto, costituente inadempimento della stazione appaltante, cui associare gli evocati risarcimenti: fatto storico sul quale il giudice di merito avrebbe dovuto incentrare la motivazione, ma rispetto a tale fatto la motivazione dell’impugnata sentenza era a tal punto carente da risultare omessa;

– sussisteva anche il vizio di falsa applicazione, in sostanziale elusione del giudicato di cui alla sentenza non definitiva, delle norme afferenti il risarcimento del danno, i cui elementi costitutivi, in aggiunta a quanto già pagato dalla stazione appaltante a titolo indennitario, presupponevano l’onere della prova in capo all’appaltatore.

8.2 Dalle superiori argomentazioni deriva che:

– era da escludere la spettanza all’impresa di poste a titolo di riserve, perché le riserve non potevano essere scisse dalla sorte del contratto, il quale era stato caducato ai sensi della L. n. 2248 del 1865, art. 345 e, dunque, non era stato eseguito;

– essendo venuto meno il titolo contrattuale a seguito del recesso esercitato dall’Amministrazione, l’impresa nulla poteva pretendere a titolo di richieste risarcitorie per i maggiori oneri derivanti dal ritardo con cui la consegna dei lavori era stata eseguita, non avendo la stessa esercitato, ex art. 10 del capitolato ex D.P.R. n. 1063 del 1962, la facoltà di recesso (ed infatti, il riconoscimento all’appaltatore di un diritto al risarcimento può venire in considerazione solo se egli abbia preventivamente esercitato tale facoltà di recesso, dovendosi altrimenti presumere che abbia considerato ancora eseguibile il contratto, senza ulteriori oneri a carico della stazione appaltante, cfr. Cass. 29 ottobre 2015, n. 22112; Cass., 14 dicembre 2017, n. 30120);

– era rimasta ferma e operante la risoluzione consentita su iniziativa della committenza, che aveva avuto come duplice effetto quello di avere provocato la definitiva caducazione del contratto e quello della sostituzione della disciplina dei corrispettivi predisposta dai contraenti, riguardanti i compensi aggiuntivi conseguibili mediante le riserve, con quella normativamente stabilita, ovvero il “pagamento dei lavori eseguiti e del valore dei materiali utili esistenti in cantiere, oltre al decimo dell’importo delle opere non eseguite”.

In conclusione, gli ulteriori accertamenti riguardanti la spettanza di poste a diverso titolo risarcitorio potevano riguardare tutti quei fatti, produttivi di danno, che da un lato non avessero la loro fonte nel contratto di appalto, caducato in ragione dell’esercizio di recesso esercitato dall’Amministrazione della L. n. 2248 del 1865, ex art. 345, e che dall’altro lato non fossero danni correlati alla questione afferente la consegna dei lavori.

8.3 Al riguardo è utile richiamare la sentenza di questa Corte n. 8960 del 2010, che, a pag. 21, aveva espressamente affermato che spettava esclusivamente alla Corte di appello, in sede di rinvio, “stabilire se e quali poste siano dovute all’impresa fra quelle indicate dalla sentenza non definitiva, anche in relazione alla deliberata (ed ormai definitiva) risoluzione del contratto D.P.R. n. 1062 cit., ex art. 345, ed alla disciplina prevista da detta norma” e la sentenza in questa sede impugnata che, a pag. 6, ha precisato che “Nelle more della citata conferma deliberata dalla Corte di Cassazione verso la sentenza non definitiva, la Corte d’appello aveva intanto disposto una consulenza tecnica d’ufficio, nella persona dell’ing. M. al fine di accertare i danni subiti dall’appaltatore a seguito del recesso unilaterale operato dalla committente”, ciò volendo significare che le pretese risarcitorie azionabili dalla società Costruzioni V. s.r.l. erano sicuramente correlate al recesso esercitato dall’Amministrazione, senza tuttavia escludere altri fatti costitutivi, la cui prova, tuttavia, incombeva alla stessa società, nella corretta applicazione dei criteri di ripartizione stabiliti dall’art. 2697 c.c..

8.4 E’ utile ricordare, in proposito, che, in tema di appalto di lavori pubblici, il recesso “ad nutum” del committente, previsto dalla L. n. 2248 del 1865, art. 345, all. F, è espressione di un diritto potestativo il cui esercizio può avere luogo in qualsiasi momento e non richiede particolari presupposti o motivi, restando tuttavia l’amministrazione tenuta a pagare i lavori già eseguiti in base all’appalto, e avendo l’appaltatore il diritto di ottenere, in aggiunta, il risarcimento del danno calcolato sull’ammontare dell’utile conseguibile secondo il criterio presuntivo previsto da detta norma (Cass., 17 ottobre 2018, n. 26009). Questa Corte, al riguardo, ha precisato che la legge in questo modo impone che il pagamento sia correlato ai lavori che risultino eseguiti in base all’appalto e nel contesto di esso e che un distinto criterio di determinazione del credito dell’appaltatore non è previsto, neppure implicitamente, dalla legge (Cass. 2 ottobre 2014, n. 20811) e che il recesso può legittimamente avvenire anche nelle ipotesi di sospensione dei lavori disposta dalla p.a. fuori dai casi previsti dalla legge e solo per ovviare al proprio comportamento negligente – ovvero per errori di progettazione e di previsioni non integranti ragioni di pubblico interesse o necessità esimenti da responsabilità e che in tali situazioni l’amministrazione, se non provveda alla risoluzione unilaterale del contratto ai sensi della L. n. 2248 del 1865, art. 345, all. F, è tenuta, perdurando la ingiustificata sospensione, a risarcire i danni subiti dall’appaltatore (Cass., 21 giugno 2007, n. 14510; Cass., 8 giugno 2007, n. 13509).

Il Consiglio di Stato ha, poi, ritenuto che il lucro cessante di cui qui si discute, vale a dire l’utile economico che sarebbe derivato dall’esecuzione dell’appalto in caso di aggiudicazione non avvenuta per illegittimità dell’azione amministrativa – generalmente reputato pari al 10% del valore dell’appalto, criterio cui fa riferimento la giurisprudenza in applicazione analogica della L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 345, all. F, sulle opere pubbliche, ora sostanzialmente riprodotto dall’art. 122 del regolamento emanato con D.P.R. n. 554 del 1999, che quantifica in tale misura il danno risarcibile a favore dell’appaltatore in caso di recesso della P.A. (ciò sia allo scopo di ovviare ad indagini alquanto difficoltose ed aleatorie sia allo scopo di cautelare la P.A. da eventuali richieste di liquidazioni eccessive) – spetta nella sua interezza, ovvero nella misura del 10%, qualora l’impresa possa documentare di non aver potuto utilizzare le maestranze ed i mezzi, lasciati disponibili, per l’espletamento di altri servizi. Nel caso in cui, invece, tale dimostrazione non sia stata offerta è da ritenere che l’impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri analoghi lavori o di servizi o di forniture (anche per servizi e forniture essendo ritenuti estensibili i criteri ora detti), così vedendo in parte ridotta la propria perdita di utilità; in tale ipotesi il risarcimento può essere ridotto in via equitativa, in misura pari al 5% dell’offerta dell’impresa (cfr. Consiglio di Stato, 9 gennaio 2009, n. 23; Consiglio di Stato, 27 settembre 2004, n. 6302; Consiglio di Stato, 8 luglio 2002, n. 3796; Consiglio di Stato, 18 novembre 2002, n. 6393).

8.5 La Corte territoriale, alla luce dei principi richiamati, ha fatto corretta applicazione del principio di diritto statuito da questa Corte

nella sentenza n. 15342 del 2016, poiché dopo avere individuato gli accertamenti e le decisioni non più suscettibili di riesame o di revisione, coperte dal giudicato, ha delineato l’ambito di cognizione nell’allegazione e nella prova da parte della V. Costruzioni s.r.l. di fatti e condotte della U.S.L. integranti fatti illeciti, estranei a questioni legate a presunti inadempimenti contrattuali, tali da cagionare, per colpa o dolo, un danno ingiusto e dunque da obbligare l’autore al risarcimento del danno, affermando che non potevano trovare ingresso le domande formulate dalla V. Costruzioni s.r.l. correlate alle “gravi negligenze e mancanza di cooperazione e buona fede che causarono lo stravolgimento dell’intero appalto” che avevano di fatto ostacolato la corretta realizzazione delle opere e il rispetto dei termini di consegna inizialmente stabiliti e che la società aveva rivendicato varie pretese risarcitorie per i danni subiti con riferimento alle riserve già ampiamente richiamate (circostanza espressamente esclusa da questa Corte, nella sentenza n. 15342/2016, in ragione della caducazione del vincolo contrattuale), indicando riserve risarcitorie per la ridotta attività del cantiere, riserve risarcitorie inerenti le conseguenze pregiudizievoli degli inadempimenti della stazione appaltante e della risoluzione anticipata del contratto promossa in danno della medesima (gruppo 2); riserve contabili per opere sottostimate dalla direzione dei lavori sullo stato di avanzamento finale dei lavori (gruppo 3); riserva di aggiornamento della valutazione delle basi di computo delle richieste dell’appaltatrice (gruppo 4) e riserva di danno per provocato dissesto finanziario dell’impresa appaltatrice (gruppo 4), oltre che una riserva in relazione alle variazioni apportate dal collaudatore sul valore del 10% risarcibile rispetto a quello indicato dalla direzione dei lavori; che le ragioni della richiesta risarcitoria erano state ampiamente collegate allo “stravolgimento esecutivo ed organizzativo del rapporto di appalto” e che le ragioni di diritto erano state riferite alle gravi negligenze od alle mancanze di cooperazione e di buona fede imputabili alla stazione appaltante, che era venuta meno agli obblighi di programmazione e tempestiva soluzione delle problematiche emerse, impedendo di fatto all’impresa il proseguimento dei lavori.

I giudici di secondo grado hanno, dunque, evidenziato che la V. Costruzioni s.r.l. non aveva adempiuto all’onere probatorio sulla stessa incombente, avendo formulate domande ambigue e mai precisate o distinte, sotto il profilo genetico tra condotte contrattuali o extracontrattuali, oltre che astrattamente affidate all’esperimento dell’attività peritale e che le voci risarcitorie dedotte attenevano a questioni finanziarie legate allo svolgimento del rapporto contrattuale e, quindi, avevano come premessa l’accertamento della condotta inadempiente, o, se poste fuori dal negozio, erano prive di qualsivoglia fondamento probatorio.

La Corte territoriale ha, infine, sottolineato che l’unico accertamento che rimaneva da espletare, era quello diretto a verificare se e in che misura, alla data del recesso operato dalla U.S.L. ai sensi del R.D. n. 2248 del 1865, art. 345 (all. F). vigente all’epoca dei fatti, erano state versate all’appaltatore tutte le somme dovute in relazione all’intero complesso dei lavori eseguiti e che, tuttavia, la V. Costruzioni s.r.l. non aveva fornito alcuna prova in ordine al riutilizzo o meno di mezzi e manodopera per lo svolgimento di altri analoghi lavori o servizi o forniture, prova ritenuta necessaria, al fine di riconoscere l’obbligo di pagamento dei lavori eseguiti e il valore dei materiali utili esistenti nel cantiere, oltre al decimo dell’importo delle opere non eseguiti previsto dall’art. 345 citato.

8.6 Non vi è stata, dunque, alcuna violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., che si configura soltanto nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia ritenuto assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., 5 settembre 2006, n. 19064; Cass., 10 febbraio 2006, n. 2935).

8.7 E nemmeno una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., che non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito come sostanzialmente dedotto nella specie – ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass., 17 gennaio 2019, n. 1229).

8.8 Ne’ sussiste il dedotto vizio di mancanza della motivazione, che, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, va apprezzata, quale causa di nullità della sentenza, tanto nei casi di sua radicale carenza, quanto nelle evenienze in cui la stessa si dipani in forme del tutto inidonee a rivelare la ratio decidendi posta a fondamento dell’atto, poiché intessuta di argomentazioni fra loro logicamente inconciliabili, perplesse od obiettivamente incomprensibili. In ogni caso, si richiede che tali vizi emergano dal testo del provvedimento, restando esclusa la rilevanza di un’eventuale verifica condotta sulla sufficienza della motivazione medesima rispetto ai contenuti delle risultanze probatorie (Cass., 18 settembre 2009, n. 20112; Cass., Sez. U. 22 settembre 2014, n. 19881), mentre, nel caso in esame, la motivazione dettata dalla Corte territoriale a fondamento della decisione impugnata e’, non solo esistente, bensì anche articolata in modo tale da permettere di ricostruirne e comprenderne agevolmente il percorso logico (secondo quanto in precedenza diffusamente rilevato), integrando gli estremi di un discorso giustificativo logicamente lineare e comprensibile, elaborato nel pieno rispetto dei canoni di correttezza giuridica e di congruità logica, come tale del tutto idoneo a sottrarsi alle censure in questa sede illustrate dai ricorrenti.

E ciò anche avuto riguardo alle censure riguardanti la consulenza tecnica d’ufficio, dovendosi ribadire, sul punto, il principio statuito da questa Corte secondo cui “In tema di consulenza tecnica d’ufficio, rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative, di sentire a chiarimenti il consulente sulla relazione già depositata ovvero di rinnovare, in parte o “in toto”, le indagini, sostituendo l’ausiliare del giudice” e che “L’esercizio di tale potere non è sindacabile in sede di legittimità, ove ne sia data adeguata motivazione, immune da vizi logici e giuridici” (Cass., 24 gennaio 2019, n. 2103; Cass., 30 marzo 2010, n. 7622; Cass., 14 novembre 2008, n. 27247).

8.9 Dal che consegue il rigetto del ricorso principale.

9. Il ricorso incidentale della Gestione Liquidatoria della ex U.S.L. n. (OMISSIS), affidato ad un unico motivo, con il quale si lamenta la nullità per violazione del giudicato interno (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4); la nullità per violazione e/o falsa applicazione della legge con riferimento all’art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3); la violazione e/o falsa applicazione del R.D. 25 maggio 1895, n. 350, artt. 53, 54 e 64 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e comunque l’omessa e/o insufficiente motivazione sotto il profilo della perplessità, della lacunosità, dell’incongruità e del travisamento dei fatti, sul punto decisivo della controversia, in quanto ricorso incidentale condizionato, deve ritenersi assorbito.

10. Per le ragioni di cui sopra, il ricorso principale va rigettato, con assorbimento del ricorso incidentale; la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale; condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Ai sensi dell’art. 132 c.p.c., comma 3, stante l’impedimento dell’estensore a causa della emergenza epidemiologica da COVID-19, sottoscrive il solo Presidente.

Così deciso in Roma, il 19 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2022

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