Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6031 del 04/03/2021

Cassazione civile sez. II, 04/03/2021, (ud. 21/02/2020, dep. 04/03/2021), n.6031

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19627/2019 proposto da:

O.O., rappresentato e difeso dall’avv. Ameriga Petrucci, ed

elettivamente domiciliato presso il suo studio legale, in Vulture

(PZ), via G.Marconi, 76;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del ministro p.t., rappresentato e

difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato con sede in

Roma, via dei Portoghesi, 12;

– resistente –

avverso il decreto del Tribunale ordinario di Bari n. 2600/2019;

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

21/02/2020 dal Consigliere Dott. Annamaria Casadonte.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– il presente giudizio trae origine dal ricorso che O.O., cittadino (OMISSIS), ha proposto avverso il decreto del Tribunale di Bari che, respingendo la sua impugnazione, ha confermato il diniego del riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a), b) e c), nonchè del diritto al riconoscimento della protezione umanitaria;

– a sostegno delle domande il richiedente aveva allegato di provenire da (OMISSIS), di essere di religione cristiana e di avere lasciato il suo Paese dove svolgeva l’attività di apprendista escavatore nel marzo 2016 arrivando in Italia nel 2018 dopo essere passato dal Niger e dalla Libia; aggiungeva di essere orfano di padre e di avere a (OMISSIS) ancora la madre e sei sorelle; riferiva di condizioni economiche di profonda povertà che lo avevavo costretto a chiedere aiuto ai parenti paterni; a causa del rifiuto scoppiava un diverbio con colluttazione e ferimenti con l’intervento della polizia;

– seguivano altre aggressioni fino a che lasciava il suo Paese e arrivava in Libia dove lavorava in un autolavaggio al fine di pagare il viaggio per l’Italia;

– il tribunale respingeva l’impugnazione del richiedente, evidenziando come dal racconto non emergessero i presupposti del diritto al rifugio nè quelli per la protezione sussidiaria, atteso il racconto lacunoso, generico ed inattendibile;

– il tribunale precisava, inoltre, come non fosse neppure sussistente la fattispecie del conflitto armato nella accezione della violenza generalizzata rilevante ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c);

– il tribunale escludeva, infine, la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari stante la mancata allegazione di una effettiva lesione di diritti fondamentali;

– la cassazione del decreto impugnato è chiesta sulla base di tre motivi;

– non ha svolto attività difensiva l’intimato Ministero.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– va preliminarmente osservato che mentre, nella sintesi di motivi, le censure sono indicate nel numero di tre, nel prosieguo del ricorso la numerazione non segue tale ordine, sicchè le censure sono esaminate secondo la sintesi iniziale;

– con il primo motivo di ricorso si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5 e con riferimento al diniego dello status di rifugiato, la violazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra, D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5,7,14,16 e 17, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1 e artt. 2,10,32 della Cost.;

– secondo il ricorrente, la motivazione posta a fondamento dell’esclusione dello status di rifugiato sarebbe del tutto apparente ed inesistente, essendo circoscritta alle tre righe in fondo a pagina 3 del decreto ove si enuncia che alla stregua dello stesso racconto suesposto, non sussistono i presupposti della protezione D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 7, atteso che non sono state neppure dedotte, ai sensi di tale disposizione, situazioni di persecuzione intesa quale vessazione o repressione violenta implacabile;

– la censura è infondata;

– non ricorre nella motivazione sopra citata la fattispecie della motivazione apparente od inesistente (cfr. Cass. Sez. Un. 22232/2016), essendo possibile comprendere che la ratio decidendi del diniego del riconoscimento dello status di rifugiato va individuata nella considerazione che il racconto del richiedente non ha ad oggetto fatti di persecuzione quali quelli per natura e forma descritti nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7 e cioè inerenti ai diritti umani fondamentali ed inderogabili e aventi le forme della violenza fisica e psichica ovvero di provvedimenti legislativi, giudiziari ecc. ecc. (cfr. del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 7, comma 2, lett. da a) ad f));

– con il medesimo motivo si censura, sempre con riferimento al diritto al rifugio, la valutazione di non credibilità delle dichiarazioni del cittadino straniero, asseritamente svolta in violazione del dovere di cooperazione istruttoria;

– il motivo è pure infondato;

– come ha già stabilito questa Corte (cfr. Cass. n. 18353/2006; Cass. n. 26260/2005 e più recentemente Cass. n. 19197/2015) il requisito essenziale per il riconoscimento dello “status” di rifugiato è il fondato timore di persecuzione “personale e diretta” nel Paese d’origine del richiedente, a causa della razza, della religione, della nazionalità, dell’appartenenza ad un gruppo sociale ovvero per le opinioni politiche professate; il relativo onere probatorio incombe sull’istante, per il quale è, tuttavia, sufficiente provare anche in via indiziaria la “credibilità” dei fatti da esso segnalati;

– in tale prospettiva, si comprende che l’onere di allegazione di fatti credibili a sostegno della domanda di protezione internazionale ricade sul richiedente, e che l’espletamento di quest’onere risulta essenziale perchè possa sorgere un dovere di cooperazione istruttoria;

– nel caso di specie, la motivazione del provvedimento impugnato risulta priva di vizi perchè il giudice ha precisato che con il racconto del richiedente non è stata dedotta nessuna situazione di persecuzione o vessazione personale e per questa ragione non sussistono i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e rispetto a tale conclusione non appare rilevante la valutazione sulla credibilità del racconto che ha ad oggetto una lite familiare scatenata dal rifiuto dell’aiuto finanziario richiesto;

– con il secondo motivo di ricorso, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 e con riferimento al diniego della protezione sussidiaria, la violazione dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra, D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3, 5,7,14,16 e 17, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1 e artt. 2,10,32 della Cost.;

– ad avviso del ricorrente, per un verso, il tribunale non ha correttamente valutato la credibilità del racconto e la sussistenza dei presupposti in relazione alle fattispecie del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, sub a) e b) e, per altro verso, non ha proceduto ad una effettiva valutazione delle allegazioni di parte nè ha svolto alcuna istruttoria e, pertanto, la motivazione in ordine al diniego della protezione sussidiaria è del tutto assente o illogica o apparente;

– la censura è infondata;

– la motivazione del provvedimento impugnato è esente da vizi, perchè la valutazione sulla credibilità è stata svolta, anche in relazione alla protezione sussidiaria, in conformità ai principi enunciati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e nel D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, ed incentrati sulla procedimentalizzazione legale della decisione; le modalità procedimentali sono poi strettamente correlate con il principio dell’onere probatorio attenuato e della cooperazione ufficiosa;

– in particolare, il decreto impugnato tiene conto dei criteri distintamente fissati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e argomenta la conclusione di non credibilità, con la considerazione che la narrazione dei fatti è, complessivamente considerata, lacunosa, quindi non circostanziata (cfr. lett. a), non plausibile (lett. c) e, in generale, non attendibile (lett. e);

– tale valutazione, condotta alla stregua dei criteri legali, non appare fondatamente censurabile quale violazione di legge;

– per quanto concerne la fattispecie della protezione sussidiaria del citato art. 14, sub lett. c), la censura è pure infondata perchè il tribunale ha comunque escluso, all’esito della consultazione dei report internazionali specificamente indicati (cfr. pag. 4 e 5 del decreto), la sussistenza di violenza indiscriminata tale per cui la sola presenza del richiedente nel Paese di provenienza ed in particolare nel Delta State, lo esponga a minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona (cfr. Cass. 18308/2019; id. 13858/2018; id. 20083/2017);

– la censura non attinge la correttezza della conclusione raggiunta dal tribunale, dal momento che il richiedente non ha indicato report alternativi a quelli consultati dal tribunale dai quali evincere che la situazione socio-politica nel Delta State sia caratterizzata da violenza indiscriminata tale per cui ogni civile sia esposto a grave minaccia di vita;

– anche dai report allegati dal ricorrente, come da quelli valorizzati dal tribunale risulta, infatti, che l’esposizione al rischio di violenza è nel Delta State circoscritta e diretta nei confronti delle basi petrolifere presenti sul territorio, con le quali il richiedente non ha allegato alcun collegamento;

– con il terzo motivo si censura, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per avere negato la protezione umanitaria sulla base di una motivazione apparente costituita dall’affermazione (cfr. pag. 6 del decreto) che “Nel caso di specie non risulta un’effettiva lesione di diritti fondamentali del medesimo nè è comprovata una specifica situazione denotante vulnerabilità del soggetto il quale, per sua stessa ammissione ha genericamente dichiarato di temere, in caso di suo rientro in patria di essere ucciso”;

– la censura è infondata;

– il tribunale ha esaminato la domanda e escluso la ravvisabilità di una specifica vulnerabilità ostativa al rimpatrio forzoso, valutando generico il timore espresso dal ricorrente; tale motivazione di carattere individuale non è attinta dalla censura che richiama le generali condizioni di vita, sanitarie, ambientali economiche della Nigeria per sollecitare una conclusione diversa da quella cui è giunto il tribunale;

– tuttavia, è noto il carattere personale della situazione che giustifica il riconoscimento della protezione umanitaria e tale non può essere la generale e deteriore condizione sociale in cui verrebbe a trovarsi il richiedente a seguito del rimpatrio forzoso (cfr. Cass. 23757/2019), dovendo la condizione di vulnerabilità rilevante ai fini del rilascio del permesso di soggiorno, essere ancorata alla sua situazione psicofisica attuale ed al contesto culturale e sociale di riferimento (cfr. Cass. 13088/2019);

– in tale prospettiva il timore espresso dal richiedente e non altrimenti giustificato di essere ucciso, correttamente non è stato ritenuto integrare la necessaria condizione di vulnerabilità;

– peraltro, il tribunale ha anche tenuto conto delle condizioni del richiedente in riferimento al transito in Libia prima di arrivare in Italia, così come ha considerato l’integrazione sociale da lui raggiunta in Italia nonchè la sua condizione psicosociale risultante dalla relazione allegata alla domanda, confermando, alla luce di tutti questi profili, l’insussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria;

– atteso l’esito sfavorevole di tutti i motivi, il ricorso va respinto;

– nulla va disposto sulle spese stante il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato ministero;

– ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 21 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2021

 

 

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