Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6038 del 12/03/2010

Cassazione civile sez. I, 12/03/2010, (ud. 13/01/2010, dep. 12/03/2010), n.6038

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente –

Dott. FIORETTI Francesco Maria – Consigliere –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. SALVATO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Sipontum s.r.l. (già s.p.a.), in persona del legale rappresentante

C.G. – elettivamente domiciliata in ROMA, piazza Augusto

Imperatore, 22, nello studio dell’avv. POTTINO GUIDO, dal quale è

rappresentata e difesa, unitamente e disgiuntamente all’avv. Carlo

Zauli, in virtù di procura a margine del ricorso e di procura

notarile;

– ricorrente –

contro

Fallimento di M.P.T., in persona del Curatore –

elettivamente domiciliato in ROMA, via R. Fauro, 32, presso lo

studio dell’avv. prof. PETRONIO UGO, dal quale è rappresentato e

difeso, unitamente e disgiuntamente all’avv. Alfonso Celli, in

virtù di procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

nonchè

Comune di Cesenatico, in persona del Sindaco pro tempore –

elettivamente domiciliato in ROMA, viale di Villa Massimo, 36,

presso lo studio dell’avv. Renato della Bella, dal quale è

rappresentato e difeso, unitamente e disgiuntamente all’avv. Paolo

Fabbri e all’avv. Giorgio Fabbri, in virtù di procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

Sipontum s.r.l. (già s.p.a.), in persona del legale rappresentante –

elettivamente domiciliata in ROMA, piazza Augusto Imperatore, 22,

nello studio dell’avv. Guido Pottino, dal quale è rappresentata e

difesa, unitamente e disgiuntamente all’avv. Carlo Zauli, in virtù

di procura a margine del ricorso e di procura notarile;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Bologna del 22 novembre

2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13

gennaio 2010 dal Consigliere Dott. Luigi Salvato;

udito per il ricorrente incidentale l’avv. Ugo Petronio, il quale ha

chiesto l’accoglimento delle conclusioni svolte negli atti

difensivi;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del

ricorso incidentale, assorbito il ricorso principale.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- La Sipontum s.p.a, (successivamente s.r.l., di seguito indicata come Sipontum) conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Forlì il Comune di Cesenatico (infra, Comune), deducendo di essere cessionaria dei crediti vantati da M.P. nei confronti di detto ente, in virtù di contratto di appalto stipulato nel (OMISSIS) e di contratto aggiuntivo del (OMISSIS).

In particolare, l’attrice deduceva che il M., in data (OMISSIS), le aveva conferito mandato irrevocabile all’incasso del corrispettivo di tale contratto, notificato al Comune, al quale erano seguiti contratti, qualificati come “aperture di credito”, in base ai quali aveva pagato al M. il corrispettivo per la cessione dei crediti, precisando che le cessioni erano state notificate al debitore.

La Sipontum esponeva che il Comune, in data (OMISSIS), aveva dichiarato risolto il contratto con il M. per inadempimento di quest’ultimo e deduceva che l’eccezione di risoluzione non era ad essa opponibile, concludendo per la condanna del convenuto a pagare il residuo credito di L. 95.485.883, oltre interessi legali.

Si costituiva in giudizio il Comune, contestando la fondatezza della domanda ed eccependo l’inopponibilità delle cessioni di credito, in virtù della L. n. 2248 del 1865, artt. 9 e 339, Allegato F, del R.D. n. 2440 del 1932, artt. 69 e 70, e della L. n. 203 del 1991, art. 22.

In data (OMISSIS) interveniva nel giudizio il Fallimento di M.P. (di seguito, Fallimento) contestando che il M. e la Sipontum avessero stipulato una cessione di credito dissimulata da mandato irrevocabile all’incasso e chiedeva la condanna del Comune a pagare L. 21.700.165, oltre IVA, ovvero la condanna della Sipontum a pagare ad esso Fallimento le somme eventualmente ottenute in sede giudiziale.

Il Tribunale di Forlì, con sentenza del 9 febbraio 2001: rigettava la domanda della Sipontum, che condannava alle spese del giudizio; dichiarava inammissibile l’intervento del Fallimento e dichiarava compensate le spese tra questo e le altre parti.

2.- Avverso detta sentenza proponeva appello la Sipontum, chiedendo, in sua integrale riforma, l’accoglimento della domanda.

Il Fallimento si costituiva in giudizio, chiedendo il rigetto dell’appello principale e, in via incidentale, chiedeva la riforma della pronuncia, nella parte in cui aveva dichiarato inammissibile l’intervento.

Si costituiva nel giudizio il Comune, chiedendo il rigetto di entrambi gli appelli.

Ricostituitosi il contraddittorio, la Corte d’appello di Bologna, con sentenza del 22 novembre 2004: in parziale accoglimento dell’appello principale, condannava il fallimento a pagare alla Sipontum le spese di entrambi i gradi del giudizio, rigettando nel resto il gravame; rigettava l’appello incidentale proposto dal Fallimento; condannava la Sipontum ed il Fallimento a pagare al Comune le spese del giudizio di secondo grado.

La sentenza, nell’esaminare i motivi dell’appello principale:

a) reputava infondato il primo mezzo, reputando corretta la pronuncia di primo grado, nella parte in cui aveva affermato l’applicabilità del R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, comma 3. Inoltre, osservava che il Comune, con missiva del (OMISSIS) aveva precisato di avere pagato L. 297.334.840 alla Sipontum, in quanto mandataria, quindi detto documento non confortava la tesi dell’appellante, avendo il Comune sempre negato il perfezionamento di una efficace cessione di credito.

b) Rigettava il secondo motivo, diretto a sostenere l’inopponibilità dell’eccezione di risoluzione del contratto, in quanto la censura era fondata sulla stipula di una efficace cessione del credito del Comune che, invece, era stata incensurabilmente esclusa dal Tribunale.

c) Reputava infondato il terzo motivo, concernente la mancata ammissione dei mezzi di prova, in quanto la causa poteva essere decisa in base agli elementi acquisiti.

d) Accoglieva il quarto motivo relativo alla disciplina delle spese del giudizio tra appellante e Fallimento.

e) Affermava l’infondatezza dell’appello incidentale, ritenendo corretta la sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva escluso che il Fallimento fosse litisconsorte necessario, concludendo per l’inammissibilità dell’intervento di quest’ultimo, in quanto tardivo.

3.- Per la cassazione di detta pronuncia ha proposto ricorso la Sipontum, affidato a sei motivi, illustrati con memoria; ha resistito con controricorso il Fallimento, proponendo ricorso incidentale, articolato in tre motivi; ad entrambi i ricorsi, principale ed incidentale, ha resistito con controricorso il Comune di Cesenatico, illustrato con memoria; la ricorrente principale ha depositato controricorso in relazione al ricorso incidentale del Fallimento.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- I ricorsi, principale ed incidentale, sono trattati congiuntamente, avendo ad oggetto la stessa sentenza.

2.- La Sipontum, con il primo motivo, denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 14 preleggi, R.D. n. 2440 del 1923, artt. 69 e 70, artt. 1260 e 1264 c.c., L. n. 2248 del 1865, art. 9, All. “F” (recte, E)), R.D. n. 827 del 1924, art. 500, inesistente omessa e/o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto inopponibile al Comune la cessione di credito, per difetto delle forme prescritte.

A suo avviso, la pronuncia non avrebbe preso in esame la giurisprudenza di merito, che avrebbe ritenuto inapplicabili i citati artt. 69 e 70, non considerando la ratio della seconda di tali norme che, “in relazione al settore specifico delle somministrazioni intende(va) sottrarre la cessione dei relativi crediti alle rigide formalità ivi previste” (pg. 13 del ricorso), applicando la disposizione per analogia, in violazione dell’art. 14 preleggi.

Inoltre non avrebbe tenuto conto del R.D. n. 827 del 1924, art. 500, nè considerato la giurisprudenza di merito (al riguardo è citata App. Roma 12.10.1987).

2.1.- Con il secondo motivo del ricorso principale, è denunciata violazione e/o falsa applicazione del R.D. n. 2440 del 1923, artt. 69 e 70, artt. 1248, 1260 e 1264 c.c., L. n. 2248 del 1865, art. 9, All. E, L. n. 2248 del 1865, art. 339, All. F, “con conseguente nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4”, inesistente omessa e/o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), ancora in riferimento alla parte della sentenza concernente la disciplina della cessione dei crediti vantati nei confronti dei Comuni.

La ricorrente reitera la tesi dell’inapplicabilità dei citati artt. 69 e 70, ai Comuni, sostenendo che il richiamo contenuto nell’art. 70, u.c., disporrebbe che, per i crediti derivanti da contratti di appalto sarebbe sufficiente la sola adesione dell’amministrazione alla cessione. D’altronde, se così non fosse, non si comprenderebbe perchè il Comune abbia pagato la gran parte dei crediti ceduti, invocando le norme in questione solo nel corso del giudizio.

La considerazione della sentenza, secondo la quale il Comune aveva pagato reputando la Sipontum mandataria all’incasso, non avrebbe tenuto conto che tale mandato (peraltro escluso dalla pronuncia) costituirebbe una cessione di credito e, comunque, il pagamento configurerebbe una “tacita adesione all’asserita cessione del credito”, con conseguente inopponibilità di un eventuale divieto (sono richiamate sul punto due pronunce di merito).

Secondo la Sipontum, la Corte territoriale non avrebbe considerato la nozione di accettazione della cessione dell’art. 1264 c.c., ovvero di adesione L. n. 2448 del 1865, ex art. 9, e neppure tenuto conto delle forme dell’accettazione necessarie, quali indicate da Cass. n. 7919 del 2004 e n. 981 del 2002.

A conforto della propria tesi, la ricorrente richiama una pronuncia del Tribunale di Torino che – secondo la sintesi che ne riporta a pg. 18 del ricorso – avrebbe affermato che il riconoscimento della cessione da parte della P.A., ovvero la sua adesione alla cessione costituisce elemento necessario per poterle opporre la cessione.

Peraltro, il giudice di secondo grado non avrebbe tenuto conto che nella specie la cessione era “riconducibile al contratto atipico di factoring” e ciò comporterebbe “un evidente difetto di motivazione” (così a pg. 19 del ricorso).

Secondo la Sipontum, la cessione di credito è insita nel factoring, quindi avendo il Comune consapevolezza di “trovarsi di fronte ad una operazione di factoring”, il pagamento equivaleva ad accettazione della cessione de credito.

La ricorrente reitera, quindi, la tesi secondo la quale nella specie il mandato irrevocabile all’incasso era inscindibilmente correlato alla cessione dei crediti (pg. 21 del ricorso), deducendo che detta cessione era stata comunicata al Comune “a mezzo di lettera raccomandata” (pg. 21), sostenendo che la condotta dell’ente pubblico, consistente nel pagamento di parte dei crediti (indicati a pg. 22 del ricorso), equivaleva ad adesione alla medesima e malamente la sentenza impugnata non avrebbe motivato sul punto.

2.2.- La Sipontum, con il terzo motivo, denuncia violazione e/o falsa applicazione della L. n. 2248 del 1865, art. 9, All. E, artt. 1260 e 1264 c.c., R.D. n. 2440 del 1923, artt. 69 e 70, motivazione inesistente “con conseguente nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4”, omessa e/o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), sempre in ordine al punto della sentenza censurato con ì primi due mezzi.

A suo avviso, il divieto del citato art. 9 non opera quando il contratto sia stato eseguito, come affermato da Cass. n. 9789 del 1994, come accaduto nella specie, poichè il “contratto si era esaurito da tempo”.

2.3.- Il quarto motivo del ricorso principale denuncia violazione e/o falsa applicazione del R.D. n. 350 del 1895, art. 27, artt. 1260 e 1264 c.c., “totale inesistenza di motivazione sul punto (con conseguente nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4)”, omessa e/o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), nella parte in cui la sentenza impugnata non avrebbe correttamente considerato la deduzione con cui aveva prospettato che non era ad essa opponibile l’eccezione di risoluzione del contratto sollevata dal Comune.

In sintesi, il mezzo (nelle pg. 25 – 26 del ricorso) prospetta che il Comune non avrebbe potuto opporre alla cessionaria la risoluzione del contratto, siccome successiva alla cessione.

2.4.- La ricorrente principale, con il quinto motivo, denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1657 c.c., L. n. 2248 del 1865, art. 340, All. F, “L.S. 25 maggio 1895, n. 350, art. 26”, (recte, R.D. 25 maggio 1895, n. 350), motivazione inesistente “con conseguente nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4″, omessa e/o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), nella parte in cui la sentenza impugnata ha rigettato il motivo di appello avente ad oggetto la mancata ammissione di c.t.u. e della prova testimoniale.

La Sipontum deduce che, avendo il giudice del merito ritenuto perfezionata la cessione dei crediti, era rilevante accertare, a mezzo di c.t.u., i lavori eseguiti sino alla data della risoluzione del contatto di appalto di opera pubblica, richiamando due sentenze d questa Corte sulla possibilità di contestare la risoluzione innanzi al g.o. e sulla giurisdizione del medesimo sulle controversie aventi ad oggetto tale risoluzione.

La ricorrente riproduce, poi, i capi della prova testimoniale, aventi ad oggetto la conclusione della cessione del credito, il pagamento da parte della Sipontum al M., la comunicazione della cessione al Comune (pg. 31-34 del ricorso”.

2.5.- La Sipontum, con il sesto motivo, denuncia motivazione inesistente, con conseguente nullità della sentenza, nonchè omessa e/o contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia e, testualmente, espone: “con il presente motivo si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha totalmente omesso i esaminare il quarto motivo di appello (contraddistinto dalla lett. d). Ove detto motivo lo si ritenga, invece, esaminato dalla Corte come ricompreso nel terzo motivo, si insite in quanto già scritto nel motivo precedente sull’ammissibilità della prova testimoniale non ammessa e sua rilevanza”.

3.- Preliminarmente, al fine di una corretta decisione, occorre dare atto della modalità della redazione del ricorso incidentale.

Il Fallimento, alla pg. 8, deduce che la sentenza della Corte d’appello di Bologna dovrebbe essere cassata per i seguenti errori di diritto” e, quindi, indica e rubrica tre motivi: un primo motivo a pg. 8; un secondo motivo a pg. 14, un terzo motivo a pg. 20.

Tuttavia, nel corpo del secondo motivo (pg. 16 del ricorso), deduce: “a sostegno dell’illegittimità della pronuncia della Corte di appello bolognese si considerino i seguenti motivi” ed inserisce tre mezzi (rubricati come a), pg. 16; b), pg. 18; e c), pg. 19), aventi ad oggetto la ritenuta risoluzione del contratto di appalto stipulato tra il M. ed il Comune.

Nella restante parte (pg. 21-28), il ricorso incidentale svolge argomentazioni dirette a dimostrare sia che tra il M. e la Sipontum non era stata stipulata una cessione di credito, sia che il M. vantava un residuo credito nei confronti del Comune.

3.1.- Posta questa premessa, va osservato che il Fallimento, con il primo motivo del ricorso incidentale, denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 102 e 112 c.p.c., artt. 1260, 1414, 1372 e 1723 c.c., (art. 360 c.p.c., n. 3), nella parte in cui la sentenza impugnata ha confermato la pronuncia di primo grado, giudicando incensurabile la conclusione di inammissibilità dell’intervento di esso ricorrente in primo grado, in quanto tardivo, negando che fosse litisconsorte necessario, qualità che avrebbe consentito di ritenere inapplicabili le decadenze dell’art. 268 c.p.c., u.c..

A suo avviso, il giudizio aveva ad oggetto l’accertamento di una pretesa cessione di credito tra il M. e la Sipontum, cui era sotteso l’accertamento della simulazione relativa del mandato irrevocabile all’incasso conferito alla seconda in data 12.3.1996.

La ricorrente incidentale riporta parte della citazione di primo grado della Sipontum, per sostenere che questa aveva chiesto anzitutto che fosse accertato che le era stato integralmente ceduto il credito del M. nei confronti del Comune, mentre dai documenti acquisiti sarebbe risultato che era stato stipulato soltanto un mandato irrevocabile all’incasso ed i singoli negozi di cessione di credito erano stati poi stipulati per consentire alla Sipontum di trattenere le relative somme.

Dunque, la sentenza della Corte d’appello, nella parte in cui ha ritenuto tardivo l’intervento, si fonderebbe su di una premessa erronea (a pg. 12 – 13 sono riportate pronunce di questa Corte in tema di interpretazione della domanda), non avendo tenuto conto che la domanda di accertamento della cessione del credito implicava la domanda di simulazione relativa del mandato, con conseguente sussistenza del litisconsorzio necessario nei confronti del Fallimento.

3.2.- Il secondo motivo del ricorso incidentale denuncia omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto insussistente il litisconsorzio necessario nei confronti del Fallimento; richiama gli argomenti svolti nel primo mezzo, al fine di sostenere che la Sipontum aveva proposto domanda di accertamento della simulazione del mandato irrevocabile all’incasso, negozio diverso dalla cessione di credito, e deduce che la Corte d’appello avrebbe dovuto indicare le ragioni per le quali riteneva stipulata una cessione di credito (le censure sono svolte alle pg. 14 – 16 del ricorso).

3.2.1.- Nel corso di questo mezzo, alle pg. 16 – 20 del ricorso, è denunciata altresì:

a) “violazione e falsa applicazione degli artt. 1723 e 1372 c.c., nonchè dell’art. 102 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”;

b) “omessa ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”;

c) “violazione e falsa applicazione dell’art. 1260 c.c., art. 102 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

In relazione al punto a), il Fallimento sostiene che la Corte d’appello avrebbe fatto propria la conclusione del Tribunale, secondo la quale la stipula tra M. e Sipontum di una cessione di credito avrebbe comportato la risoluzione del pregresso mandato all’incasso, omettendo di considerare che l’accertamento di detta risoluzione richiedeva la presenza di tutte le parti del contratto, quindi anche del M..

In riferimento al punto b), è dedotto che la sentenza impugnata non conterrebbe alcun riferimento alla statuizione del giudice di primo grado, secondo la quale il mandato irrevocabile all’incasso era stato risolto per mutuo dissenso, e ciò benchè fosse stata gravata da appello incidentale.

Nel punto c), la ricorrente incidentale deduce che il “giudice di primo grado, ritenuto risolto il mandato irrevocabile, ha inoltre dichiarata l’inammissibilità dell’intervento del Fallimento, sotto l’ulteriore profilo della autonomia dei rapporti costituiti tra cedente e cessionario, e tra quest’ultimo ed il debitore ceduto”, richiamando Cass. n. 9295 del 1987.

A suo avviso, quest’ultima pronuncia riguarderebbe una fattispecie diversa e l’accertamento della stipula della cessione di credito implicherebbe la necessità della partecipazione al giudizio del cedente.

3.3.- Il ricorrente incidentale, con il terzo motivo, denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c., e art. 1260 c.c., (art. 360 c.p.c., n. 3), nella parte in cui la sentenza impugnata ha condannato il Fallimento a pagare le spese del giudizio di primo grado in favore della Sipontum, sia perchè non rinviene “alcuna ragione logica nella parte motiva”, sia perchè sarebbe in contrasto con la pronuncia di primo grado che ne aveva disposto la compensazione, con conseguente violazione dell’art. 91 c.p.c..

Inoltre, la pronuncia avrebbe “addirittura dichiarata la distrazione in favore di Sipontum delle spese” poste a carico del Fallimento, nonostante la mancata proposizione di tale domanda, “come è agevole evincere dalla semplice lettura dell’atto di citazione”.

Il ricorso, nella restante parte, afferma nuovamente la sussistenza del suindicato litisconsorzio necessario (pg. 20 – 21), per poi svolgere argomenti a conforto della fondatezza della domanda proposta – ovviamente, non esaminata (pg. 21-22) -, reiterando le ragioni a conforto della negazione della stipula di una cessione di credito (pg. 22 – 28).

4.- Per ragioni di pregiudizialità giuridica, deve essere esaminato in via preliminare il ricorso incidentale del Fallimento.

L’eccezione di improcedibilità del ricorso sollevata dalla ricorrente principale, in quanto il Fallimento non ha depositato copia della sentenza impugnata, nè chiesto la trasmissione del fascicolo d’ufficio, è infondata.

Al riguardo, è sufficiente osservare che l’art. 371 c.p.c., u.c., stabilisce che, “se il ricorrente principale deposita la copia della sentenza o della decisione impugnata non è necessario che la depositi anche il ricorrente per incidente”; quindi, nella specie, essendo stata depositata la copia della sentenza impugnata dalla ricorrente principale, è manifesta l’infondatezza dell’eccezione. In tal senso si è, peraltro, già espressa questa Corte con le sentenze n. 6873 del 1994 e n. 2429 del 1966, per nulla contraddette dalle due pronunce richiamate dalla Sipontum.

La sentenza n. 17995 del 2002 concerne, infatti, un caso nel quale l’onere in esame non era stata adempiuto dalla ricorrente principale; la sentenza n. 6690 del 2007 (non massimata) ha dichiarato improcedibile il ricorso principale, in quanto la ricorrente non aveva appunto prodotto copia autentica della sentenza, sicchè il riferimento al ricorso incidentale, pure contenuto nella pronuncia, appare irrilevante, dato che, nella specie, neppure era stato proposto un tale ricorso.

Analogamente, risulta chiaro che non occorre la richiesta di trasmissione del fascicolo di merito, quando essa risulti già depositata dal ricorrente principale, risultando.

4.1.- I primi due motivi del ricorso incidentale, da decidere congiuntamente, perchè giuridicamente e logicamente connessi, sono, in parte, inammissibili, in parte infondati.

Il ricorrente incidentale non censura l’affermazione con cui il giudice del merito ha ritenuto che l’intervento tardivo sia inammissibile oltre i limiti stabiliti dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale la preclusione sancita dall’art. 268 c.p.c., non si estende all’attività assertiva dell’interveniente volontario (Cass. n. 20987 e n. 2093 del 2007; n. 10371 e n. 3186 del 2006; n. 4771 del 1999).

Il Fallimento si duole esclusivamente della conclusione, secondo la quale nella specie non sussisterebbe litisconsorzio necessario tra la Sipontum, il Comune ed il Fallimento e, appunto per questo, ha giudicato l’intervento tardivo inammissibile.

La prima affermazione resta, quindi, incensurabile in questa sede, nella quale è possibile occuparsi soltanto della seconda.

4.2.- In considerazione del contenuto delle doglianze, in linea generale, è opportuno premettere che la statuizione del giudice di merito il quale non esamini e non decida una questione oggetto di specifica doglianza è impugnabile per cassazione mediante la deduzione del relativo error in procedendo da omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, in riferimento alla violazione dell’art. 112 dello stesso codice (Cass. n. 11844 del 2006; n. 13649 del 2005). Qualora detto giudice abbia preso in considerazione tale questione e l’abbia risolta senza giustificare (o non giustificando adeguatamente) la decisione adottata sul punto, la relativa statuizione è, invece, denunciabile per vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, (tra le più recenti, Cass. n. 4201 del 2006 e, in motivazione, Cass. n. 178 del 2008).

L’interpretazione della domanda spetta infatti al giudice del merito, sicchè, quando questi abbia espressamente ritenuto che una certa domanda era stata avanzata – ed era compresa nel thema decidendum -, ovvero che non era stata proposta, tale statuizione non può essere direttamente censurata per violazione del principio della domanda. In tal caso, il dedotto errore del giudice non si configura come error in procedendo, ma attiene al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volontà della parte (Cass. n. 14784 del 2007; n. 17451 del 2006; n. 15603 del 2006), incensurabile in questa sede, qualora sia motivato in maniera congrua ed adeguata.

In altri termini, occorre tenere distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda, o la pronuncia su una domanda non proposta, da quella in cui si censuri l’interpretazione data dal giudice di merito alla domanda stessa: solo nella prima si verte in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c., e si prospetta un error in procedendo, in relazione al quale questa Corte ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti giudiziari; nella seconda, si è al cospetto di un accertamento in fatto, rimesso al giudice di merito, qui sindacabile solo sotto il profilo della correttezza della motivazione (Cass. n. 20373 del 2008; n. 24495 del 2007).

Relativamente all’obbligo motivazionale gravante sul giudice d’appello, va poi ricordato che esso è inadempiuto, quando consista in un mero rinvio alla sentenza di primo grado (Cass. n. 3066 del 2002; n. 7713 del 2002; n. 9497 del 2000; n. 985 del 2000; n. 5612 del 1998). Peraltro, le Sezioni Unite civili hanno distinto il caso dell’accoglimento e quello di rigetto del gravame, rimarcando che, nel primo, la sentenza di secondo grado “non può limitarsi a riferimenti generici alle risultanze istruttorie, poichè questi, se possono ritenersi sufficienti quando l’impugnazione venga rigettata con la conferma della pronuncia impugnata, non possono giustificare di per sè soli una decisione di accoglimento” (Cass. SS.UU., n. 10892 del 2001), evidenziando in tal modo l’ammissibilità di una maggiore sintesi nel caso di conferma della pronuncia di primo grado.

4.3.- Nel merito, va osservato che la Corte d’appello ha confermato la pronuncia di primo grado, nella parte in cui ha escluso la sussistenza del litisconsorzio necessario con il Fallimento, osservando: “dall’esame della citazione in prime cure della S.p.A. Sipontum e dalle relative conclusioni, reiterate anche all’udienza di precisazione delle conclusioni in primo grado, emerge che mai nè l’attrice nè l’intervenuta hanno domandato al primo giudice di accertare, con efficacia di giudicato, che il mandato a riscuotere i crediti conferito dalla società M. alla Sipontum, simulasse in realtà una cessione di crediti”. La pronuncia ha, quindi, concluso affermando: “perciò, tenuto conto che cedente, cessionario e ceduto, nell’ambito dell’istituto della cessione di credito non sono litisconsorti necessari, appare esatta la conclusione (…) che il Fallimento dell’impresa M. non è litisconsorte necessario” (pg. 12-13 della sentenza).

Il ricorrente, nel censurare la sentenza in questa parte, benchè abbia fatto riferimento all’art. 112 c.p.c., ha poi formalmente denunciato, con il primo mezzo, una violazione e falsa applicazione di norme “in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, (così la rubrica del primo motivo, pg. 8 del ricorso), e, con il secondo motivo, un vizio di motivazione “in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5” (così la rubrica del mezzo a pg. 14 del ricorso).

La denuncia del vizio dell’art. 360 c.p.c., n. 3, è manifestamente inammissibile, dato che esso consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta recata da una norma di legge non processuale; inoltre, come sopra precisato, la Corte d’appello ha anche deciso il motivo di gravame e, interpretando la domanda proposta dalla Sipontum, e le difese del Comune, ha escluso che esse comportassero la sussistenza di un litisconsorzio necessario, con la conseguenza che, in virtù delle considerazioni pure sopra svolte (4.2.1.), l’eventuale errore è denunciabile esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

4.3.1.- La valutazione della adeguatezza della motivazione e della correttezza della decisione richiede di ricordare, in primo luogo, che l’art. 102 c.p.c., comma 1, in virtù del quale, “se la decisione non può pronunciarsi che in confronto di più parti, queste debbono agire o essere convenute nello stesso processo”, costituisce una norma in bianco, che ha dato luogo a non pochi dubbi interpretativi; tuttavia, la giurisprudenza di questa Corte ha enunciato criteri che permettono di identificare con sufficiente certezza le fattispecie di litisconsorzio necessario.

In secondo luogo, occorre osservare che l’interpretazione di detta norma va effettuata alla luce del canone costituzionale della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), il quale richiede di limitare i casi di litisconsorzio necessario a quelli soli nei quali l’integrazione del contraddittorio si impone, per evitare che la sentenza sia inutiliter data, secondo un’accezione che non può, impropriamente, far rifluire in essi ipotesi apprezzabili esclusivamente sotto il profilo della mera opportunità di una pronunzia resa nei confronti di parti ulteriori rispetto a quelle individuate, nella specie, con l’atto introduttivo del giudizio. A conforto della necessità di valorizzare detto canone costituzionale, va ricordato che la Corte delle leggi, con una recentissima sentenza, ha appunto affermato che “i casi di litisconsorzio necessario, in quanto incidenti sulla libertà di agire in giudizio, devono formare oggetto d’interpretazione restrittiva” (sentenza 11 dicembre 2009, n. 329).

Le fattispecie di litisconsorzio necessario individuate da questa Corte, sono quindi quelle, di più agevole identificazione, conseguenti dall’esistenza di un’espressa disposizione in tal senso, nonchè dalla previsione della legittimazione straordinaria a dedurre in giudizio un rapporto, oppure dalla sussistenza di rapporto plurisoggettivo inscindibilmente connesso a più persone; nel caso in esame, apparendo chiara l’insussistenza dei primi due casi, occorre prestare attenzione al terzo.

In relazione a detta ipotesi, va ricordato che, per giurisprudenza consolidata, essa ricorre quando è dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo unico ed inscindibile e, appunto in ragione della sua conformazione, la sentenza che decide su di esso può produrre un risultato utile e positivo, ossia può essere utiliter data, esclusivamente se sia pronunciata in contraddittorio di tutti i titolari del rapporto stesso (tra le molte, Cass. n. 4129 del 2002; n. 6156 del 1994; n. 4475 del 1988; n. 696 del 1982). Questa ipotesi non ricorre qualora la domanda concerna un rapporto obbligatorio ed il convenuto contesti di essere titolare dell’obbligazione dedotta in giudizio, indicando un terzo quale esclusivo soggetto passivo della pretesa attorea (Cass. n. 6415 del 1998; n. 5920 del 1980), oppure, in via di mera eccezione, contesti la titolarità del diritto vantata dall’attore, deducendo che essa spetta ad un terzo. La contestazione, in questo caso, attiene alla fondatezza della domanda e non da luogo a litisconsorzio necessario nei confronti del preteso legittimato non evocato in giudizio, bensì, come accade nelle ipotesi di legittimazione alternativa, pone la sola questione dell’accertamento della titolarità o meno del diritto da parte dell’attore, che va risolta accogliendo o rigettando la domanda.

In altri termini, la questione resta circoscritta tra attore e convenuto e non può in alcun modo pregiudicare il terzo al quale l’eventuale giudicato è inopponibile, cosicchè può esclusivamente profilarsi la mera opportunità di fare intervenire nel giudizio, in primo grado, il terzo (Cass. n. 7458 del 1983), non configurandosi un caso di litisconsorzio necessario.

Diversamente può accadere, secondo un principio già enunciato da questa Corte, che qui si ritiene di ribadire, esclusivamente qualora il convenuto, in via riconvenzionale, chieda un accertamento vincolante anche nei confronti del terzo in ordine alla titolarità effettiva ed esclusiva del diritto in capo al terzo (Cass. n. 6156 del 1994; n. 1145 del 1980).

Siffatti principi sono stati enunciati anche in riferimento alla cessione del credito; questa Corte ha, infatti, affermato che il cedente è litisconsorte necessario nella controversia tra debitore ceduto e cessionario appunto nel caso in cui il debitore chieda una pronuncia diretta a stabilire quale sia, tra il cessionario e il cedente, l’effettivo e unico titolare del credito (Cass. n. 12972 del 2004, in un’ipotesi nella quale il cedente era stato dichiarato fallito), e cioè quando il debitore non soltanto contesti la sostituzione del creditore originario, ma chieda anche una pronuncia sulla titolarità del credito con effetti vincolanti nei confronti di questi (Cass. n. 1510 del 2001; n. 1145 del 1980).

Il problema della sussistenza o meno, in capo alla parte attrice, del credito allegato in giudizio, ove insorga esclusivamente per effetto di eccezione della parte convenuta, ancorchè accompagnata dall’indicazione del soggetto che a suo avviso avrebbe la titolarità del diritto, non determina quindi litisconsorzio necessario con detto soggetto, in quanto, in assenza di una domanda, principale o riconvenzionale, che reclami un accertamento vincolante anche nei suoi confronti, il dibattito rimane circoscritto al riscontro della fondatezza della pretesa creditoria fra l’istante ed il convenuto, senza alcun effetto vincolante per il terzo. Questi, peraltro, conserva la piena ed autonoma azionabilità del proprio diritto, e, ove intenda avvalersi dei riflessi positivi, od evitare i riflessi negativi che la definizione del distinto rapporto potrebbe comportargli in via mediata, è abilitato ad utilizzare gli strumenti all’uopo apprestati dall’ordinamento.

Infine, in riferimento alla simulazione, ricorre una ipotesi di litisconsorzio necessario tra le parti del contratto solamente nel caso in cui il relativo accertamento risulti proposto in via principale, non anche quando ad esso si proceda in via meramente incidentale, nell’ambito di un altro e diverso procedimento volto ad una pronuncia che non incida direttamente sul patrimonio del contraente pretermesso, ma sia destinata a produrre i suoi effetti unicamente tra le parti del processo (Cass. n. 4901 del 2007).

4.4.- Nel quadro di detti principi, le censure non meritano accoglimento, poichè la Corte d’appello, confermando sul punto la sentenza di primo grado, ha escluso che fosse stato chiesto di accertare, con efficacia di giudicato, che il mandato di credito simulava una cessione di credito e, in buona sostanza, ha ritenuto che si controvertesse esclusivamente in ordine all’interpretazione come cessione di credito del negozio qualificato come mandato. Dunque, il giudice del merito ha escluso la sussistenza del litisconsorzio necessario, in quanto ha desunto dall’interpretazione della domanda e delle difese del Comune la carenza dei presupposti sopra richiamati per ritenere sussistente il litisconsorzio necessario, con motivazione sintetica, ma chiara, che rende palese l’infondatezza della ripetuta affermazione del Fallimento in ordine alla carenza di motivazione ed il non congruo nè pertinente richiamo di precedenti (in particolare a pg. 12-14 e 15-16 del ricorso incidentale) scollegati dalla fattispecie concreta, nonchè l’assoluta irrilevanza delle lunghe e non sempre chiare argomentazioni svolte per contrapporre una interpretazione diversa da quella fatta propria dal giudice del merito, dirette ad evidenziare la differenza tra mandato all’incasso e cessione del credito (pg. 14-15), ovvia, ma in sè irrilevante.

In buona sostanza, le censure, chiare e pertinenti, si risolvono e si riducono nella affermazione(svolta alle pg. 9-11 del ricorso incidentale) che la motivazione svolta a conforto dell’interpretazione della domanda sarebbe carente, poichè non avrebbe tenuto conto del contenuto della citazione della Sipontum (in parte riportata a pg. 9-10), e nella deduzione che il “tenore letterale della domanda” “appare chiaro”, nel senso che era diretto ad ottenere l’accertamento della simulazione posta in essere. Tuttavia, dette censure non consistono nella prospettazione di vizi rilevabili in questa sede, ma configurano un’inammissibile istanza di revisione dell’interpretazione fatta propria dal giudice del merito, peraltro non confortata dalle parti degli atti riportati nel ricorso, le sole che, in virtù del principio di autosufficienza del ricorso e della natura del vizio denunciato, sono qui esaminabili.

Al riguardo, va infatti osservato che la citazione, come riportata nel ricorso incidentale, evidenzia che la Sipontum aveva prospettato che “l’operazione non può ridursi ad un semplice conferimento di mandato all’incasso” e che le parti avevano inteso “il mandato irrevocabile come intimamente correlato ai vari negozi di apertura di credito, in vista di una complessa operazione giuridica inquadrabile nella cessione di credito” (così i brani della citazione riportati a pg. 10 del ricorso), con deduzione che, sotto il profilo letterale e logico, poneva una questione di interpretazione, non di simulazione dei negozi. Analogamente, la difesa del Comune, ancora come riportata dal Fallimento (a pg. 11 del ricorso incidentale), aveva evidenziato l’inopponibilità della cessione per inosservanza delle forme asseritamente applicabili, che è questione diversa, ed antitetica, rispetto alla simulazione, non risultando dal brano riportato che fosse stata chiesta dal Comune una pronuncia sulla titolarità del credito con effetti vincolanti nei confronti di questi.

Le censure consistenti in argomentazioni dirette a contestare la correttezza dell’interpretazione dei negozi come attuativi di una cessione del credito (pg. 16-18), a sostenere una diversa configurazione dei rapporti in questione (pg. 22-27), ed a dimostrare la sussistenza di un residuo credito del Fallimento (pg. 21-22) sono manifestamente inammissibili, una volta che è stata ritenuta incensurabile la dichiarazione di inammissibilità dell’intervento, non potendo essere svolte da chi non è stata parte del processo.

4.5.- Il terzo motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.

La Sipontum aveva proposto uno specifico motivo di appello in ordine al capo della sentenza del Tribunale avente ad oggetto la compensazione delle spese del giudizio tra essa e l’interveniente (v. la sentenza impugnata a pg. 9 ed a pg. 12).

Ne consegue che la Corte d’appello, nonostante il rigetto del gravame nei profili di merito, era titolare del potere-dovere di riesaminare tale capo (Cass. n. 24422 del 2009; n. 974 del 2007). Inoltre, in relazione alla conclusione da essa affermata all’esito dell’esercizio di tale potere-dovere (di porre le spese del giudizio di primo grado a carico della soccombente) non è configurabile nè il vizio di violazione di legge, nè il vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, poichè il giudice del merito si è uniformato al principio della soccombenza (Cass. n. 1868 del 1979), sicchè le censure svolte dal Fallimento sono infondate.

La censura concernente la disposta distrazione delle spese in favore del difensore della Sipontum è, infine, inammissibile, in quanto la parte soccombente non ha interesse ad impugnare il provvedimento di distrazione delle spese emesso a favore del difensore della parte avversa, poichè esso incide esclusivamente sui rapporti tra detta parte vittoriosa e il suo difensore (Cass. n. 11746 del 2004).

5.- I primi due motivi del ricorso principale, da esaminare congiuntamente, perchè giuridicamente e logicamente connessi, sono in parte fondati, entro i limiti e nei termini di seguito precisati.

5.1.- Preliminarmente, va ribadito che il vizio di motivazione è deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come mezzo per l’annullamento della sentenza che si impugna, solo in relazione all’accertamento ed alla valutazione dei fatti rilevanti per la decisione, non anche all’interpretazione ed all’applicazione di norme di diritto ed alla soluzione di questioni giuridiche, rispetto alle quali il sindacato di legittimità si esaurisce nel controllo della conformità al diritto della decisione impugnata (per tutte, Cass. n. 2469 del 2003; n. 10396 e n. 4526 del 2001).

Pertanto, se la decisione risulta esatta, l’erronea o carente motivazione in diritto è modificata o integrata da questa Corte, in applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2; solo se la decisione adottata risulta, invece, giuridicamente non corretta, la sentenza impugnata deve essere cassata per violazione o falsa applicazione di norme giuridiche.

In applicazione di detto principio, sono inammissibili le censure dirette a denunciare un vizio di motivazione, nella parte in cui la sentenza impugnata, per ragioni concernenti l’interpretazione ed applicazione della norma e non la ricostruzione della fattispecie, ha ritenuto applicabile il R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, comma 3.

5.2.- Nel merito, occorre osservare che la sentenza impugnata ha integralmente confermato la pronuncia di primo grado, la quale aveva ritenuto realizzato “l’esaurimento del rapporto di appalto”, poichè il contratto era stato “unilateralmente risolto di diritto per determinazione unilaterale dell’ente appaltatore”, ritenendo conseguentemente infondata l’eccezione concernente la necessità dell’adesione del Comune.

Il Tribunale aveva, invece, reputato fondato “l’altro profilo di inopponibilità della cessione sollevato dal convenuto”, osservando che, “a norma del R.D. n. 2440 del 1923, art. 69”, affinchè la cessione del credito in esame sia efficace, “è necessario che all’amministrazione ceduta venga notificato il relativo negozio stipulato con atto pubblico o con scrittura privata autenticata da notaio”.

Nel giudizio di secondo grado era, quindi, in questione esclusivamente il secondo di detti profili.

La Corte d’appello, nell’esaminare il primo motivo di gravame, il quale, come risulta dalla pronuncia, aveva appunto ad oggetto soltanto l’applicabilità del citato art. 69, comma 3, ha affermato che il Tribunale ha “correttamente applicato” tale norma, “in base alla quale la cessione dei crediti effettuata dall’impresa M. alla Sipontum s.p.a., è inefficace e, quindi, inopponibile nei confronti del Comune di Cesenatico, per difetto delle forme prescritte” (pg. 11 della pronuncia).

In questa proposizione si risolve la motivazione della sentenza, confortata dalla sola considerazione che, “del resto, la giurisprudenza della Suprema Corte ritiene applicabile tale norma a tutta la pubblica amministrazione e perciò anche ai comuni che sono enti pubblici facenti parte della pubblica amministrazione periferica (cf. Cass. 3/4/92 n. 105 (recte, n. 4105), Cass. 23/11/2000 n. 15133 (recte, n. 15153))”.

Al riguardo, è opportuno premettere, altresì, che la sentenza impugnata indica che i crediti originano da un contratto di appalto “stipulato nel 1996 (mese di marzo)” e da un “contratto aggiuntivo del 12/12/1996” (pg. 6 della sentenza), intercorso tra il Comune di Cesenatico e M.P.; le cessioni, come precisato nel ricorso ed è incontroverso, sono relative al 1996; il giudizio di primo grado è stato introdotto con citazione dell’11 febbraio 1998 (siffatti dati rilevano ai fini dell’inapplicabilità dell’art. 115 del D.P.R. n. 554 del 1999, esaminato infra).

5.3.- La questione posta dalla ricorrente con i primi due mezzi, nei termini qui rilevanti, concerne, quindi, esclusivamente l’identificazione dell’ambito di applicabilità del R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, comma 3, – e cioè la forma della cessione – e richiede di stabilire se tale norma sia riferibile anche ai Comuni, come ritenuto dal giudice del merito, con conclusione censurata dalla Sipontum. Nell’affermazione della riferibilità di detta disposizione anche ai Comuni consiste e si esaurisce, infatti, la ratio decidendi della sentenza impugnata (che ha confermato la pronuncia del Tribunale)f con conseguente irrilevanza delle argomentazioni concernenti profili più ampi della disciplina della cessione dei crediti derivanti da contratti di appalto da stipulati da tali enti.

Siffatta questione, in questi stessi esatti termini – ed in relazione ad una fattispecie omologa a quella qui in esame anche in ordine al profilo temporale (avendo cioè riguardo al tempo della stipula del contratto di appalto) – è stata decisa di recente da questa Sezione con la sentenza 26 giugno 2008, n. 17496, enunciando il principio in virtù del quale alla cessione dei crediti da corrispettivo di appalto vantati nei confronti degli enti locali, effettuata prima dell’entrata in vigore del D.P.R. n. 554 del 1999, art. 115, non si applica il R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, comma 3, (che richiede la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata e la notificazione alla P.A. della cessione del credito), in quanto tale norma riguarda la sola Amministrazione statale.

A questo più recente orientamento va data continuità, con la conseguenza che detto principio deve essere qui ribadito, condividendo questo Collegio le argomentazioni che lo fondano, che è, quindi, opportuno riportare nei punti salienti.

In particolare, la sentenza n. 17496 del 2008 ha osservato:

“la L. n. 2448 del 1865, art. 339, all. F (legge sui lavori pubblici) statuì, in relazione ai contratti per lavori pubblici, che è vietata qualunque cessione di credito e qualunque procura, le quali non siano riconosciute, correlandosi con il precedente disposto dell’art. 9, della stessa legge, all. E a norma del quale: “sul prezzo dei contratti in corso non potrà avere effetto alcun sequestro, nè convenirsi cessione, se non vi aderisca l’amministrazione interessata”.

In tal modo il legislatore, al fine di garantire, nell’interesse pubblico, la regolarità e tempestività dell’esecuzione dell’opera, mirava a conservare i crediti derivanti dai contratti relativi all’esecuzione delle opere pubbliche nel patrimonio dell’appaltatore, rendendo inopponibili all’amministrazione gli atti di disposizione che essa non compiuti senza la sua adesione, a meno aderisse alla cessione, valutando la sua compatibilità con il perseguimento del su detto pubblico interesse.

Tali norme, secondo la costante interpretazione giurisprudenziale, derogavano il principio civilistico della cedibilità dei crediti anche in assenza del consenso del debitore ceduto (art. 1260 c.c.) sia per i crediti verso lo Stato, sia per i crediti nei confronti degli enti pubblici statali o territoriali, tenuto conto della collocazione delle norme sopra menzionate in complessi normativi diretti a dettare, rispettivamente, la disciplina generale dei lavori pubblici e la delimitazione dei confini fra poteri pubblici e privati (da ultimo Cass. 21 settembre 2005, n. 18610).

Il R.D. n. 2440 del 1923 (recante disposizioni sul patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato), regolando al capo quarto le spese dello Stato, all’art. 69, statuì al comma 3, che le cessioni, le delegazioni, le costituzioni di pegno e gli atti di revoca, rinuncia o modificazione di vincoli devono risultare da atto pubblico o da scrittura privata autenticata da notaio. Il successivo art. 70, statuì al comma 1, che gli atti considerati dal precedente art. 69 debbono indicare il titolo e l’oggetto del credito verso lo Stato che s’intende colpire, cedere o delegare e che con un solo atto non si possono colpire, cedere o delegare crediti verso amministrazioni diverse, statuendo poi al comma 2, che per le somme dovute dallo Stato per somministrazioni, forniture ed appalti debbono essere osservate le disposizioni della L. n. 2248 del 1865, art. 9, all. E, e degli artt. 351 e 355, all. F, della legge medesima.

La regola posta dai sopra menzionati articoli della L. n. 2248 del 1865, sulla necessità dell’adesione alla cessione da parte della pubblica amministrazione per la sua opponibilità ad essa, è venuta meno, in relazione alle cessioni previste dalla L. 21 febbraio 1991, n. 52 (sulla disciplina della cessione dei crediti d’impresa), e dalla L. 11 febbraio 1994, n. 109, art. 26, comma 5, (legge quadro in materia di lavori pubblici), a norma del quale le disposizioni di cui alla L. 21 febbraio 1991, n. 52, sono estese ai crediti verso le pubbliche amministrazioni derivanti da contratti di appalto di lavori pubblici, di concessione di lavori pubblici e da contratti di progettazione nell’ambito della realizzazione di lavori pubblici”.

La sentenza qui impugnata ha ritenuto applicabile il citato art. 69, comma 3, alla fattispecie in esame, avente ad oggetto un credito verso il Comune di Cesenatico ceduto dall’impresa appaltatrice alla Sipontum, esclusivamente mediante il richiamo delle sentenze di questa Corte n. 4105 del 1992 e n. 15153 del 2000 e da tale applicabilità ha tratto la conseguenza che, essendo mancata nel caso di specie la forma richiesta da detta norma, la cessione del credito era “inefficace”, per “difetto delle forme prescritte”.

Senonchè, in virtù del principio enunciato dalla sentenza n. 17496 del 2008, che va qui ribadito, ove si tenga presente che l’art. 69, comma 3, è inserito nel R.D. n. 2240 del 1923, il quale detta la disciplina del patrimonio e della contabilità generale dello Stato – nel capo riguardante le “spese dello Stato”, la sua diretta applicabilità alle cessioni dei crediti derivanti da contratti intercorsi con i Comuni non è fondata; inoltre, delle due pronunce richiamate dal giudice del merito, la prima è inconferente, poichè concerne l’I.N.P.S.; la seconda, per quanto si precisa di seguito, non è utilmente evocabile.

Al riguardo, va nuovamente richiamata la sentenza n. 17496 del 2008, che ha enunciato la regola sopra sintetizzata, all’esito di una attenta ricognizione degli orientamenti di questa Corte, osservando che delle sentenze che pure sembrerebbero evocabili la n. 13075 del 2002 non si occupa affatto della forma dell’atto di cessione del credito e dell’applicabilità ai Comuni della norma dettata dal citato art. 69, ma unicamente dell’applicabilità a tali enti della L. n. 2248 del 1865, artt. 9 e 339, all. E ed F, i quali – secondo un principio interpretativo consolidato – hanno efficacia generale; la sentenza n. 844 del 2002, a sua volta, ha affermato detta applicabilità in modo assertivo, senza alcuna specifica motivazione sul punto.

La pronuncia alla quale si aderisce ha, quindi, osservato: “in effetti, esaminando la giurisprudenza di questa Corte, si rileva che da essa non è dato evincere una motivata affermazione che la disciplina della cessione dei crediti verso lo Stato dettata dal R.D. n. 2240 del 1923, art. 69, comma 3, sia riferibile alla P.A. nel suo complesso (enti pubblici territoriali compresi). In concreto una simile affermazione si ritrova genericamente enunciata in alcune decisioni, o in mancanza di contestazioni al riguardo e senza alcuna specifica motivazione (Cass. 23 novembre 2000, n. 15153 (- che, va osservato in questa sede, è la sola sentenza richiamata pertinentemente dalla Corte d’appello -)), ovvero come obiter dictum (Cass. 28 gennaio 2002, n. 981), con una generalizzazione del principio di applicabilità dell’art. 69 alle amministrazioni dell’apparato statale in origine affermato (Cass. 20 novembre 1975, n. 3887; 23 febbraio 1984, n. 1286; 3 aprile 1992, n. 4105; 11 dicembre 1996, n. 11041). In proposito va sottolineato che Cass. 16 settembre 2002, n. 13481, dinanzi a specifiche contestazioni al riguardo, ha applicato l’art. 69, comma 3, in questione all’Ente sviluppo agricolo in Sicilia, sulla base di una specifica motivazione, secondo la quale tale applicabilità derivava da una norma della legislazione regionale siciliana (L.R. n. 47 del 1977, art. 21) così come in precedenza aveva fatto Cass. 22 luglio 1997, n. 7020, che per l’applicabilità dell’articolo ad una USL aveva fatto un sia pur generico riferimento alla ricezione di esso da parte della legislazione regionale. Nè argomenti decisivi al riguardo sembrano a questo collegio potersi trarre dalla recente sentenza 24 settembre 2007, n. 1957”.

Ebbene nel caso qui in esame, le cessioni del credito risalgono al 1996, quando era entrato in vigore l’ordinamento finanziario e contabile degli enti locali di cui al D.Lgs. 25 febbraio 1995, n. 77, che non contiene nè un richiamo al R.D. n. 2240 del 1923, art. 69, nè alcuna norma a questa analoga, così come non li conteneva la L. 8 giugno 1990, n. 142, recante l’ordinamento delle autonomie locali. Inoltre, alla data delle cessioni in questione neppure era ancora in vigore il D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554 (recante il regolamento di attuazione della legge quadro in materia di lavori pubblici 11 febbraio 1994, n. 109 applicabile, a norma del suo art. 2, tra l’altro, oltre che alle amministrazioni statali, anche ad ordinamento autonomo, “agli enti pubblici, compresi quelli economici, agli enti ed alle amministrazioni locali, alle loro associazioni e consorzi”), che all’art. 115 ha previsto che: “Ai sensi dell’art. 26, comma 5, della legge quadro, le cessioni di crediti vantati nei confronti delle amministrazioni pubbliche a titolo di corrispettivo di appalto possono essere effettuate dagli imprenditori a banche o intermediari finanziari disciplinati dalle leggi in materia bancaria e creditizia, il cui oggetto sociale preveda l’esercizio dell’attività di acquisto di crediti d’impresa. La cessione deve essere stipulata mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata e deve essere notificata all’amministrazione debitrice. La cessione del credito da corrispettivo di appalto è efficace e opponibile alla p.a. Qualora questa non la rifiuti con comunicazione da notificarsi al cedente ed al cessionario entro quindici giorni dalla notifica”.

Ne consegue che, nell’ambito del contesto normativo rilevante ratione temporis – identico a quello considerato dalla sentenza di questa Corte n. 17496 del 2008, il cui principio va ribadito – il disposto del R.D. n. 2440 del 1923, art. 69, comma 3, specificamente riguardante l’amministrazione statale, non era direttamente applicabile alla fattispecie in esame, in mancanza di un esplicito richiamo della norma ivi contenuta nell’ordinamento degli enti locali. Inoltre, “detta norma neppure poteva essere applicata per analogia – stante il suo carattere eccezionale – alle cessioni di crediti verso gli enti locali, nascenti da attività svolte con mezzi privatistici, derogando il disposto dell’art. 69, comma 3, alla normativa generale privatistica in materia di cessione di crediti (art. 1260 c.c. e segg.)” (Cass. n, 17496 del 2008).

Infine, ha osservato la più volte richiamata sentenza n. 17496 del 2008, “conforta tale interpretazione anche l’orientamento espresso da questa Corte, a sezioni unite (Cass. SS.UU. 4 novembre 2002, n. 15382), a proposito di altro comma dello stesso art. 69 (il sesto, che prevede il c.d. fermo amministrativo), ai sensi del quale un’amministrazione dello Stato che abbia a qualsiasi titolo ragioni di credito verso aventi diritto a somme dovute da altre amministrazioni, può richiedere la sospensione dei pagamento di dette somme. In tale occasione le sezioni unite hanno statuito che la norma configura uno strumento cautelare provvisorio diretto a legittimare la sospensione temporanea del pagamento di debiti liquidi ed esigibili da parte dello Stato a salvaguardia dell’eventuale compensazione con crediti, anche non attualmente liquidi e esigibili, che la stessa o altre branche dell’amministrazione statale, considerate come organi di una stessa persona giuridica, vantino nei confronti del medesimo soggetto, sottolineando che la disposizione, facendo esclusivo riferimento ad un’amministrazione dello Stato quale soggetto titolare dei potere eccezionale in discorso, in mancanza di una normazione espressa, non può considerarsi applicabile ad amministrazioni diverse”.

In applicazione di detto principio, i primi due motivi devono essere accolti, con conseguente assorbimento dei restanti motivi.

In relazione ai motivi accolti, e limitatamente ai capi ad essi relativi, la sentenza deve essere cassata e la causa va rimessa alla Corte d’appello di Bologna che, in diversa composizione, procederà al riesame della controversia, attenendosi ai principi sopra enunciati, provvedendo altresì in ordine alle spese di questa fase, Relativamente alla disciplina delle spese della presente fase concernenti il ricorso incidentale – rigettato, con la conseguenza che è rimasto fermo il capo della pronuncia concernente l’inammissibilità dell’intervento del Fallimento -, le stesse vanno compensate, sussistendo giusti motivi, in considerazione della natura e complessità della questione controversa.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, rigetta il ricorso incidentale; accoglie i primi due motivi del ricorso principale, dichiara assorbiti i restanti motivi, cassa in relazione ai motivi accolti la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, anche in ordine alle spese della presente fase; compensa tra le parti le spese relative al ricorso incidentale.

Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2010

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