Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6084 del 04/03/2020

Cassazione civile sez. II, 04/03/2020, (ud. 16/10/2019, dep. 04/03/2020), n.6084

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16692/2015 proposto da:

D.N., elettivamente domiciliato in Roma, Via Beniamino

De Ritis 18, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO DI LISA e

rappresentato e difeso dall’avvocato ALFREDO IACONE per procura

speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

T.E., rappresentato e difeso dall’Avvocato PIETRO

CHICHIARELLI, presso il cui studio in Avezzano, via Muzio Febonio

36, elettivamente domicilia, per procura speciale in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4/2015 della CORTE D’APPELLO DI L’AQUILA,

depositata il 5/1/2015;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del

16/10/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO;

sentito il Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto

Procuratore Generale della Repubblica Dott. PATRONE Ignazio, il

quale ha concluso per il rigetto del ricorso;

sentito, per il ricorrente, l’Avvocato DOMENICO DI LISA;

sentito, per il controricorrente, l’Avvocato PIETRO CHICHIARELLI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

T.E., con atto di citazione notificato il 30/12/2009, ha convenuto in giudizio, innanzi al tribunale di Avezzano, D.N. e D.B. chiedendo che fosse accertato il suo acquisto, per usucapione, della proprietà di un fondo sito in (OMISSIS), distinto in catasto terreni al f. (OMISSIS), p.lla (OMISSIS).

Il tribunale, con sentenza del 31/12/2012, ha rigettato la domanda.

L’attore ha proposto appello al quale i convenuti hanno resistito.

La corte d’appello di L’Aquila, con la sentenza in epigrafe, in accoglimento dell’appello proposto, ha dichiarato che l’immobile controverso è di proprietà dell’attore per essere stato usucapito, a norma dell’art. 1158 c.c., in virtù di possesso ultraventennale.

La corte, in particolare, dopo aver dato atto che gli appellati avevano eccepito l’inammissibilità dell’appello per carenza dei requisiti previsti dall’art. 342 c.p.c., ha osservato: – innanzitutto, che, una volta dimostrato il possesso del bene, spetta ai proprietari, onde impedirne l’acquisto per usucapione, dimostrare che il possesso è stato esercitato a titolo diverso da quello utile ad usucapionem; – in secondo luogo, che la coltivazione di un fondo, in modo pubblico, pacifico, continuo e ininterrotto per i venti anni richiesti dall’art. 1158 c.c., può ben configurare lo ius possessionis mentre l’animus possidendi è desumibile in via presuntiva ed implicita dall’esercizio dell’attività materiale corrispondente al diritto di proprietà.

Ciò posto, la corte ha ritenuto che, alla luce delle testimonianze raccolte, esaminate nella loro globalità e ponderate singolarmente, unitamente all’esito dell’interpello dell’attore, può ragionevolmente affermarsi la ricorrenza degli elementi di fatto che fondano la domanda proposta dall’attore.

Innanzitutto, ha osservato la corte, dalle testimonianze risulta il fatto storico che il terreno è stato costantemente e continuativamente posseduto dall’attore in modo pacifico e pubblico per oltre vent’anni, dimostrando, in tal modo, la signoria di fatto che l’appellante ha esercitato sul terreno in questione non solo attraverso un’attività continuativa di coltivazione dello stesso ma anche a mezzo della sua concessione in affitto in favore di tale V.. Tale circostanza, in particolare, ha aggiunto la corte, rende ancora più significativa la prova del possesso uti dominus in capo all’appellante, dimostrando l’animus di chi si comporta come suo legittimo proprietario “concedendo il terreno in uso a terzi per ottenere una controprestazione in cambio di utilità anche sul terreno stesso”. E ciò, ha proseguito la corte, risulta ancor di più avvalorato dall’ulteriore circostanza che l’affitto non ha riguardato solo il terreno in oggetto, ma anche i terreni di proprietà dell’attore, con i quali, anzi, formano un corpo unico: “segno che egli si è comportato con il terreno in questione esattamente come si è comportato con i terreni di sua proprietà”.

Di contro, ha chiosato la corte, l’unico testimone del convenuto deve essere considerato come inaffidabile, avendo inizialmente dichiarato di essere indifferente per poi rettificare la sua dichiarazione precisando di essere il marito della figlia del convenuto D.N..

Escluso, poi, ogni rilievo alla riunione del possesso dell’attore con quello del padre risultando dalle circostanze testimoniali abbondantemente consumato il ventennio ed oltre in capo all’attore, la corte ha ritenuto, per un verso, che lo svolgimento da parte del T. del lavoro di ferroviere non si pone come circostanza soggettiva di contrasto con l’esercizio del possesso nei termini esposti e, per altro verso, che sono irrilevanti gli ipotetici comportamenti materiali ed amministrativi che l’attore avrebbe dovuto compiere, come pagare le imposte sul terreno o provvedere alla sua recinzione, a fronte del raggiungimento della ragionevole prova in ordine alla relazione materiale continuativa, intensa ed esclusiva, da parte dell’appellante, sul terreno in questione.

D.N., con ricorso notificato il 23/6/2015, ha chiesto, per due motivi, la cassazione della sentenza resa dalla corte d’appello, dichiaratamente non notificata.

Ha resistito, con controricorso notificato in data 28/8/2015, T.E. il quale ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 342 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non si è pronunciato sull’eccezione d’inammissibilità dell’appello a norma degli artt. 342 e 348 bis c.p.c., che lo stesso, in qualità di appellato, aveva sollevato nel giudizio di secondo grado.

1.2. La corte d’appello, infatti, ha osservato il ricorrente, pur avendo dato atto che gli appellati avevano eccepito l’inammissibilità dell’appello per carenza dei requisiti previsti dall’art. 342 c.p.c., ha omesso, in violazione dell’art. 112 c.p.c., di esaminare e di pronunciarsi su tale eccezione.

1.3. La corte d’appello, al contrario, ha l’obbligo di valutare la conformità dell’atto d’appello alla norma prevista dall’art. 342 c.p.c. e darne conto nella motivazione della sentenza. E tale omissione, ha concluso il ricorrente, comporta, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, la conseguente nullità della sentenza.

1.4. Il motivo è infondato. Intanto, non ricorre, in generale, il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata dal giudice di merito comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte (Cass. n. 20718 del 2018). Nel caso di specie, la corte territoriale, avendo deciso l’accoglimento dell’appello, ha implicitamente ma inequivocamente rigettato l’eccezione, che gli appellati avevano sollevato, d’inammissibilità del gravame, in ordine alla quale, pertanto, non è predicabile il vizio d’omessa pronuncia. Peraltro, il mancato esame da parte del giudice, sollecitatone dalla parte, di una questione puramente processuale, come quella dell’inammissibilità dell’appello proposto, non può dar luogo al vizio d’omessa pronunzia, il quale, in effetti, è configurabile con esclusivo riferimento alle domande di merito e non può assurgere, pertanto, a causa autonoma di nullità della sentenza, potendo profilarsi al riguardo una nullità (propria o derivata) della decisione – nella specie, però, non invocata – per la violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., in quanto sia errata la soluzione implicitamente data dal giudice alla questione sollevata dalla parte (Cass. n. 7406 del 2014; Cass. n. 14276 del 2017). Del resto, ove il ricorrente censuri la statuizione, sia pur implicita, di ammissibilità di un motivo d’appello che, invece, era privo del requisito di specificità, ha l’onere di specificare, in ricorso, non solo le ragioni per cui ritiene erronea tale (sia pur implicita) statuizione del giudice di appello, ma deve anche riportare il contenuto del motivo di gravame sottoposto a quel giudice nella misura necessaria ad evidenziarne il preteso difetto di specificità, senza potersi limitare a tal fine a rinviare all’atto di appello: ciò che, nel caso in esame, non è accaduto.

2.1. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1158 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che dalle testimonianze raccolte era risultato il fatto storico che il terreno era stato costantemente e continuativamente posseduto dall’attore in modo pacifico e pubblico per oltre vent’anni.

2.2. In realtà, ha osservato il ricorrente, i testimoni non hanno mai dichiarato che l’attore aveva posseduto il terreno in modo esclusivo per vent’anni nè hanno precisato a quale titolo si recavano insieme all’attore sul fondo e per quanto tempo.

2.3. La sentenza impugnata, per contro, ha aggiunto il ricorrente, non dà conto del modo in cui sia stata superata l’assenza di certezza in ordine al requisito temporale richiesto dall’art. 1158 c.c. ed alla sua necessaria continuità.

2.4. La presunzione di possesso prevista dall’art. 1141 c.c., ha proseguito il ricorrente, richiede l’esercizio di un potere di fatto sulla cosa continuato ed ultraventennale che, al contrario, non può essere ravvisato nel caso, come quello di specie, in cui la cosa è stata oggetto di un uso sporadico. L’art. 1158 c.c., infatti, richiede che l’attività del possessore non sia sporadica ma diretta in modo non dubbio all’esercizio reale e continuato del diritto di proprietà con animus domini. La coltivazione del fondo, non esprimendo in modo inequivocabile l’intento del coltivatore di possedere, non è, quindi, a tal fine sufficiente, essendo necessario che tale attività sia accompagnata da indizi i quali consentano di presumere che la stessa sia svolta uti dominus.

2.5. La sentenza, inoltre, ha proseguito il ricorrente, non ha tenuto conto del fatto che il V. non ha mai riferito di aver avuto con l’attore un rapporto d’affitto, come sostenuto dalla corte d’appello, essendosi limitato ad affermare di aver coltivato alcuni terreni dell’attore e di aver ricambiato l’attore mediante il conferimento di beni in natura. Il fatto che altri abbiano coltivato il fondo dimostra il disinteresse al possesso da parte dell’attore e, quindi, contrasta con la sussistenza in capo allo stesso dell’animus possidendi e del possesso continuato ed ininterrotto del bene.

2.6. La corte d’appello, poi, ha dichiarato in modo illogico ed ingiustificato come inaffidabile il teste indicato dal convenuto.

2.7. La sentenza impugnata, in definitiva, ha concluso il ricorrente, non ha compiuto un esame effettivo nè ha dato conto della sussistenza dei requisiti per l’applicazione dell’usucapione in capo all’attore, ma li ha presunti, ed ha, quindi, da violato l’art. 1158 c.c..

2.8. Il motivo è infondato. In effetti, quando è dimostrato il potere di fatto, pubblico e indisturbato, esercitato sulla cosa per il tempo necessario ad usucapirla, ne deriva, a norma dell’art. 1141 c.c., comma 1, la presunzione che esso integri il possesso, con la conseguenza che incombe alla parte, che invece correla detto potere alla detenzione, provare il suo assunto, in mancanza dovendosi ritenere l’esistenza della prova della possessio ad usucapionem (Cass. n. 26984 del 2013, la quale, in applicazione del principio affermato, ha riconosciuto nella coltivazione di un terreno, con messa a dimora di piante, l’esercizio di un potere di fatto sulla cosa corrispondente a quello del proprietario, ponendo perciò a carico del convenuto l’onere di dimostrare la mera detenzione). D’altra parte, anche a voler ammettere che, come ha ritenuto Cass. n. 18215 del 2013, ai fini della prova degli elementi costitutivi dell’usucapione, la coltivazione del fondo non è sufficiente in quanto, di per sè, non esprime, in modo inequivocabile, l’intento del coltivatore di possedere, resta pur sempre il fatto che, secondo la stessa pronuncia, tale attività materiale corrisponde all’esercizio del diritto di proprietà tutte le volte in cui sia accompagnata da indizi, i quali consentano di presumere che essa è svolta uti dominus: come, in effetti, è accaduto nel caso di specie. La corte d’appello, infatti, a seguito della valutazione delle prove raccolte in giudizio, ha ritenuto che il terreno in questione è stato costantemente e continuativamente posseduto dall’attore in modo pacifico e pubblico per oltre vent’anni, come dimostrato non solo dalla coltivazione dello stesso ma anche dalla sua concessione in affitto in favore di terzi: e tale circostanza, in particolare, ha osservato la corte, rende ancora più significativa la prova del possesso uti dominus in capo all’appellante, dimostrando l’animus di chi si comporta come suo legittimo proprietario “concedendo il terreno in uso a terzi per ottenere una controprestazione in cambio di utilità anche sul terreno stesso”. E ciò, ha aggiunto la corte, risulta ancor di più avvalorato dall’ulteriore circostanza che l’affitto non ha riguardato solo il terreno in oggetto ma anche i terreni di proprietà dell’attore, con i quali, anzi, formano un corpo unico: “segno che egli si è comportato con il terreno in questione esattamente come si è comportato con i terreni di sua proprietà”. Quanto al resto, non può che rilevarsi come il ricorrente, pur invocando la violazione di una norma di legge, pretende, in realtà, una diversa valutazione da parte della Corte dei fatti di causa. L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono, invece, apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017). Il compito di questa Corte, in effetti, non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), dovendo, invece, limitarsi a controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.): che è, in effetti, quanto accaduto nel caso in esame. La corte d’appello, invero, dopo aver valutato i documenti e le prove testimoniali raccolte in giudizio, ha, in modo logico e coerente, indicato le ragioni per le quali ha ritenuto, in fatto, che l’attore aveva costantemente e continuativamente posseduto il terreno in questione in modo pacifico e pubblico per oltre vent’anni.

3. Il ricorso dev’essere, quindi, rigettato.

4. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

5. La Corte, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 16 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2020

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