Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6003 del 04/03/2021

Cassazione civile sez. un., 04/03/2021, (ud. 09/02/2021, dep. 04/03/2021), n.6003

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CASSANO Margherita – Presidente Aggiunto –

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente di Sezione –

Dott. MANNA Felice – Presidente di Sezione –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24918/2020 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– ricorrente –

contro

S.E., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZALE CLODIO

32, presso lo studio dell’avvocato CESARE PLACANICA, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIOVANNI MENTO;

– controricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 93/2020 della Sezione disciplinare del

Consiglio superiore della magistratura, depositata il 23/07/2020;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

09/02/2021 dal Consigliere FRANCESCO MARIA CIRILLO;

lette le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale RENATO FINOCCHI

GHERSI, il quale chiede che la Corte rigetti il ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. All’esito della trasmissione, da parte della Procura generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Reggio Calabria, dell’informativa della Guardia di finanza di Locri depositata nel procedimento penale a carico di L.D., all’epoca dei fatti Sindaco del Comune di Riace, il Ministro della giustizia ha promosso l’azione disciplinare nei confronti del Dott. S.E., Consigliere della Corte d’appello di Catanzaro, contestandogli l’illecito di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 1, e art. 3, comma 1, lett. d).

Il Ministro ha contestato al Magistrato di aver compiuto una serie di attività idonee in concreto a recare pregiudizio all’assolvimento dei doveri generali di riserbo, equilibrio e correttezza di cui all’art. 1 del D.Lgs. cit., tramite diverse condotte. Al Dott. S. è stato contestato, in particolare, di aver redatto atti amministrativi per conto di L.D., il quale era sottoposto a indagine penale per i reati di associazione a delinquere finalizzata alla truffa, falso e favoreggiamento dell’immigrazione; di essersi confrontato costantemente con il L. circa le indagini in corso, fornendo suggerimenti sulle opportune strategie difensive e sul contenuto delle dichiarazioni da rendere alla Procura inquirente; nonchè di aver svilito l’opera dei Magistrati dell’Ufficio che stava svolgendo le indagini, predisponendo comunicati di solidarietà in favore del L. e offrendosi di contattare giornalisti per pubblicizzare la situazione, allo scopo di “far sentire il fiato sul collo” alla Procura che conduceva le indagini.

2. La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con sentenza del 23 luglio 2020, ha assolto il Dott. S. dall’incolpazione a lui ascritta per essere rimasto escluso l’addebito.

La pronuncia ha premesso che il D.Lgs. n. 106 del 2006, art. 3, comma 1, lett. d), vieta innanzitutto ai magistrati di compiere attività incompatibili con la funzione giudiziaria di cui al R.D. 30 gennaio 1941, n. 12, art. 16, cioè tutti gli impieghi pubblici e privati ad eccezione di quelli ivi regolati. Alla luce di questa disposizione è incompatibile con la funzione giudiziaria l’attività di consulenza e tutta l’attività di esercizio della professione legale. Nella seconda parte della disposizione, il citato art. 3 vieta lo svolgimento di tutte le attività “tali da recare concreto pregiudizio all’assolvimento dei doveri disciplinati dall’art. 1”, cioè i doveri di imparzialità, correttezza, diligenza e laboriosità, riserbo ed equilibrio; formula, questa, che si riferisce alle attività che, pur non riconducibili a quelle imprenditoriali o libero professionali, siano comunque in grado di recare pregiudizio all’assolvimento dei doveri del magistrato.

Ciò premesso, la Sezione disciplinare ha rilevato che la fondatezza dell’incolpazione doveva essere esaminata alla luce del quadro probatorio risultante dalle intercettazioni telefoniche disposte a carico di L.D.. Nella specie, la condotta del Dott. S. non era riconducibile ad alcuno dei divieti sanzionati dal citato art. 3, dal momento che era estranea a tutte le attività di cui al R.D. n. 12 del 1941, art. 16; d’altra parte, volendola intendere come attività di consulenza, essa difettava “dei caratteri dell’abitualità e costanza idonei a farle acquisire il profilo di attività “professionale””. L’opera prestata dal magistrato in favore dell’allora Sindaco di Riace si presentava piuttosto come “una serie di consigli privatamente e gratuitamente dati ad un soggetto al quale l’incolpato è legato da un rapporto di amicizia, non per ciò solo oggetto di divieto”.

Doveva poi essere anche escluso, secondo il giudice disciplinare, che la condotta del Dott. S. potesse rientrare nella generale previsione della seconda parte del citato art. 3, posto che egli non aveva mai preso parte pubblicamente alle attività che erano state svolte a favore di L.D.. Ha poi concluso la sentenza rilevando che dalle norme dettate dai codici di procedura civile e penale in materia di astensione non può dedursi “un generale divieto di prestare generici e non abituali consigli a soggetti interessati da procedimenti giudiziari”, non costituendo fonte di responsabilità disciplinare i pareri “occasionalmente prestati dall’incolpato in seno ad un legame di amicizia”.

3. Contro la sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura propone ricorso il Ministro della giustizia, a mezzo dell’Avvocatura generale dello Stato, con atto affidato ad un solo complesso motivo.

Resiste il Dott. S.E. con controricorso.

Fissato per l’udienza pubblica del 9 febbraio 2021, il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dal sopravvenuto D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, inserito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176, senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.

Il Procuratore generale ha depositato conclusioni per iscritto, chiedendo il rigetto del ricorso.

Il Dott. S. ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, e art. 3, comma 1, lett. d), e del R.D. n. 12 del 1941, art. 16, comma 1, nonchè mancanza o mera apparenza di motivazione della sentenza, o comunque motivazione insufficiente, contraddittoria o manifestamente illogica.

Osserva il ricorrente che la sentenza impugnata, dopo una lunga premessa di carattere giuridico, ha escluso che vi sia stata violazione dei divieti di cui alla prima parte dell’art. 3, comma 1, lett. d), cit.; previsione che, a ben vedere, non era affatto oggetto di contestazione. La seconda parte della norma, invece, sanziona lo svolgimento di attività, non tassativamente elencate, che possono arrecare concreto pregiudizio all’assolvimento dei doveri di istituto; e tale seconda parte è la sola oggetto del capo di incolpazione. Ne deriva che la sentenza disciplinare, nella parte in cui esclude che vi sia l’illecito per il fatto che l’attività svolta dal Dott. S. non assumeva carattere professionale, sarebbe sorretta da una motivazione “illogica e solo apparente”. La norma sanzionatoria invocata, infatti, intende punire qualunque tipo di attività che possa recare un concreto pregiudizio all’assolvimento dei doveri professionali; la sentenza, quindi, sarebbe scorretta nella parte in cui è pervenuta alla decisione di assoluzione solo perchè il Magistrato non aveva preso parte ad attività pubbliche in difesa del Sindaco di (OMISSIS).

La pronuncia non avrebbe considerato, secondo il Ministro, che il Dott. S. aveva “preso parte con costanza alle vicende dell’amico, intervenendo su più fronti”, come emerge dal capo di incolpazione e dalla Relazione redatta dall’Ispettorato del Ministero della giustizia, al punto di assumere il ruolo di permanente “consiliori” del L..

Rileva ancora il Ministro che il comportamento tenuto dal Dott. S., protrattosi nel tempo con atteggiamenti del tutto sconvenienti, ha recato un concreto pregiudizio al dovere di riserbo cui ogni giudice è tenuto; d’altra parte, perchè tale pregiudizio si crei “è sufficiente che l’immagine esterna del magistrato sia appannata e che di ciò vi sia stata percezione esterna, sia pure soggettiva, purchè fondata su elementi concreti”. Non avrebbe importanza, in altre parole, se vi fosse o meno nel Magistrato il desiderio di aiutare un suo amico, dal momento che ciò che conta è “la lesione del dovere di riserbo, di discrezione nel parlare e nell’agire, che ha fatto sì che la sua condotta porti fondatamente a dubitare del suo equilibrio, della sua indipendenza ed imparzialità”.

Richiamate alcune pronunce di legittimità in ordine alla censura di vizio di motivazione nelle sentenze disciplinari, il Ministro della giustizia ricorda che alla Corte di cassazione è preclusa la rilettura degli elementi di fatto, ma non è precluso il controllo sulla congruità della motivazione; e il vizio di motivazione sussiste quando il giudice disciplinare indica senza un’approfondita disamina logica gli elementi sui quali fonda la sua decisione.

1.1. Rilevano le Sezioni Unite, innanzitutto, che la motivazione resa dalla Sezione disciplinare si basa, come già detto, su due fondamentali considerazioni: da un lato, quella per cui il comportamento del Dott. S. non potrebbe farsi rientrare nel novero delle attività vietate ai magistrati in base al R.D. n. 12 del 1941, art. 16; dall’altro, quella per cui tale comportamento, non avendo assunto una rilevanza pubblica ed essendo rimasto sempre nell’ambito di una relazione privata di tipo amicale, non avrebbe leso il dovere di riserbo al quale ogni magistrato è tenuto.

Rispetto a questa impostazione, il ricorso del Ministro della giustizia parte da una premessa corretta là dove mette in luce che il capo di incolpazione non contestava al Dott. S. la violazione della prima parte della fattispecie di illecito di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. d), quanto piuttosto quella di cui alla seconda parte. In altri termini, la lettura del capo di incolpazione dimostra che l’accusa disciplinare non riguardava tanto lo svolgimento “di attività incompatibili con la funzione giudiziaria” di cui al citato art. 16, quanto il fatto di aver tenuto una serie di comportamenti “tali da recare concreto pregiudizio all’assolvimento dei doveri disciplinati dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1. Consegue da ciò che la prima parte della motivazione della sentenza impugnata si presenta in qualche misura “fuori fuoco” rispetto alla contestazione accusatoria.

Altrettanto corretta è, poi, la considerazione del ricorrente secondo cui l’illecito disciplinare in esame individua una serie non tassativa di ipotesi, contrariamente a quanto avviene per la generalità delle fattispecie disciplinari regolate dal D.Lgs. n. 109 del 2006, integranti per lo più ipotesi tipiche (v., sul punto, la sentenza 24 marzo 2014, n. 6827).

1.2. Ciò premesso, il ricorso del Ministro, pur partendo dai menzionati corretti presupposti, risulta tuttavia formulato in modo tale da non riuscire a scalfire la motivazione della sentenza impugnata.

Va innanzitutto osservato che il giudice disciplinare ha compiuto una valutazione di merito, nel senso che ha letto il materiale probatorio a sua disposizione ed è pervenuto alla conclusione per cui il comportamento tenuto dal Dott. S. non era mai andato oltre la sua sfera privata e personale, posto che il contenuto delle intercettazioni telefoniche – disposte a seguito di indagini penali a carico del Sindaco di Riace L.D. – aveva evidenziato come il magistrato incolpato avesse soltanto dato una serie di consigli e suggerimenti in veste di amico. La mancanza della notorietà pubblica dei comportamenti in questione ha escluso, secondo la Sezione disciplinare, la lesione “del dovere di riserbo idonea a ledere l’immagine pubblica del magistrato o a comprometterne l’assolvimento dei doveri di equilibrio, indipendenza e imparzialità”.

E’ appena il caso di ricordare, su tale argomento, che queste Sezioni Unite, richiamando i ripetuti insegnamenti della Corte costituzionale, hanno già affermato che i magistrati devono godere “degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino”, per cui sono da considerare liberamente espletabili “le attività che costituiscono espressione di diritti fondamentali, quali la libertà di manifestazione del pensiero, di associazione, di esplicazione della personalità” (così la sentenza 10 dicembre 2013, n. 27493; sulla stessa linea anche le sentenze 17 marzo 2017, n. 6965, e 23 ottobre 2017, n. 24969). Tale libertà deve esplicarsi, però, tenendo a mente che anche lo svolgimento delle attività consentite non deve compromettere l’affidabilità e la credibilità del magistrato, in termini di indipendenza ed imparzialità (così ancora la sentenza n. 27493 del 2013).

Le affermazioni di cui alla sentenza impugnata sono quindi, almeno in linea teorica, conformi ai precetti della giurisprudenza ora richiamata.

A fronte di simile ricostruzione, il ricorso contiene un evidente errore là dove fa riferimento, per individuare gli elementi di prova che la Sezione disciplinare avrebbe omesso di considerare, alla relazione dell’Ispettorato generale del Ministero della giustizia del 25 agosto 2020 (v. ricorso a p. 13 e a p. 17). Detta relazione è successiva alla pubblicazione della sentenza impugnata e contiene una serie di riflessioni critiche sulla motivazione della stessa, sollecitando il Ministro della giustizia alla proposizione del ricorso. E’ evidente che nessuna censura omissiva può essere rivolta alla sentenza disciplinare per non aver tenuto presente un documento che ancora non c’era al momento della decisione; simile censura avrebbe dovuto riguardare, semmai, non la citata relazione ma quella, di sicuro antecedente, che aveva dato luogo al promovimento dell’azione disciplinare.

Anche volendo, tuttavia, trascurare tale evidente lapsus nell’individuazione della relazione dell’Ispettorato generale, resta il fatto che il ricorso ritiene di ravvisare nella sentenza impugnata un vizio di motivazione conseguente all’omessa valutazione, in particolare, degli elementi evidenziati alla p. 13 del ricorso, risultanti da un’informativa della Guardia di finanza in data 20 luglio 2017. Si tratta, nella ricostruzione del Ministro della giustizia, del riferimento all’operato di alcuni Colleghi e della circostanza per cui il Dott. S. si sarebbe attivato affinchè la sua iniziativa a sostegno del Sindaco L. ricevesse il più vasto appoggio tramite la diffusione sulle mailing list dei magistrati.

Osservano le Sezioni Unite, però, che tale censura si rivela non conferente e comunque non decisiva ai fini dell’esistenza del vizio di motivazione, perchè da un lato non dimostra che il contenuto di quei colloqui sia andato oltre la sfera privata delle due persone che si sono parlate e, dall’altro, non indica alcun elemento dal quale risulti che vi sia stata davvero una rilevanza esterna delle iniziative assunte. Ne consegue che anche il profilo del colloquio con una giornalista – che, secondo il ricorso, la Sezione disciplinare avrebbe trascurato – non è idoneo ai fini dell’obiettivo che il ricorrente si prefigge, perchè non consente, di per sè, di affermare che la vicenda abbia avuto una qualche rilevanza esterna contribuendo così ad appannare l’immagine di riserbo e correttezza che deve circondare ogni magistrato.

In altri termini, la valutazione di merito compiuta dal Giudice disciplinare resiste alla proposta censura, la quale finisce col risolversi nel tentativo di ottenere una rivisitazione del quadro probatorio già compiuta in sede di merito.

2. Il ricorso, pertanto, è dichiarato inammissibile.

Attesa la delicatezza delle questioni affrontate, la Corte ritiene di dover compensare le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 9 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2021

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