Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6002 del 04/03/2021

Cassazione civile sez. un., 04/03/2021, (ud. 09/02/2021, dep. 04/03/2021), n.6002

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CASSANO Margherita – Presidente Aggiunto –

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente di Sezione –

Dott. MANNA Felice – Presidente di Sezione –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22787/2020 proposto da:

G.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 135,

presso lo studio dell’avvocato PAOLO BERRUTI, che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO DISTRETTUALE DI DISCIPLINA DI MILANO, CONSIGLIO DELL’ORDINE

DEGLI AVVOCATI DI MILANO;

– intimati –

avverso la sentenza n. 86/2020 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE,

depositata il 24/06/2020;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

09/02/2021 dal Consigliere FRANCESCO MARIA CIRILLO;

lette le conclusioni scritte dell’Avvocato Generale RENATO FINOCCHI

GHERSI, il quale chiede che la Corte rigetti il ricorso in quanto

inammissibile o infondato.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. L’avv. G.G. fu sottoposto a procedimento disciplinare a seguito della comunicazione presentata al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Milano da parte di una sua cliente la quale aveva lamentato, in particolare, che il professionista – avendola assistita in un giudizio finalizzato ad ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla morte di suo marito, giudizio nel quale ella rappresentava anche la figlia minore della coppia – le avesse fatto sottoscrivere, in data 24 maggio 2010, un patto di quota lite relativo alla causa in corso. Quel patto prevedeva che, in caso di esito positivo del giudizio di appello proposto dall’avv. G. in favore della sua cliente, costei avrebbe dovuto versargli una somma pari ad un terzo di quanto eventualmente liquidato dal giudice di appello a titolo di risarcimento dei danni; il tutto senza autorizzazione del giudice tutelare.

Deliberata l’apertura del procedimento disciplinare e disposto il rinvio a giudizio in data 13 novembre 2014, divennero operativi i Consigli distrettuali di disciplina, cui gli atti vennero trasmessi.

A conclusione del procedimento, il C.D.D. di Milano ritenne il professionista responsabile dell’illecito di cui all’art. 9, e art. 29, comma 4, del Codice deontologico forense e lo condannò alla sanzione della censura.

2. La pronuncia è stata impugnata dall’avv. G. e il Consiglio nazionale forense, con sentenza del 24 giugno 2020, ha rigettato il gravame, con conferma della pronuncia del Consiglio distrettuale di disciplina.

Ha affermato il C.N.F. che il testo dell’accordo stipulato il 24 maggio 2010 non prevedeva anche l’accollo, da parte del professionista, delle spese di parte avversa in caso di sconfitta, ma solo l’eventuale rinuncia a quelle proprie, per cui era da ritenere un patto di quota lite ad effetti parziali. La sentenza ha rilevato che quel patto aveva una natura evidentemente esosa alla luce di quelle che erano le tariffe professionali all’epoca vigenti. Ed infatti, gli onorari per il primo grado non potevano superare la somma di Euro 24.000 (Euro 27.500 calcolando anche l’aumento del 15 per cento per spese generali), mentre quelle del secondo grado non potevano superare la somma di Euro 35.000, per un totale di Euro 62.500 tra i due gradi. Per cui, anche ipotizzando il carico delle spese di controparte, nella misura tra Euro 15.000 ed Euro 20.000, l’esborso complessivo non avrebbe potuto superare la somma di Euro 80.000 ovvero 85.000; pari al 60 per cento di quanto effettivamente richiesto dall’avv. G. alla sua cliente (Euro 140.000).

Ciò premesso, il C.N.F. ha osservato che il giudizio deontologico che si esprime in sede disciplinare opera su un piano diverso da quello del giudizio civile promosso tra le parti per il pagamento del compenso professionale, il che spiegava “la ragionevolezza della decisione adottata dal C.D.D. di Milano”. La decisione del Consiglio distrettuale, infatti, aveva operato un giusto contemperamento, valutando il comportamento complessivo dell’avv. G.; per cui doveva essere condiviso il giudizio ivi espresso, secondo cui il professionista non aveva agito con lealtà e correttezza nei confronti della cliente, richiedendo un compenso “sproporzionato ed eccessivo” ai sensi dell’art. 29 del C.D.F., alla luce del confronto tra l’attività espletata e la misura della remunerazione da considerare equa. Tale giudizio di disvalore non poteva essere modificato per il fatto che l’avv. G. aveva poi stipulato una transazione con la sua cliente nel giudizio di opposizione al decreto ingiuntivo per crediti professionali.

3. Contro la sentenza del C.N.F. propone ricorso l’avv. G.G. con atto affidato a quattro motivi.

Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.

Fissato per l’udienza pubblica del 9 febbraio 2021, il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dal D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, sopravvenuto art. 23, comma 8-bis, inserito dalla legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176, senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.

Il Procuratore generale ha presentato requisitoria per iscritto, chiedendo che il ricorso venga rigettato.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), nullità della sentenza per difetto di costituzione del Collegio giudicante, in relazione all’art. 158 c.p.c., e alla L. 31 dicembre 2012, n. 247, art. 34.

Osserva il ricorrente che il C.N.F. risultava composto all’udienza pubblica del 13 luglio 2019, data in cui fu assunta la decisione, da una serie di professionisti, tra i quali gli avvocati M., P., A., Ma. di (OMISSIS), O., Pa. e S.; mentre la motivazione della sentenza è stata depositata il 24 giugno 2020. Tutti gli avvocati indicati erano stati proclamati eletti in data 22 febbraio 2019, ma avverso la loro nomina è stato proposto ricorso al TAR del Lazio. Dichiarato da questo il difetto di giurisdizione, la causa è stata riassunta davanti al Tribunale ordinario di Roma il quale, con ordinanza cautelare del 13 marzo 2020, ha sospeso gli effetti della proclamazione degli eletti, ed è pendente il giudizio di merito. Rileva il ricorrente che, una volta verificatosi l’annullamento giurisdizionale della proclamazione degli eletti, “ne risulterebbe ineludibilmente concretato il difetto di costituzione del Collegio stesso, con conseguente insanabile nullità della sentenza impugnata”.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), nullità della sentenza sotto diverso profilo, per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 5), e art. 161 c.p.c., comma 2, in relazione al R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 64, comma 1.

Osserva il ricorrente che la sentenza impugnata è stata sottoscritta dal Presidente del Collegio giudicante, avv. M., e dal Segretario di udienza, avv. B.. Alla data del deposito, cioè il 24 giugno 2020, c’era già stato il suindicato provvedimento di sospensione cautelare, senz’altro operativo nei confronti dell’avv. M., il quale non avrebbe potuto validamente apporre la sua sottoscrizione. Per cui, venuto meno il suo status di componente del C.N.F., il Presidente si trovava in una situazione di impedimento (art. 132 c.p.c., comma 3), con conseguente nullità insanabile della sentenza impugnata.

3. Il primo ed il secondo motivo devono essere trattati congiuntamente, in considerazione dell’evidente connessione tra loro esistente, e sono entrambi privi di fondamento.

3.1. Queste Sezioni Unite, affrontando un problema simile a quello odierno, hanno già stabilito, nella sentenza 26 settembre 2017, n. 22358, che in tema di sanzioni disciplinari nei confronti degli avvocati, il vizio di nomina di uno o più membri del C.N.F. non può influire sulla validità originaria della pronuncia di tale organo, in quanto, ai fini della regolare costituzione del giudice, assume rilevanza il momento della deliberazione della decisione. Nel caso oggetto di quella pronuncia il vizio di composizione del collegio giudicante era diverso, come diversa fu la scansione dei tempi processuali, perchè la sentenza del C.N.F. venne deliberata e anche depositata prima del provvedimento di caducazione.

Nel caso odierno, invece, la caducazione si colloca nel periodo intermedio tra l’assunzione della decisione e il deposito.

La sentenza qui impugnata, infatti, deliberata nella camera di consiglio del 13 luglio 2019, è stata depositata il successivo 24 giugno 2020. Nelle more, come risulta dai documenti prodotti dal ricorrente, il Tribunale ordinario di Roma, con ordinanza cautelare del 13 marzo 2020, ha sospeso gli effetti della proclamazione degli eletti; successivamente, con decisione definitiva del 25 settembre 2020, prodotta dal ricorrente in sede di memorie di cui all’art. 378 c.p.c., il Tribunale ha dichiarato ineleggibili alla carica di componente del C.N.F. gli avvocati M., Pa., P., Ma. di (OMISSIS), S., A., O. e Si. Da tale declaratoria di ineleggibilità l’odierno ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata, sia in relazione alla composizione del collegio giudicante (primo motivo) che alla sottoscrizione del provvedimento impugnato da parte dell’avv. M. (secondo motivo).

3.2. Si tratta, però, di una deduzione infondata.

Costituisce costante insegnamento della giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui il momento della pronuncia della sentenza – nel quale il magistrato deve essere legittimamente preposto all’ufficio per potere adottare un provvedimento giuridicamente valido – va identificato con quello della deliberazione della decisione collegiale, mentre le successive fasi dell’iter formativo dell’atto, e cioè la stesura della motivazione, la sua sottoscrizione e la conseguente pubblicazione, non incidono sulla sostanza della pronuncia. Ne consegue che anche un giudice che ha cessato di essere titolare dell’organo deliberante può redigere la motivazione della sentenza e sottoscriverla (in quel caso di trattava di una sentenza resa dalla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura depositata dopo che i componenti del Consiglio erano cessati dalle funzioni per scadenza del mandato consiliare).

Questo principio, nel cui solco si colloca la sentenza n. 22358 del 2017 sopra richiamata, è stato costantemente ribadito in seguito (in relazione al giudice collegiale), rilevandosi che la data da tenere in considerazione ai fini della verifica sulla regolare composizione del collegio giudicante è quella della deliberazione in camera di consiglio, e non quella del successivo deposito (v., in tal senso, tra le altre, le sentenze 6 maggio 1993, n. 5227, 30 novembre 2012, n. 21437, e 4 novembre 2014, n. 23423).

Le Sezioni Unite intendono dare ulteriore continuità a questo principio, alla luce del quale la sentenza odierna non può ritenersi viziata in quanto, come si è visto, assunta nella camera di consiglio del 13 luglio 2019, cioè prima che il Tribunale di Roma pronunciasse il provvedimento cautelare di sospensiva seguito, poi, da quello definitivo di ineleggibilità. Per cui nessun rilievo assume il fatto che il deposito sia avvenuto il 24 giugno 2020, momento in cui era intervenuto il provvedimento cautelare suindicato. E’ da ritenere, d’altra parte, che il provvedimento successivo di ineleggibilità non abbia fatto venire meno il potere-dovere del collegio giudicante di condurre a termine l’iter decisionale con la sottoscrizione ed il deposito della sentenza.

Ne consegue che i primi due motivi di ricorso sono destituiti di fondamento.

4. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione dell’art. 2233 c.c., dell’art. 1362 c.c., comma 1, nonchè eccesso di potere per irragionevolezza e contraddittorietà della motivazione, in relazione al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 56, comma 2.

Rileva l’avv. G. che la sentenza impugnata manifesterebbe in modo evidente l’avversità del C.N.F. nei confronti del patto di quota lite; la decisione, infatti, limitandosi a ricalcare la motivazione del Consiglio distrettuale di disciplina senza uno specifico esame critico della stessa, si risolverebbe nella conferma dell’improbabile sillogismo sul quale essa è costruita. La doglianza ricorda che l’art. 2233 cit., che prevedeva in origine il divieto del patto di quota lite, è stato modificato dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modifiche, nella L. 4 agosto 2006, n. 248. In base a tale normativa, applicabile nella fattispecie, è stata eliminata l’obbligatorietà delle tariffe fisse, così come la possibilità di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Ne conseguirebbe che, come già rilevato in giurisprudenza, assume un ruolo fondamentale l’accordo concluso tra le parti avente ad oggetto la determinazione dei compensi in favore dell’avvocato; per cui sarebbe assurdo, secondo il ricorrente, poter affermare l’illiceità del patto di quota lite in sede disciplinare quando ben può esserne riconosciuta la liceità in sede civilistica. La censura rileva che la sentenza avrebbe, quindi, violato anche i criteri di ermeneutica del contratto.

4.1. L’esame di questo motivo esige alcuni passaggi ricostruttivi preliminari.

Com’è noto, il c.d. patto di quota lite tra l’avvocato e la parte da lui assistita ha avuto una complessa evoluzione legislativa.

Vietato in modo assoluto dall’art. 2233 c.c., comma 3, nella sua originaria formulazione, quel patto è divenuto lecito in base alla modifica di cui al D.L. n. 223 del 2006, art. 2, convertito, con modifiche, nella L. n. 248 del 2006, che ha stabilito l’abrogazione delle disposizioni legislative che prevedevano, tra l’altro, “il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti”. Il successivo art. 2 cit., comma 2 bis, introdotto in sede di conversione, ha poi riscritto l’art. 2233 c.c., u.c., stabilendo l’obbligo di forma scritta, sotto pena di nullità, per i patti conclusi tra gli avvocati e i clienti contenenti la regolazione dei compensi professionali.

La successiva nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense introdotta dalla L. 31 dicembre 2012, n. 247, pur stabilendo che la pattuizione dei compensi è libera (art. 13, comma 3), ha tuttavia esplicitamente previsto il divieto dei patti “con i quali l’avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa” (art. 13, comma 4), in tal modo reintroducendo il divieto del patto di quota lite (v. sul punto la sentenza 6 luglio 2018, n. 17726, della Terza Sezione Civile di questa Corte).

Il patto oggetto del caso odierno si colloca nel periodo intermedio

tra la riforma di cui al D.L. n. 223 del 2006, e la L. n. 247 del 2012, in quanto è stato stipulato nel 2010, quando cioè esso era, almeno in astratto, lecito.

4.2. Ciò premesso, si rileva che queste Sezioni Unite hanno già avuto modo di occuparsi del patto di quota lite in relazione al periodo intermedio ora ricordato (v. la sentenza 25 novembre 2014, n. 25012, avente ad oggetto un patto concluso nel 2008). In quella sentenza è stato stabilito, con un’enunciazione di principio alla quale va data continuità nella sede odierna, che l’aleatorietà del patto in questione “non esclude la possibilità di valutarne l’equità”. In altri termini, la liceità in astratto di quell’accordo non esclude che in sede di giudizio disciplinare possa essere valutata la concretezza del caso specifico allo scopo di verificare se “la stima effettuata dalle parti era, all’epoca della conclusione dell’accordo che lega compenso e risultato, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell’assunzione del rischio” (così la sentenza n. 25012 del 2014).

Sulla base di tale impostazione viene a cadere una delle argomentazioni difensive dell’odierno ricorrente, e cioè quella secondo cui la liceità del patto di quota lite da un punto di vista privatistico farebbe venire meno la possibilità stessa di un suo sindacato in sede disciplinare (in tal senso v. già la citata sentenza n. 17726 del 2018).

Ai fini di valutare la fondatezza o meno del motivo di ricorso in esame, quindi, queste Sezioni Unite sono chiamate a verificare se la sentenza impugnata abbia o meno svolto la necessaria valutazione, attenendosi alle regole che si sono ora ricordate. E la lettura della sentenza del C.N.F. dimostra che il giudice disciplinare ha rispettato tale impostazione.

La sentenza impugnata, infatti, ha premesso che l’incolpazione disciplinare era stata elevata ai sensi dell’art. 9, e art. 29, comma 4, del Codice deontologico forense; norma, quest’ultima, che vieta all’avvocato di “richiedere compensi o acconti manifestamente sproporzionati all’attività svolta o da svolgere”. Dopo di che, il C.N.F. ha esaminato il contenuto dell’accordo – che prevedeva l’obbligo, da parte della cliente, di versare al professionista un terzo delle somme effettivamente liquidate in favore suo e della figlia minore – ed ha posto in luce come, a fronte di un credito accertato in sede giudiziale (in favore della cliente) per la somma di Euro 432.000, la somma richiesta dall’avv. G. (Euro 180.000, poi ridotta ad Euro 140.000) fosse da ritenere eccessiva in rapporto all’attività effettivamente svolta. Nel fare questo, la sentenza ha assunto come riferimento la somma massima che l’avvocato avrebbe potuto esigere a titolo di onorario in base alle tariffe vigenti, rilevando come la stessa fosse tra gli 80.000 e gli 85.000 Euro, pari cioè al 60 per cento circa di quanto realmente richiesto (Euro 140.000). Oltre a questo, la sentenza ha ricordato che l’accordo non prevedeva, in caso di soccombenza, anche l’esonero dal pagamento delle spese della controparte e che la cliente si era determinata a stipularlo senza l’autorizzazione del giudice tutelare (la causa era stata svolta, infatti, anche a tutela dei diritti della figlia minore).

Non si tratta, dunque, di una motivazione che si fonda soltanto sul computo dei possibili onorari professionali che l’avv. G. avrebbe potuto richiedere; la sentenza non si limita – contrariamente a quanto sostiene il ricorrente – all’irrazionale “procedimento “ragionieristico” di calcolo ragguagliato alle inapplicabili tariffe”, ma affronta la liceità del patto alla luce della vicenda nella sua globalità, con un accertamento di merito che non è in questa sede sindacabile, in quanto fondato su corretti presupposti.

Ne consegue l’infondatezza del motivo in esame.

5. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 56, comma 2.

Osserva il ricorrente che la liceità del patto stipulato tra le parti il 24 maggio 2010 farebbe venire meno il presupposto stesso dell’azione disciplinare, con conseguente illiceità anche della sanzione inflitta, che il C.N.F. ha confermato attraverso il “riferimento assiomatico a principi generali in specie del tutto inconferenti”.

5.1. Il motivo deve considerarsi assorbito, sulla base delle considerazioni svolte a proposito del motivo precedente, nella parte in cui si limita a sostenere che la liceità del contestato patto farebbe venire meno la legittimità della sanzione inflitta.

Quanto, invece, all’entità della sanzione della censura, che il ricorrente ritiene eccessiva, si tratta di un profilo che attiene alla valutazione di merito del giudice disciplinare, come tale inammissibile nella presente sede di legittimità; non senza aggiungere che l’art. 29, comma 9, del Codice deontologico prevede per la violazione del precedente comma 4 la sanzione della censura.

6. Il ricorso, pertanto, è rigettato.

Poichè, nel presente giudizio di impugnazione, contraddittore necessario è il Consiglio dell’ordine territoriale, mentre non spetta una legittimazione autonoma al Consiglio distrettuale di disciplina esistente presso il medesimo, nei confronti del Consiglio distrettuale di disciplina il ricorso è inammissibile.

Non occorre provvedere sulle spese, attesa la mancata costituzione in questa sede della parte intimata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso nei confronti del C.O.A. di Milano e lo dichiara inammissibile nei confronti del Consiglio distrettuale di disciplina istituito presso il medesimo. Nulla per le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 9 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2021

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