Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5998 del 23/02/2022
Cassazione civile sez. VI, 23/02/2022, (ud. 01/12/2021, dep. 23/02/2022), n.5998
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1625/2021 R.G. proposto da:
I.C. e A.F., in qualità di aventi causa di
I.A., rappresentati e difesi dall’Avv. Giovanni Bellino,
con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile
della Corte di cassazione;
– ricorrenti –
contro
MINISTERO DELLA DIFESA, in persona del Ministro p.t., rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in
Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania n. 975/20,
depositata il 9 giugno 2020;
Udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 1 dicembre
2021 dal Consigliere Mercolino Guido.
Fatto
RILEVATO
che I.C., in qualità di erede di I.A., e A.F., in qualità di legataria, hanno proposto ricorso per cassazione, per tre motivi, illustrati anche con memoria, avverso la sentenza del 9 giugno 2020, con cui la Corte d’appello di Catania ha rigettato il gravame da loro interposto avverso la sentenza emessa il 28 aprile 2016 dal Tribunale di Catania, che aveva rigettato la domanda di riconoscimento dell’indennità aggiuntiva di cui alla L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 17, comma 2, proposta da I.M., in qualità di procuratore del dante causa dei ricorrenti, nei confronti del Ministero della difesa, a seguito dell’espropriazione, disposta con decreto del 16 dicembre 1993, di un fondo sito in Lentini (SR);
che il Ministero ha resistito con controricorso.
Diritto
CONSIDERATO
che con il primo motivo d’impugnazione i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione della L. n. 865 del 1971, art. 17, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto insussistenti i requisiti prescritti da tale disposizione, e segnatamente la coltivazione diretta del fondo, senza tener conto della mancata contestazione della circostanza che l’affittuario non era imprenditore agricolo;
che il motivo è inammissibile, per difetto di specificità, non essendo accompagnato dall’indicazione dei fatti, allegati a sostegno della domanda ed asseritamente non contestati dal convenuto, dai quali avrebbe dovuto desumersi il possesso della qualità di coltivatore diretto da parte dell’attore;
che ove infatti, come nella specie, una parte intenda far valere in sede di legittimità l’omessa considerazione da parte del giudice di merito di una circostanza di fatto che assume essere stata pacifica tra le parti, il principio di specificità dell’impugnazione impone al ricorrente di indicare in quale atto sia stata allegata la suddetta circostanza ed in virtù di quali considerazioni essa avrebbe dovuto essere ritenuta non contestata dalla controparte (cfr. Cass., Sez. VI, 12/10/2017, n. 24062; Cass., Sez. I, 18/07/2007, n. 15961);
che con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2700 c.c., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto assistita da fede privilegiata la constatazione dello stato di abbandono del fondo espropriato, contenuta nel verbale d’immissione in possesso, senza considerare che quest’ultimo non dava atto delle verifiche effettuate in proposito;
che il motivo è infondato;
che la natura di atto pubblico da riconoscersi al verbale d’immissione in possesso comporta infatti, a norma dell’art. 2700 c.c., che lo stesso fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha redatto, nonché delle dichiarazioni da lui ricevute e degli altri fatti che egli attesti avvenuti in sua presenza o da lui compiuti;
che il contenuto del verbale deve ritenersi pertanto assistito da fede privilegiata anche con riguardo alle circostanze che il pubblico ufficiale abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale, in quanto da lui personalmente riscontrabili e suscettibili di rappresentazione in termini oggettivi, restando invece escluse le affermazioni che implichino valutazioni personali, come tali suscettibili di errori di fatto (cfr. Cass., Sez. V, 5/10/2018, n. 24461; 24/11/2017, n. 28060; Cass., Sez. II, 20/03/2007, n. 6565);
che non merita pertanto censura la sentenza impugnata nella parte in cui, rilevato che dal verbale di immissione in possesso emergeva che il fondo espropriato risultava all’epoca “non coltivato ed in stato di abbandono”, ha riconosciuto a tale attestazione il valore di piena prova in ordine all’insussistenza del requisito della coltivazione del terreno da almeno un anno, trattandosi di un’affermazione avente carattere meramente descrittivo di una situazione oggettiva, direttamente constatata dal pubblico ufficiale che aveva formato il documento, riconoscibile senza margini di opinabilità e riferibile in forma imparziale;
che, in ogni caso, anche a voler escludere che la predetta attestazione fosse assistita da fede privilegiata, ai fini della verifica del requisito di cui alla L. n. 865 del 1971, art. 17, comma 2, la stessa avrebbe dovuto essere considerata pur sempre dotata di un’attendibilità intrinseca, in quanto consistente in un accertamento compiuto da un pubblico ufficiale, e quindi suscettibile di essere infirmata soltanto dalle risultanze di una specifica prova contraria (cfr. Cass., Sez. VI, 31/12/2020, n. 30056);
che, nonostante il riconoscimento dell’efficacia di piena prova alla predetta attestazione, la Corte territoriale ha ammesso la prova testimoniale contraria dedotta dalla difesa dei ricorrenti, escludendo, all’esito dell’assunzione della stessa, l’attendibilità delle deposizioni rese dai testi, e concludendo quindi, con apprezzamento rimasto incensurato in questa sede, per l’inidoneità delle stesse a smentire l’accertamento contenuto nel verbale d’immissione in possesso;
che con il terzo motivo i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 345 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto inammissibili i documenti da loro prodotti unitamente alla memoria di replica e le deduzioni agli stessi correlate, senza considerare che i primi erano già contenuti nel fascicolo di parte (fatta eccezione soltanto per un decreto assessoriale, che costituiva fonte del diritto), mentre le altre costituivano repliche alle difese avversarie;
che il motivo è inammissibile, per difetto di specificità, non essendo accompagnato né dall’indicazione del contenuto dei documenti prodotti con la memoria di replica e di quelli contenuti nel fascicolo di parte, né dalla trascrizione delle deduzioni ritenute tardive, indispensabili per consentire a questa Corte di riscontrare la veridicità delle affermazioni della ricorrente, prima ancora di valutare la ritualità della produzione e delle deduzioni, né infine dall’indicazione del contenuto del decreto assessoriale, necessaria per stabilire se, trattandosi di atto amministrativo, la relativa conoscenza fosse o meno acquisibile anche d’ufficio da parte della Corte d’appello;
che il principio jura novit curia, il quale eleva a dovere del giudice la ricerca del diritto, si riferisce infatti alle vere e proprie fonti di diritto oggettivo, cioè a quei precetti contrassegnati dal duplice connotato della normatività e della giuridicità, con la conseguente esclusione dall’ambito della sua operatività sia dei precetti aventi carattere normativo, ma non giuridico (come le regole della morale o del costume), sia di quelli aventi carattere giuridico, ma non normativo (come gli atti di autonomia privata, o gli atti amministrativi), sia infine di quelli aventi forza normativa puramente interna (come gli statuti degli enti e i regolamenti interni) (cfr. Cass., Sez. III, 20/12/2019, n. 34158; 5/07/1999, n. 6933; Cass. Sez. II, 21/11/2000, n. 15014);
che il ricorso va pertanto rigettato, con la conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come dal dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 10.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2022