Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6030 del 23/02/2022

Cassazione civile sez. trib., 23/02/2022, (ud. 28/01/2022, dep. 23/02/2022), n.6030

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28746/2013 R.G. proposto da

BMS s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa dall’avv. Escalar Gabriele, presso cui è

elettivamente domiciliata in Roma, via Enrico Tazzoli, n. 6;

– ricorrente e controricorrente incidentale –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

cui ha domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 43/29/13 della Commissione tributaria

regionale del Veneto, depositata in data 26 aprile 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 gennaio

2022 dal consigliere Cataldi Michele.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. La BMS s.r.l. ricorre, con sette articolati motivi, per la cassazione della sentenza n. 43/29/13 della Commissione tributaria regionale del Veneto, depositata in data 26 aprile 2013, che ha rigettato l’appello della contribuente contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Vicenza, che aveva rigettato il ricorso della medesima società avverso l’avviso di accertamento notificatole dall’Agenzia delle entrate ed avente ad oggetto la maggiore Ires, relativa all’anno di imposta 2005.

Nella sentenza impugnata il giudice a quo richiama in fatto la descrizione della fattispecie contenuta nell’avviso di accertamento, rappresentata dal contratto di prestito alla BMS s.r.l. di azioni della società Mont Bazon, società avente sede nella zona franca di Madeira, da parte della DFD Czech, società di diritto ceco, che era titolare dei titoli azionari prestati.

La CTR rileva che l’Amministrazione, nella motivazione dell’accertamento, ” stigmatizza la circostanza che il contratto (…) presenti quale unica causa esclusiva l’ottenimento di un’evasione d’imposta”, ed aggiunge che “può ben condividersi l’assunto dell’ufficio secondo il quale il contratto di stock lending sottoscritto dalla società BMS nel 2004 sia nullo (…).”. Aggiunge la CTR che il contratto “pur in presenza di una palese antieconomicità dell’operazione – vista l’elevatezza della commissione richiesta” e considerato che ” l’evento aleatorio, individuato nell’ammontare dei dividendi distribuiti dalla società Mont Bazon, e parte essenziale del contratto de qua, in realtà non sussiste”, rendeva ” Ben più rilevante, se non unico, il vantaggio fiscale conseguito, sul dividendo imponibile e sulla commissione interamente deducibile, che ha comportato un risparmio d’imposta di Euro 94.652,24″.

L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso, contenente altresì ricorso incidentale, affidato a due motivi.

La ricorrente resiste al ricorso incidentale con controricorso incidentale.

E’ in atti memoria della ricorrente.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1.Appare necessariamente preliminare l’esame dei due motivi del ricorso incidentale dell’Ufficio, da trattare congiuntamente perché sostanzialmente sovrapponibili.

Infatti con il primo motivo di ricorso incidentale l’Amministrazione deduce la violazione dell’art. 327 c.p.c. e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 49 e 51, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; mentre con il secondo motivo la ricorrente incidentale lamenta la medesima violazione, inquadrandola tuttavia nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c, comma 1, n. 4.

Con entrambi i motivi l’Ufficio eccepisce che, essendo pacifica la data (26 luglio 2011, come indicato nel ricorso e nel controricorso) del deposito della sentenza di primo grado, non notificata, il termine semestrale per la notifica dell’appello scadeva lunedì 12 marzo 2012, mentre la notifica dell’impugnazione era stata spedita, a mezzo posta, con due raccomandate dirette all’Agenzia delle entrate (una indirizzata alla Direzione provinciale di Vicenza, l’altra all’ufficio locale di Thiene), in data 13 marzo 2012, come risultava dal contrassegno apposto su ciascuno dei due plichi, riprodotti nel controricorso.

I motivi sono infondati, atteso che, come risulta dalle ricevute di spedizione delle due raccomandate in questione (documenti, riprodotti dalla contribuente nel controricorso al ricorso incidentale e ad esso allegati), queste ultime sono state consegnate all’Ufficio postale il 12 marzo 2012, quindi tempestivamente, avuto riguardo allo stesso termine di decadenza dall’impugnazione indicato dalla ricorrente incidentale e tenuto conto della pacifica e concorde indicazione della data di deposito della sentenza appellata quale dies a quo.

2.Venendo all’esame del ricorso principale, dato atto preliminarmente della formulazione, da parte della ricorrente principale, dei quesiti di diritto a corredo dei motivi di ricorso, va rilevato che l’art. 366-bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, e contenente la previsione della formulazione del quesito di diritto, come condizione di ammissibilità del ricorso per cassazione, si applica ratione temporis ai ricorsi proposti avverso sentenze e provvedimenti pubblicati a decorrere dal 2 marzo 2006 (data di entrata in vigore del medesimo decreto) e fino al 4 luglio 2009 (data dalla quale opera la successiva abrogazione della norma, disposta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47) (Cass., sez. 5, 19/11/2014, n. 24597). Ne consegue che la norma de qua non trova applicazione nel presente giudizio.

3. Con il primo motivo di ricorso principale la società ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p..c, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 37-bis e 41-bis e chiede la cassazione della sentenza impugnata, nella parte in cui la C.T.R. ha respinto il relativo motivo di gravame, avendo ritenuto che l’Ufficio potesse sottrarsi agli obblighi di contraddittorio preventivo previsti, a pena di nullità, dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, invocando di avere emanato un avviso di accertamento c.d. “parziale” ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41-bis.

4. Con il secondo motivo di ricorso principale la società ricorrente

deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la sentenza impugnata omesso di pronunciarsi su tutti i “motivi preliminari” formulati dalla contribuente nell’appello, ovvero “quelli volti a contestare l’illegittimo esercizio del potere di accertamento da parte dell’Ufficio”, con riferimento specifico ai motivi relativi alla “contraddittorietà e insufficienza della motivazione dell’avviso di accertamento impugnato”; nonché “alla violazione del principio di imparzialità e dei principi di buona fede e collaborazione da parte dell’Amministrazione finanziaria”. Tali motivi d’appello, secondo la ricorrente, sono stati formulati in relazione ad eccezioni che attingevano innanzitutto la nullità dell’atto impositivo impugnato.

5. Con il terzo motivo di ricorso principale la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 20 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, 39 e 42; della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3; e degli artt. 1325,1343,1344 e 1345 c.c. e art. 12 preleggi.

Sostiene la contribuente che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici di secondo grado, i contratti conclusi per scopi esclusivamente fiscali non possono reputarsi nulli per mancanza di causa o per illiceità della causa o perché conclusi in frode alla legge e che, laddove questa Corte ha ritenuto contestabile la nullità del negozio per frode alla legge tributaria (Cass. 26/10/2005, n. 20816; Cass26/06/2009, n. 15029), lo ha fatto con riguardo a operazioni poste in essere prima della entrata in vigore della norma antielusiva del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis; mentre lo specifico regime d’inopponibilità dei negozi conclusi in frode alla legge tributaria introdotta da tale ultima norma preclude l’applicazione, per le materie ed operazioni così individuate, del principio di nullità dei negozi per frode alla legge sancito dall’art. 1344 c.c..

Aggiunge che la disposizione di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 10, comma 3, non consente di contestare la nullità dei contratti conclusi in elusione dalla legge tributaria con effetto dalla sua entrata in vigore.

Assume, inoltre, che la norma antielusiva del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis ed i relativi obblighi di contraddittorio preventivo devono trovare applicazione ogniqualvolta sia contestata l’integrazione dei relativi presupposti di applicabilità, ponendosi altrimenti la norma in contrasto con i principi costituzionali di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost e di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., poiché legittimerebbe l’Ufficio a negare le garanzie così individuate, ricorrendo all’espediente di contestare la nullità dei negozi posti in essere dal contribuente.

In sintesi, deduce che la violazione delle disposizioni di carattere fiscale non comporta mai la nullità del contratto posto in essere dal contribuente, in quanto l’Amministrazione finanziaria, per eccepire l’inopponibilità degli effetti di tale contratto, è tenuta altresì a dimostrare l’aggiramento di specifici divieti ed obblighi tributari, nonché il conseguimento di un vantaggio fiscale indebito perché ottenuto in elusione di tali divieti e obblighi.

6. Con il quarto motivo di ricorso principale la ricorrente denuncia,

in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1325,1343,1344,1345,1362,1367,1414,1418,1813,1815 e 1933 c.c., per avere i giudici di secondo grado negato di poter sussumere il contratto di prestito di azioni nella tipologia del mutuo disciplinato dall’art. 1815 c.c., ritenendo che esso configurasse invece un contratto aleatorio. I giudici, ad avviso della ricorrente, hanno in tal modo violato non solo l’art. 1362 c.c., perché hanno interpretato il contratto in modo opposto alla comune intenzione delle parti contraenti, desumibile dal tenore letterale delle clausole, ma anche l’art. 1815 c.c., avendo ritenuto che la determinazione del corrispettivo costituisca elemento essenziale del contratto di mutuo, come tale idoneo ad incidere sulla sua causa.

Le parti, aggiunge la ricorrente, in realtà, avevano inteso concludere un contratto di mutuo, come emergeva dalle clausole del contratto e dal loro comportamento.

La circostanza che la commissione annuale fosse commisurata ai dividendi distribuiti dalla Mont Bazon non mutava la natura del contratto, essendo ben possibile nel contratto di mutuo la pattuizione di un corrispettivo non prefissato, ma variabile; neppure tale contratto aveva causa di scommessa, posto che la scommessa postula l’assunzione da parte di entrambi i contraenti del rischio contrapposto ed equivalente di eseguire una prestazione, che poi dovrà essere eseguita da uno solo dei due, caratteristica questa non rinvenibile nel contratto di prestito di azioni da essa concluso.

La nullità del contratto per mancanza o illiceità della causa neppure può farsi discendere dal fatto che esso, a prescindere dagli effetti fiscali, generi per una delle parti una perdita economica, essendo esclusa l’esistenza di un principio di equivalenza delle prestazioni nei contratti a prestazioni corrispettive.

7. Con il quinto ed il sesto motivo di ricorso principale (sostanzialmente coincidenti) la ricorrente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (sia nella versione novellata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che in quella previgente), censura la decisione impugnata per omessa motivazione (quinto motivo) od omesso esame (sesto motivo) circa fatti decisivi che erano stati oggetto di discussione tra le parti. Precisa, al riguardo, che la CTR ha omesso di esaminare sia il fatto che l’utile di esercizio di Mont Bazon dipendeva esclusivamente dai risultati realizzati dall’organismo di investimento indipendente Selected Capital Opportunity; sia le ulteriori prove fornite a dimostrazione del fatto che la DFD non era in grado di predeterminare l’ammontare dei dividendi distribuiti da Mont Bazon e quindi l’ammontare della commissione da versare, dipendendo l’utile della società portoghese a sua volta interamente dai proventi ricevuti dall’organismo di investimento, terzo e indipendente, in cui deteneva una partecipazione per l’acquisto della quale aveva investito l’intero patrimonio; sia la circostanza che stessa DFD, nel contratto concluso con la contribuente, si era comunque obbligata a deliberare la distribuzione integrale degli utili realizzati da Mont Bazon. L’esame dei fatti rappresentati e della documentazione prodotta avrebbe dovuto indurre il giudice di merito a ritenere che DFD non aveva potuto influire in maniera decisiva sull’ammontare dei dividendi della Mont Bazon e che le parti non avevano posto in essere clausole contrattuali che eliminavano il rischio del contratto di prestito di titoli, rendendolo così nullo per mancanza di causa aleatoria.

8.Con il settimo motivo di ricorso principale la ricorrente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, e della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, commi 4 e 4-bis, per avere la CTR erroneamente escluso la deducibilità dal reddito imponibile Ires delle commissioni pagate dalla contribuente a DFD, in quanto costi sostenuti in dipendenza di contratti civilisticamente nulli. Sostiene la ricorrente che, a mente dell’art. 109, comma 5, l’inerenza dei componenti negativi di reddito alla determinazione dell’imponibile Ires è correlata al solo fatto che si riferiscano ad attività e beni da cui derivino ricavi, o altri proventi, che concorrano a formare il reddito o che fruiscano di un regime di esclusione, presupposto sussistente nel caso di specie atteso che la commissione era stata sostenuta per il prestito di azioni che erano produttive di proventi imponibili per il 5 per cento del loro ammontare. D’altro canto, la L. n. 537 del 1993, art. 14, commi 4 e 4-bis, confermano la deducibilità dei costi derivanti da contratti soltanto civilisticamente illeciti, operando il divieto di deduzione nel solo caso in cui i costi derivino da acquisti di beni e servizi direttamente utilizzati per il compimento di delitti per i quali il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale.

Aggiunge poi la ricorrente che in tema d’Iva la giurisprudenza comunitaria esclude che l’annullamento del contratto di vendita, per effetto di una disposizione civile che sanzioni tale contratto con la nullità assoluta in quanto contrario all’ordine pubblico per una causa illecita perseguita dall’alienante, comporti necessariamente la perdita del diritto alla deduzione dell’imposta sul valore aggiunto. La stessa ricorrente premette inequivocabilmente che è estranea al presente giudizio la materia dell’Iva, nel contesto della quale lo stesso motivo colloca il principio giurisprudenziale in questione, enfatizzando, anche graficamente, che esso è stato elaborato proprio sul presupposto che il diritto alla detrazione dell’Iva, in quanto parte integrante del meccanismo dell’imposta indiretta armonizzata, non può essere soggetto a limitazioni. Tuttavia, secondo la ricorrente, esso, per “osmosi”, andrebbe considerato ai fini della presente controversia, quanto meno come conferma che la nullità civilistica di un contratto, per mancanza o illiceità della sua causa, non comporti di per sé l’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria dei relativi effetti fiscali.

9. I motivi di ricorso principale, esaminati congiuntamente perché connessi, sono in parte inammissibili ed in parte infondati e vanno rigettati, anche se la motivazione della decisione impugnata deve essere corretta, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

9.1. La fattispecie in esame ha ad oggetto la stipula di un contratto denominato stock lending agreement tra la odierna ricorrente e la società ceca DFD, che consiste in un prestito di titoli contro pagamento di una commissione (fee) e contestuale costituzione da parte del mutuatario (borrower) di una garanzia, rappresentata da denaro o da altri titoli di valore complessivamente superiore a quello dei titoli ricevuti in prestito, chiamata Collaterale, a favore del mutuante (lender), a garanzia dell’obbligo di restituzione dei titoli ricevuti.

Come già chiarito da questa Corte, ” I vantaggi che il contratto di stock lending consente di conseguire al soggetto che presta i titoli vanno individuati nella possibilità di beneficiare di margini reddituali senza assumere ulteriori rischi di mercato rispetto a quelli già presenti in portafoglio, mantenendo inalterata la flessibilità nella gestione dell’investimento senza ostacolare in alcun modo le scelte operative. Autorevole dottrina, occupandosi dell’argomento, ha posto in rilievo che la fattispecie in esame è di norma caratterizzata dall’assenza di qualsiasi alea contrattuale in ordine al versamento della commissione, ben sapendo le parti sin dalla conclusione del contratto che il prestatario dovrà pagare la fee, sia che l’importo di tale commissione sarà più o meno equivalente al valore dei dividendi distribuiti. Si e’, pertanto, ritenuto che, sul piano civilistico, l’operazione sia sostanzialmente “neutrale” per il prestatario che ottiene unicamente un vantaggio fiscale, che gli deriva dalla intassabilità dei dividendi riscossi e dalla integrale deducibilità della commissione versata al prestatore.” (Cass. 13/04/2021, n. 9628, in motivazione).

9.2. Nel caso di specie, la ricorrente ha sottoscritto con la società ceca DFD Czech un contratto di prestito di azioni della Mont Bazon (società unipersonale portoghese, con sede nella zona franca di Madeira, di cui era unica azionista la DFD Czech); la Mont Bazon aveva interamente investito il suo attivo in una quota di partecipazione totalitaria in un comparto della Selected Capital Opportunity Ltd, avente sede nelle Isole Vergini britanniche. A garanzia delle obbligazioni economiche scaturenti dal contratto, la BMS s.r.l. ha depositato su un proprio conto corrente, acceso presso la Banca di Gestione Patrimoniale S.A., appartenente al gruppo bancario Credit Suisse, una provvista in denaro (collateral); la proprietà ed il possesso qualificato delle azioni sono stati temporaneamente trasferiti alla ricorrente, che le ha concesse in pegno alla DFD Czech, per garantirne la restituzione alla scadenza del prestito, ed i relativi titoli sono stati depositati presso la Ing Trust di Hong Kong; i diritti economici pertinenti alle azioni sono stati trasferiti alla ricorrente, mentre quelli amministrativi sono rimasti in capo alla DFD Czech (che si è impegnata sia a non votare, senza l’approvazione scritta della BMS s.r.l., nell’assemblea della Mont Bazon la trasformazione, la fusione, la scissione o la liquidazione della società portoghese; sia a deliberare l’integrale distribuzione dell’utile di esercizio conseuito dalla società portoghese).

Il contratto tra le società prevedeva che se la Mont Bazon avesse distribuito dividendi inferiori ad Euro 220.000,00, BMS s.r.l. non avrebbe dovuto corrispondere alla DFD Czech alcuna commissione (fee); se, invece, la Mont Bazon avesse distribuito dividendi per un ammontare uguale o superiore ad Euro 220.000,00, BMS s.r.l. avrebbe dovuto corrispondere alla DFD Czech una fee di importo pari agli stessi utili, maggiorata di una posta pari 15,22% dell’ammontare di questi ultimi, ma comunque non superiore ad Euro 346.000,00.

Dal punto di vista fiscale, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 3, i dividendi percepiti dalla BMS s.r.l. erano esenti da imposta sino al 95 per cento del loro ammontare, mentre l’eventuale commissione pagata dalla stessa BMS s.r.l. alla DFD Czech veniva integralmente dedotta stesso D.P.R., ex art. 109.

La Commissione tributaria, con la decisione impugnata in questa sede, dopo aver rilevato che l’avviso di accertamento era stato emesso D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 41-bis, e non dello stesso D.P.R., ex art. 37-bis, nel valutare la complessiva operazione, nel corso della quale i dividendi distribuiti non erano mai stati inferiori alla soglia di Euro 220.000,00, ha affermato che con il contratto in esame la contribuente (borrower) ha ottenuto l’indebito vantaggio fiscale dell’esclusione da tassazione del 95 per cento dei dividendi distribuiti dalla Mont Bazon e della deduzione integrale dal reddito fiscalmente imponibile della fee corrisposta. Il giudice di appello, inoltre, ha ritenuto che questi vantaggi fiscali costituissero la vera causa del contratto sottoscritto, da considerarsi nullo per mancanza di causa, essendo, peraltro, privo di aleatorietà, inficiata dalla potestà della DFD Czech (tender) di condizionare l’ammontare dei dividendi realizzati e distribuiti dalla Mont Bazon.

9.3. Tanto premesso, ritiene il collegio che la decisione impugnata sia da confermare, sebbene la motivazione vada corretta, ex art. 384 c.p.c..

Deve, innanzitutto, rilevarsi che sfugge alla disponibilità delle parti e spetta al giudice la determinazione della norma in base alla quale si deve giudicare la singola fattispecie. Nel caso in esame, sostanzialmente le parti concordano sull’esistenza e sul contenuto degli accordi di prestito di azioni, mentre controvertono soltanto sull’individuazione della soluzione giuridica di riferimento, in ordine alla quale la Corte ritiene, come già argomentato nelle precedenti decisioni su analoghe questioni, che l’operazione in esame debba essere traguardata ai sensi del combinato disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 8, e art. 89.

Infatti, in fattispecie analoga, questa Corte ha già ritenuto, con orientamento consolidato da una serie di pronunce conformi, che “In tema di imposte sui redditi, l’operazione di “stock lending”, ossia di prestito di azioni, che preveda, a favore del mutuatario, il diritto all’incasso dei dividendi dietro versamento al mutuante di una commissione (corrispondente, o meno, all’ammontare dei dividendi riscossi) realizza il medesimo fenomeno economico dell’usufrutto di azioni, senza che rilevi, ai fini tributari, che in un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, su un diritto di credito, sicché è soggetta ai limiti previsti dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, restando il versamento della commissione costo indeducibile.” (Cass. 12/05/2017, n. 11872; conformi Cass. 28/09/2020, n. 20424; Cass. 23/03/2021, n. 8061; Cass. 13/04/2021, n. 9628; Cass. 09/06/2021, n. 16145).

Nella formulazione vigente ratione temporis, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, dispone: ” In deroga al comma 5 non è deducibile il costo sostenuto per l’acquisto del diritto d’usufrutto o altro diritto analogo relativamente ad una partecipazione societaria da cui derivino utili esclusi ai sensi dell’art. 89″.

Come è stato evidenziato nei citati arresti giurisprudenziali, l’usufrutto di azioni è un’operazione finanziaria con la quale viene concesso il diritto a percepire i dividendi distribuiti da un’altra società, a fronte di un corrispettivo comprensivo del valore attuale dei flussi futuri di utili. Il cedente, pertanto, percepisce anticipatamente l’entità del dividendo sotto forma di corrispettivo per la cessione dell’usufrutto e il cessionario inscrive in bilancio, nell’attivo patrimoniale immateriale, il corrispondente onere. Il predetto art. 109, comma 8, dispone l’indeducibilità tributaria del costo così sostenuto, quando vengano in rilievo partecipazioni societarie da cui derivino utili esclusi da tassazione, individuando un parallelismo tra la deducibilità del costo dell’usufrutto su azioni ed imponibilità dei dividendi derivanti dalla sottostante partecipazione.

Anche nel contratto di stock /ending, come nell’usufrutto di azioni, il trasferimento (temporaneo) della titolarità del diritto a percepire il dividendo si associa ad un costo, rappresentato dalla commissione.

Il fenomeno, ad un’analisi economica e giuridico-tributaria oggettiva e sostanziale, è dunque lo stesso, senza che assuma rilievo, ai fini tributari (gli unici che qui rilevano, non essendovi la necessità di una declinatoria civilistica sul contratto), la circostanza che nell’un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, in un diritto di credito, anche perché la stessa disposizione citata si riferisce letteralmente “ad altro diritto analogo”, senza ulteriori connotazioni, ” sicché non va intesa come meramente confinata ai soli diritti reali (interpretazione che, del resto, avrebbe una valenza abrogatoria), non deponendo in tal senso né la lettera, né lo spirito della disposizione”, per cui l’interpretazione adottata non realizza alcuna impropria estensione analogica del dettato della norma (Cass. n. 11872 del 2017, cit.).

Pertanto, il costo sostenuto (ovvero la commissione) dal prestatario (borrower) per l’operazione di stock /ending deve ritenersi indeducibile come quello sostenuto dall’usufruttuario per l’acquisto del diritto d’usufrutto.

Non sembra fondata la considerazione, avanzata in dottrina, che critica l’indeducibilità del cd. “manufactured dividend”, sostenendo che la pronuncia di questa Corte (Cass. n. 11872 del 2017, cit.), che per prima ha ricondotto la fattispecie in esame alla violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, avrebbe travisato le ragioni dell’indeducibilità del costo dell’usufrutto su partecipazioni, che non si collegherebbe alla percezione, da parte dell’usufruttuario, di dividendi esclusi da imposta, ma alla simmetrica intassabilità della plusvalenza in capo al soggetto che ha costituito l’usufrutto. Tale argomento non pare sostenibile di fronte al dato testuale della norma, che equipara il “diritto di usufrutto” ad ogni “altro analogo diritto” e fa discendere l’indeducibilità del costo per l’acquisto del diritto al fatto che dalla partecipazione acquisita derivino utili esenti, ai sensi del ridetto art. 89, senza che al riguardo spieghi alcuna incidenza (diversamente da quanto opinato da parte ricorrente nella memoria illustrativa) il regime di imposizione cui è assoggettato il “prestatore” delle azioni (cfr. Cass. 09/06/2021, n. 16145, cit., in motivazione, al punto 16.4).

Del resto, la considerazione sul senso della “simmetria fiscale”, che sarebbe stata infranta dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità che prende le mosse dalla sentenza del 2017, non si adatta alla fattispecie in esame, perché, se è vera l’intassabilità della plusvalenza in capo al soggetto che ha costituito l’usufrutto, mediante lo strumento indiretto del prestito titoli con commissioni non vi potrebbe mai essere in radice qualsivoglia plusvalenza, non essendovi un contratto traslativo.

Anche la circostanza che il legislatore abbia introdotto nel tempo specifiche clausola antielusive per l’ipotesi, ad esempio, di dividend washing, nei contratti di pronti contro termine o nelle vendite di partecipazioni con patto di riacquisto, non contrasta con l’interpretazione normativa prospettata, ma significa soltanto che, a parte la clausola generale estensiva del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, si è voluta dare regolamentazione specifica a talune fattispecie di confine, altrimenti difficilmente qualificabili.

9.4. Dunque il fulcro della ripresa a tassazione – pur nel contesto della qualificazione giuridica dell’operazione, ai fini fiscali, ai sensi del combinato disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 8, e art. 89 -continua ad individuarsi, in fatto, nel medesimo presupposto, ovvero nella contestazione dell’indebita deduzione integrale dal reddito fiscalmente imponibile della fee corrisposta, contemporaneamente all’esclusione da tassazione del 95 per cento dei dividendi distribuiti dalla Mont Bazon. Ciò che costituisce (al netto delle argomentazioni – già definite irrilevanti nei citati arresti di legittimità- spese per ricondurre la fattispecie in esame a figure negoziali nulle sotto il profilo civilistico, ovvero ad ipotesi elusive) il nucleo dell’avviso d’accertamento e della motivazione della sentenza impugnata. Non vi e’, dunque, motivo per discostarsi dalle precedenti pronunce di questa Corte già ampiamente citate.

10. Per quanto fin qui detto il ricorso principale va complessivamente rigettato, essendo infondato il settimo motivo, sulla violazione dell’art. 109 T.U.I.R., ed il quarto, in ordine ad una pretesa omessa pronuncia, ed inammissibili tutti gli altri, perché irrilevanti o non decisivi alla luce dell’interpretazione normativa adottata.

10.1. Invero, ricondotto lo stock /ending nel perimetro del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, divengono inammissibili, perché irrilevanti, le doglianze (in particolare di cui al primo ed al terzo motivo) che censurano, per vari aspetti, la violazione della disposizione antielusiva dettata dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, non applicandosi quest’ultima al caso de quo. Per tali ragioni, neanche rileva che l’Amministrazione non abbia seguito lo specifico procedimento richiesto dall’art. 37-bis per la contestazione al contribuente di fattispecie elusive, come dedotto nel primo motivo di ricorso principale. Invero è la stessa ricorrente che deduce di aver ricevuto la notifica del processo verbale di constatazione che ha concluso la verifica il 22 ottobre 2009, di aver presentato le proprie osservazioni il 21 dicembre 2009 e di aver ricevuto la notifica dell’avviso d’accertamento il 15 settembre 2010. Risulta pertanto rispettata la sequenza procedimentale di attivazione del contraddittorio di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, la cui specifica violazione non è del resto lamentata dalla contribuente, la cui censura investe piuttosto gli obblighi procedimentali specifici di cui al ridetto art. 37-bis.

10.2. Inammissibili per irrilevanza, alla luce delle argomentazioni sulla natura dell’operazione già esplicate, sono le censure attinenti alla qualificazione della natura del contratto da un punto di vista strettamente civilistico, nonché alla sua validità ed efficacia (anche con riferimento alla mancanza o all’illiceità della causa o alla frode alla legge), ed in particolare di nuovo il terzo (anche con riferimento alle argomentazioni di matrice costituzionale) e poi il quarto motivo.

10.3. Pure inammissibili sono i mezzi di gravame (in particolare il quinto ed il sesto) con i quali si censurano gli accertamenti della CTR in merito al controllo esercitato dalla DFD Czech sulla Mont Bazon ed alla possibilità della prima di predeterminare i dividendi distribuiti dalla seconda; oltre che in ordine alla circostanza che l’utile di esercizio di Mont Bazon dipendeva esclusivamente dai risultati realizzati dall’organismo di investimento indipendente Selected Capital Opportunity.

Il quinto motivo è invero inammissibile anche perché formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella versione precedente a quella novellata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134. Infatti, in considerazione della di deposito della sentenza impugnata, è proprio la versione novellata che deve applicarsi al caso di specie, configurandosi il vizio denunciabile (e denunciato comunque con il sesto motivo) come ” omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.”.

Ma anche ai fini del sesto motivo, l’accertamento censurato era stato compiuto dal giudice di merito in quanto strumentale alla declaratoria di nullità del contratto di stock /ending, in una prospettiva d’indagine superata dalla sussunzione della vicenda nell’alveo del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, rispetto alla quale i fatti in questione non appaiono decisivi.

Inoltre, le censure sollecitano un nuovo e differente apprezzamento di circostanze fattuali (attraverso il riesame delle emergenze istruttorie e l’apprezzamento di attendibilità e di concludenza di determinati documenti), attività esclusivamente riservata al giudice di merito.

10.4. Infondato, come anticipato, è il settimo motivo (con cui si sostiene la deducibilità dei costi derivanti da contratti civilisticamente nulli), in quanto argomentato sull’insussistente presupposto della invalidità dello stock /ending e sull’applicabilità nella specie del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, mentre nel caso di specie, per le ragioni già esposte, si deve applicare il comma 8 della medesima disposizione, con la conseguente indeducibilità dei costi.

Premesso che l’esclusione della nullità assoluta del contratto in questione esclude ogni rilevanza della relativa questione ai fini della presente decisione, giova peraltro sottolineare che nel medesimo motivo la stessa ricorrente, nel riferirsi alla giurisprudenza comunitaria in tema d’Iva (secondo cui l’annullamento del contratto di vendita, per effetto di una disposizione civile che sanzioni tale contratto con la nullità assoluta, in quanto contrario all’ordine pubblico per una causa illecita perseguita dall’alienante, non comporterebbe necessariamente la perdita del diritto alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto), sottolinea inequivocabilmente che il principio in questione è stato elaborato sul presupposto che il diritto alla detrazione dell’Iva, in quanto parte integrante del meccanismo dell’imposta indiretta armonizzata, non può essere soggetto a limitazioni. Tuttavia la materia dell’Iva, come rilevato nello stesso mezzo, è pacificamente estranea a questo giudizio.

10.5. Infondato è il secondo motivo di ricorso, con il quale la società ricorrente deduce l’omessa pronuncia della CTR su tutti i “motivi preliminari” formulati dalla contribuente nell’appello, ovvero “quelli volti a contestare l’illegittimo esercizio del potere di accertamento da parte dell’Ufficio”, con riferimento specifico ai motivi relativi alla “contraddittorietà e insufficienza della motivazione dell’avviso di accertamento impugnato”; nonché “alla violazione del principio di imparzialità e dei principi di buona fede e collaborazione da parte dell’Amministrazione finanziaria”.

Tali motivi d’appello, secondo la ricorrente, sono stati formulati in relazione ad eccezioni che attingevano la nullità dell’atto impositivo impugnato.

Tuttavia, rigettando integralmente l’appello e confermando la sentenza impugnata, e quindi la pretesa erariale oggetto dell’accertamento, la CTR ha comunque presupposto anche la legittimità dello stesso atto impositivo ed ha quindi – almeno implicitamente, ma necessariamente- rigettato anche tali motivi di appello, poiché ” Non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo.” (Cass. 08/03/2007, n. 5351, ex plurimis).

11. Le spese si compensano per la reciproca soccombenza.

12. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica alla ricorrente incidentale il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater.

 

P.Q.M.

rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale e compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 28 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2022

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