Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6067 del 24/02/2022
Cassazione civile sez. trib., 24/02/2022, (ud. 30/11/2021, dep. 24/02/2022), n.6067
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –
Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. CATALLOZZI Paolo – rel. Consigliere –
Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –
Dott. PIRARI Valeria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 24731/2013 R.G. proposto da:
Fashion s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,
rappresentata e difesa dagli avv. Leone e Armando Pontecorvo, con
domicilio eletto presso il loro studio, sito in Roma, via Francesco
Crispi, 89;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,
rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso
la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
– intimato –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio,
n. 179/28/13, depositata il 30 luglio 2013.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 30 novembre
2021, tenutasi nelle forme previste dal D.L. 28 ottobre 2020, n.
137, art. 23, comma 8 bis, conv., con modif., nella L. 18 dicembre
2020, n. 176, dal Consigliere Paolo Catallozzi;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero in persona del Sostituto
Procuratore Soldi Anna Maria, che ha concluso chiedendo il rigetto
del ricorso.
Fatto
FATTI DI CAUSA
1. La Fashion s.r.l. propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 30 luglio 2013, che, in accoglimento dell’appello erariale, ha dichiarato la legittimità dell’avviso di accertamento con cui l’Ufficio aveva rettificato la dichiarazione resa della contribuente per l’anno 2003.
Dall’esame della sentenza impugnata si evince che con tale atto era stata contestata l’erronea qualificazione di un’operazione di cessione di beni e servizi quale cessione di azienda ed erano state recuperate le maggiori imposte dirette, assolte solo nella misura corrispondente all’imposta sostitutiva, e i.v.a., non versata sul presupposto della non imponibilità dell’operazione.
2. Il giudice di appello, esclusa l’eccepita decadenza dal potere impositivo, ha ritenuto che il contratto andava qualificato quale contratto di locazione e non quale cessione di ramo di azienda, avuto riguardo al suo oggetto e al suo scopo economico sociale.
3. Il ricorso è affidato a cinque motivi.
4. L’Agenzia delle Entrate non spiega alcuna difesa.
5. La ricorrente deposita due memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 57, commi 1 e 3, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 43, commi 1 e 3, art. 331 c.p.p., D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 4,D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 6, comma 1, e D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 1, dell’art. 112 c.p.c., nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, per aver la sentenza ritenuto sussistenti i presupposti per il raddoppio dell’ordinario termine per l’esercizio della potestà impositiva, benché l’obbligo della denuncia penale sia sorto dopo lo spirare di tale termine.
1.1. Il motivo è infondato.
Il D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 24, integrando del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, il comma 3 ha stabilito che in caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 331 c.p.p. per uno dei reati previsti dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, gli ordinari termini di decadenza per l’accertamento sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione.
Del medesimo D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 25, introduce analoga disposizione in materia di i.v.a., previa modifica del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57.
Tali disposizioni trovano applicazione al caso in esame, benché relativo a periodo di imposta antecedente l’entrata in vigore delle richiamate disposizioni, in quanto, ai sensi del menzionato art. 37, comma 26 il raddoppio dei termini si applica dal periodo d’imposta per il quale, alla data di entrata in vigore del decreto-legge, siano ancora pendenti i termini ordinari per l’accertamento, per cui interessa anche il caso in esame relativo ad un avviso di accertamento emesso in relazione al periodo di imposta 2003 (cfr., in tema, Cass., ord., 13 settembre 2018, n. 22337; Cass. 16 dicembre 2016, n. 26037).
Non vengono, invece, in rilievo, le modifiche introdotte, dapprima, dal D.Lgs. 3 agosto 2015, n. 128, art. 2, commi 1 e 2, che ha circoscritto il raddoppio dei termini di accertamento per violazioni penali solo ai casi in cui la denuncia è effettivamente presentata e trasmessa all’autorità giudiziaria entro il termine ordinario di decadenza dal potere di accertamento, quindi, dalla L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, commi da 130 a 132, che hanno, tra le altre disposizioni, eliminato la fattispecie del raddoppio dei termini ordinari.
Infatti, quanto alla prima modifica, in virtù dell’apposita norma di salvaguardia prevista dal D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2 la stessa non si applica alle violazioni punibili constatate in processi verbali notificati prima del 2 settembre 2015 e seguite dalla notifica di atti impositivi entro il 31 dicembre 2015, quali sono quelle in oggetto, in cui la notifica dell’avviso di accertamento è intervenuta in data 12 giugno 2012.
Quanto alla ulteriore modifica, il regime transitorio previsto dalla I.n. 208 del 2015 per i periodi d’imposta anteriori a quello in corso al 31 dicembre 2016 – secondo cui il raddoppio dei termini di accertamento, quali stabiliti dal secondo periodo del comma 132, opera, nel caso delle indicate violazioni penali, solo a condizione che la denuncia penale sia presentata o trasmessa dall’amministrazione finanziaria entro il termine stabilito nel primo periodo del medesimo comma 132 – riguarda solo le fattispecie non regolate dal precedente regime transitorio, cioè i casi in cui non sia stato notificato un atto impositivo (o di irrogazione di sanzioni) entro il 2 settembre 2015, in quanto, ai sensi del D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 3, comma 2, sono comunque fatti salvi gli effetti degli avvisi di accertamento, dei provvedimenti che irrogano sanzioni amministrative tributarie e degli altri atti impugnabili con i quali l’Agenzia delle entrate fa valere una pretesa impositiva o sanzionatoria, notificati alla data di entrata in vigore di tale decreto.
1.2. Ciò posto, secondo la disciplina applicabile al caso in esame, il raddoppio dei termini deriva dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna (cfr., altresì, Cass., ord., 30 maggio 2016, n. 11171).
Infatti, come, evidenziato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 247 del 25 luglio 2011, l’unica condizione per il raddoppio dei termini è costituita dalla sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento, sicché “il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento”.
Pertanto, la circostanza allegata dalla contribuente secondo cui l’obbligo di denuncia sarebbe sorto in epoca successiva allo spirare del termine ordinario per l’esercizio della potestà impositiva non assume rilevanza ai fini che qui interessano.
2. Con il secondo motivo la società censura, nella sostanza, la violazione delle medesime disposizioni di legge, nella parte in cui la Commissione regionale ha ritenuto sussistenti i presupposti per il raddoppio dell’ordinario termine per l’esercizio della potestà impositiva, senza verificare se l’Amministrazione finanziaria avesse offerto la prova che i fatti accertati integrassero gli estremi dei seri indizi di reato.
2.1. Il motivo è infondato.
Come osservato in precedenza il raddoppio del termine ordinario opera indipendentemente dall’effettiva presentazione della denunzia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo; ciò, tuttavia, non rende di per sé legittimo qualunque accertamento compiuto dall’Amministrazione finanziaria oltre tale termine legge, dovendo al contrario essere evitato, come chiarito dalla Corte costituzionale nella menzionata sentenza n. 247 del 2011, un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni in esame al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento.
A tal fine il giudice tributario deve controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità.
Il correlativo tema di prova e’, tuttavia, circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato.
Dai riferiti principi discende che il contribuente, ove voglia contestare l’accertamento compiuto oltre il termine ordinario, deve denunciare la carenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia (cfr. Cass. 2 luglio 2000, n. 13481).
Orbene, nel caso in esame, si evidenzia, da un lato, che la Commissione regionale ha correttamente ritenuto che i “fatti di evasione fiscale d’importante rilievo economico” emersi dall’accertamento dell’Ufficio sono idonei, in astratto, a configurare fatti penalmente rilevanti ai sensi del D.Lgs. n. 74 del 2000, potendo assumere rilevanza anche la dichiarazione infedele e non essendo richiesto l’utilizzo di mezzi fraudolenti (cfr. Cass., ord., 28 aprile 2021, n. 11156).
Dall’altro, si rileva che parte ricorrente ha omesso di allegare in modo puntuale la carenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, limitandosi ad invocare la correttezza del proprio operato e, dunque, l’insussistenza dei fatti – penalmente rilevanti – ipotizzati, senza addurre alcun elemento.
3. Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione del T.U. 26 aprile 1986, n. 131, artt. 20, 40 e 76, comma 2, per aver la sentenza impugnata ritenuto corretto il recupero effettuato, benché fossero decorsi i termini sia per la rideterminazione da parte dell’Ufficio dell’imposta di registro versata, sia per l’esercizio da parte di essa contribuente dell’azione di rimborso di tale imposta, nella parte versata in eccesso; il tutto, in violazione del principio dell’affidamento e di buona fede del contribuente.
Con la medesima doglianza evidenzia che l’Ufficio non avrebbe il potere di disconoscere degli effetti di un atto negoziale, se non previo ricorso al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis.
3.1. Il motivo è infondato.
Questa Corte ha costantemente affermato che il c.d. principio del consolidamento del criterio impositivo (in virtù del quale è precluso all’amministrazione finanziaria, decorso il termine previsto dal T.U. n. 131 del 1986, art. 76, procedere ad una diversa qualificazione dell’atto presentato per la registrazione ed esigere di conseguenza una diversa imposta) – invocato dal ricorrente – trova applicazione quando, essendo pacifica l’applicabilità dell’imposta di registro, sia in discussione la misura di essa, ma non anche quando, come nel caso in esame l’amministrazione finanziaria contesti al contribuente di avere assolto, in relazione all’atto, un’imposta di tipo diverso da quella dovuta (cfr. Cass. 8 luglio 2016, n. 13963; Cass. 5 settembre 2014, n. 18764; Cass. 22 gennaio 2013, n. 1405).
Infatti, in caso d’imposizione alternativa, non può rilevare il fatto storico che sia stato corrisposto un tributo, atteso che il contribuente ha l’obbligo di corrispondere il tributo previsto dalla legge e non quello scelto in base a considerazioni soggettive (cfr., altresì, Cass. 10 agosto 2010, n. 18524).
Non ricorre, dunque, la violazione del principio di alternatività dell’imposta, di consolidamento del criterio impositivo e di divieto di doppia imposizione allorché l’Amministrazione finanziaria, in caso di cessione soggetta ad IVA, indichi questa come tributo dovuto ed escluda, invece, l’imposta di registro erroneamente corrisposta dall’acquirente.
4. Con il quarto motivo lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 2, comma 3, lett. b), e art. 3, comma 2, n. 5, T.U. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 54, comma 5, e art. 95, comma 1, D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 1, art. 1594 c.c., art. 2112 c.c., comma 5, artt. 2555 e 2558 c.c. e L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 36, nonché dei principi generali in tema di avviamento commerciale, per aver la Commissione regionale omesso di considerare che il contratto di locazione commerciale non costituiva l’oggetto esclusivo o principale dell’accordo negoziale, ma era uno dei rapporti giuridici inerenti il ramo di azienda ceduto, unitamente ad una serie di componenti attive (immobilizzazioni materiali, avviamento commerciale, contratti di somministrazione, autorizzazione al commercio al dettaglio).
4.1. Il motivo è infondato.
Come già rilevato, la Commissione regionale ha ritenuto che l’atto in esame non costituisse una cessione di ramo di azienda, come qualificato dalle parti, ma si risolvesse in una cessione di un contratto di locazione.
E’ giunta a tale conclusione evidenziando che il contratto non aveva la finalità di consentire al cessionario il subentro nell’esercizio dell’impresa, come reso evidente dal fatto che non erano stati trasferiti né i rapporti giuridici con la clientela e con i fornitori, né il personale e non era stata proseguita la stessa attività.
Ha giudicato irrilevante la circostanza che l’accordo prevedeva anche la cessione di alcuni mobili, atteso il loro valore irrisorio, e della licenza commerciale, attesa la preminenza, sotto il profilo economico, dell’elemento rappresentato dalla cessione del contratto di locazione.
Quanto, infine, alla somma versata a titolo di compenso per l’avviamento commerciale, ha osservato che l’importo corrisposto a tale titolo avesse diverso fondamento causale, da rinvenirsi nella cessione del contratto di locazione, di cui costituiva la remunerazione.
Ciò posto, giova rammentare che la differenza tra locazione di immobile con pertinenze e affitto d’azienda consiste nel fatto che nel primo caso, l’immobile concesso in godimento viene considerato specificamente, nell’economia del contratto, come l’oggetto principale della stipulazione, secondo la sua consistenza effettiva e con funzione prevalente e assorbente rispetto agli altri elementi, i quali (siano essi legati materialmente o meno all’immobile) assumono carattere di accessorietà e rimangono collegati all’immobile funzionalmente, in posizione di subordinazione e coordinazione; nel secondo, l’immobile non viene considerato nella sua individualità giuridica, ma come uno degli elementi costitutivi del complesso di beni mobili e immobili, legati tra di loro da un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo, sicché l’oggetto del contratto è costituito dall’anzidetto complesso unitario (cfr. Cass. 25 settembre 2019, n. 23851; Cass. 28 maggio 2009, n. 12543; Cass. 15 marzo 2007, n. 5989).
Nel valutare se un contratto debba essere qualificato come locazione di immobile od affitto di azienda (o di un ramo di essa) il giudice, deve, in primo luogo, verificare se i beni oggetto di tale contratto fossero già organizzati in forma di azienda e, in caso di esito positivo dell’indagine, è tenuto ad accertare se le parti abbiano inteso trasferire o concedere il godimento del complesso organizzato o semplicemente quello di un immobile, al cui utilizzo risultino strumentali gli altri beni e servizi eventualmente ceduti, restando poi libero l’avente causa di organizzare ex novo un’azienda propria (così, Cass. 17 febbraio 2020, n. 3888; in tema, con particolare riferimento alla rilevanza dell’organizzazione dei beni finalizzata all’esercizio dell’impresa quale elemento unificatore della pluralità dei beni, vedi anche Cass., Sez. Un., 5 marzo 2014, n. 5087).
Orbene, la Commissione regionale, nell’escludere che si fosse verificata una cessione di un complesso di ramo di azienda, ha fatto corretta applicazione dei richiamati principi di diritto, in quanto ha negato, all’esito della valutazione delle clausole contrattuali, che si fosse in presenza della cessione di un complesso di beni funzionalmente organizzato per l’esercizio di un’attività di impresa, avuto riguardo al fatto che il suo oggetto principale, nonché suo “scopo economico sociale”, avesse ad oggetto la concessione in godimento di un immobile e che altre prestazioni poste a carico del cedente (cessione dei mobili e della licenza commerciale) presentasse carattere secondario e accessorio ed erano prive di rilevanza sotto il profilo economico e causale.
5. Con l’ultimo motivo la ricorrente critica la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,2555 e 2558 c.c., nonché per omesso esame ovvero illogica, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo e controverso del giudizio, nella parte in cui ha interpretato l’accordo negoziale nel senso che le parti non volessero porre in essere un contratto di cessione di ramo di azienda.
5.1. Il motivo è inammissibile.
Quanto alla censura per violazione di legge, si osserva che l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile avanti al giudice di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. c.c..
A tal fine, il ricorrente deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass., ord., 9 aprile 2021, n. 9461; Cass. 28 novembre 2017, n. 28319; Cass., ord., 15 novembre 2017, n. 27136).
Parte ricorrente non ha soddisfatto ad un siffatto onere, limitandosi ad invocare le norme di legge asserita mente violate e a proporre la sua ricostruzione della volontà delle parti in contrapposizione con quella accolta nella sentenza impugnata.
5.2. Inammissibile e’, del pari, la doglianza per vizio motivazionale, atteso che i vizi di illogicità, insufficienza e contraddittorietà della motivazione, che con essa vengono prospettati, non sono più deducibili quale vizi di legittimità a seguito della nuova riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, risultante a seguito della modifica apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv., con modif., nella L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile ratione temporis al caso in esame (cfr., ex multis, Cass., ord., 25 settembre 2018, n. 22598; Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053).
6. Per le suesposte considerazioni, dunque, il ricorso non può essere accolto.
7. Nulla va disposto in ordine alle spese del presente giudizio in assenza di attività difensiva della parte vittoriosa.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.
Così deciso in Roma, il 30 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2022