Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5962 del 03/03/2020

Cassazione civile sez. III, 03/03/2020, (ud. 14/11/2019, dep. 03/03/2020), n.5962

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13483/2018 proposto da:

R.G., S.T., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA CALABRIA 56, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO MARIA

CESARO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

AMMINISTRAZIONE STRAORDINARIA L.C. SPA, in persona dei

Commissari Straordinari, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

RIPETTA 142, presso lo studio dell’avvocato STANISLAO CHIMENTI

CARACCIOLO DI NICASTRO, rappresentata e difesa dall’avvocato BIAGIO

GRASSO;

– controricorrente –

e contro

C.E., M.A., P.A., LU.CI.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 779/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 14/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/11/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto;

udito l’Avvocato VINCENZA MARIA CESARO;

udito l’Avvocato CARMEN POLLIFRONE per delega.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. S.T. e R.G. ricorrono, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 779/18, del 14 febbraio 2018, della Corte di Appello di Milano, che – accogliendo so(o parzialmente il gravame da essi esperito avverso la sentenza n. 2982/12, del 20 novembre 2012, del Tribunale di Monza – ha confermato l’accoglimento dell’azione di responsabilità esperita, nei loro confronti, dall’amministrazione straordinaria della società L.C. S.p.a., nonchè la condanna, in via solidale, al risarcimento dei danni arrecati alla massa dei creditori, stimati in Euro 7.100.000,00, importo, peraltro, limitato, quanto al S., in Euro 4.262.400,00, nonchè, quanto al R., in Euro 5.683.200,00.

2. Riferiscono, in punto di fatto, gli odierni ricorrenti che l’amministrazione straordinaria della società L.C. ebbe ad incardinare, davanti al Tribunale di Monza, due distinte cause di responsabilità, nei confronti degli amministratori e dei sindaci della società.

In particolare, nella prima di esse, l’azione veniva esperita per sentire dichiarare la responsabilità dei convenuti in relazione alla conclusione di un’articolata operazione, posta in essere – al fine di depauperare il patrimonio immobiliare della L.C. – in favore dei soci, con condanna, pertanto, dei convenuti al risarcimento dei danni nei confronti della massa dei creditori, quantificati in Euro 5.000.000,00. A tale giudizio veniva riunito altro, incardinato nei confronti degli stessi soggetti, nel quale si ipotizzavano, quali ulteriori addebiti: l’erogazione di somme, in favore della società controllata L. Tecno, a copertura di perdite e integrazioni del capitale sociale di quest’ultima; l’omessa svalutazione dei crediti nei confronti della predetta società, relativamente agli anni 2001 e 2002; l’omesso pagamento di debiti tributari e previdenziali per esercizi dal 1999 al 2004; l’occultamento dello stato di decozione della L.C., protraendo per tre anni la gestione e aggravando l’esposizione debitoria; l’omessa predisposizione di un piano di ammortamento riguardo al finanziamento concesso alla società Lu.Co..

Il giudice di prime cure, rigettata la domanda oggetto dell’originario giudizio di responsabilità, accoglieva, invece, parzialmente, le domande oggetto della seconda controversia, affermando la responsabilità degli amministratori della società Lu., G. ed C.E., nonchè B.W., R.G. e S.T., condannandoli al pagamento, in via solidale, a titolo di risarcimento dei danni alla massa dei creditori, dell’importo sopra meglio specificato, nei limiti – per gli odierni ricorrenti – anch’essi sopra meglio individuati. Veniva, invece, rigettata la domanda risarcitoria, essendo stato escluso ogni profilo di loro responsabilità, nei confronti di Ca.Do., M.A., Lu.Ci. e P.A..

Proposto gravame, in via di principalità dagli odierni ricorrenti (nonchè, per quanto qui ancora di interesse, in via incidentale da C.E.), il giudice di seconde cure accoglieva parzialmente il solo gravame principale, ed esattamente in relazione alla pretesa volta a vedere affermata la responsabilità, solidale, anche dei sindaci della società, ovvero il M., il Lu. e il P..

3. Avverso la decisione della Corte meneghina hanno proposto ricorso per cassazione il S. e il R., sulla base di tre motivi.

3.1. Con il primo motivo si deduce – con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – nullità della sentenza e del procedimento, “in relazione agli artt. 112 e 324 c.p.c.”.

Si censura la sentenza impugnata per aver attribuito, agli odierni ricorrenti, profili di responsabilità in relazione ai quali, invece, il Tribunale di Monza aveva rigettato le domande e che, pertanto, risultavano coperti da giudicato, stante la mancata proposizione di appello incidentale da parte dell’amministrazione straordinaria della società.

In particolare, la censura è rivolta contro quell’affermazione contenuta nella sentenza oggi impugnata, secondo cui “il dissesto della L.C. è stato causato da un’attività di negligente gestione da parte degli amministratori e dei sindaci già negli anni precedenti all’effettivo, tracollo, come rilevato dal CTU”. Invero, sottolineano gli odierni ricorrenti, il giudice di prime cure ha accertato la responsabilità degli amministratori, odierni ricorrenti, esclusivamente per non aver assunto, nel periodo successivo al giugno 2003, le iniziative prescritte dalla legge al verificarsi della condizione di scioglimento. Per contro, nessun profilo di responsabilità è stato loro attribuito per presunti e non meglio precisati atti di “mala gestio” posti in essere negli anni precedenti all’effettivo tracollo. Lo confermerebbe, del resto, la circostanza che il Tribunale di Monza non ha ravvisato alcun profilo di responsabilità, rigettando, pertanto, la domanda di risarcimento dei danni, proposta nei confronti dell’amministratore Ca., per essersi costui dimesso nel marzo del 2003.

3.2. Con il secondo motivo è ipotizzata – sempre con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – nullità della sentenza e del procedimento, “in relazione all’art. 111 Cost., art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4) e art. 118 disp. att. c.p.c.”.

Si assume, in questo caso, che la motivazione della sentenza impugnata si collocherebbe al di sotto del “minimo costituzionale”. Difatti, nel rigettare il gravame allora proposto dagli odierni ricorrenti, la Corte milanese si sarebbe limitata a dichiarare che, “come rilevato dal Tribunale, la situazione di aggravio e dissesto patrimoniale è stata evidente dal 2003 quando a fronte di un bilancio in perdita è stato ritenuto che si dovesse procedere alla riduzione del capitale ed all’avvio della procedura di amministrazione straordinaria”.

Ricorrerebbe, dunque, una motivazione soltanto apparente in ordine alle ragioni dell’affermata responsabilità dei ricorrenti, così come in relazione al motivo di gravame teso a censurare la decisione del giudice di prime cure di liquidare i danni in via equitativa, senza, per giunta, tener conto del fatto che l’amministrazione straordinaria non aveva “assolto l’onere di dedurre e provare il nesso di causalità e le ragioni impeditive di un rigoroso accertamento degli effetti dannosi derivanti dalla presunta condotta illecita dell’organo gestorio”.

3.3. Con il terzo motivo è ipotizzata – con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione agli artt. 2697,1226 e 2056 c.c..

Il presente motivo, proposto subordinatamente al secondo, censura quello che viene indicato come “l’arbitrario ricorso”, da parte del giudice di prime cure, al criterio equitativo, nonchè, in ogni caso, “l’erronea applicazione di esso”.

Premettono i ricorrenti come la giurisprudenza di questa Corte abbia espressamente subordinato, nei giudizi di responsabilità proposti nei confronti di amministratori di società, il ricorso al criterio equitativo alla necessaria allegazione e dimostrazione, da parte dell’attore, non soltanto di un inadempimento astrattamente idoneo a porsi come causa del danno, ma anche delle ragioni impeditive dell’accertamento degli specifici effetti dannosi derivanti dalla condotta commissiva o omissiva dell’organo gestorio. Si tratta, peraltro, di affermazioni – proseguono i ricorrenti – del tutto coerenti con il principio, di carattere generale, secondo cui il potere del giudice di liquidare il danno in via equitativa – ai sensi del combinato disposto degli artt. 1226 e 2056 c.c. – presuppone che venga provata l’esistenza dei danni risarcibili e che sia obiettivamente impossibile, o particolarmente difficile, per l’attore, dimostrarne il “quantum”.

In particolare, nella parte dedicata alla responsabilità degli amministratori per non aver assunto le iniziative prescritte dalla legge al verificarsi della causa di scioglimento e/o di insolvenza, l’amministrazione straordinaria della società chiese la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni corrispondenti a tutte le perdite maturate degli esercizi 2002-2004, ovvero anche quelle che risultino essersi prodotte dopo il verificarsi della causa di scioglimento. L’attrice, inoltre, avrebbe fatto riferimento alla necessità di liquidare i danni in via equitativa, secondo il criterio dei netti patrimoniali.

In questo modo, tuttavia, sarebbe stato disatteso il principio della causalità giuridica, dal momento che molte passività riscontrate derivano, verosimilmente, anche da atti e/o fatti anteriori alla causa di scioglimento, in quanto tali non imputabili agli amministratori. Inoltre, il Tribunale, per giustificare il ricorso al criterio equitativo, ha attribuito rilievo, assorbente ed esclusivo, alla circostanza di fatto che “il bilancio sociale muoveva cifre per decine di milioni di Euro”, circostanza non soltanto non invocata dall’amministrazione straordinaria, ma che risultava del tutto inidonea a consentire il ricorso all’art. 1226 c.c.. D’altra parte, il giudice di prime cure con valutazione poi condivisa dalla Corte di Appello – ha ritenuto opportuno valorizzare il dato grezzo dell’incremento delle passività nel periodo di prosecuzione dell’attività sociale, ascrivendo, così, agli odierni ricorrenti una parte di esse con una valutazione che i ricorrenti assumono essere stata “compiuta a spanne ed in modo del tutto approssimativo”.

Per contro, la Corte territoriale avrebbe dovuto procedere sempre secondo i ricorrenti – “ad una riclassificazione dei dati contabili, in modo tale da tener conto degli effetti sull’attivo e sul passivo dell’ipotetica liquidazione e/o dell’ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria al fine di confrontare situazioni patrimoniali omogenee”; tali principi, del resto, sarebbero stati affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha precisato che la classificazione dei dati contabili in presenza, come nel caso di specie, dei bilanci e delle altre scritture, costituisce il presupposto per poter procedere ad una corretta liquidazione equitativa, secondo il criterio della differenza tra i netti patrimoniali (sono citate, in particolare, Cass. Sez. 1, sent. 23 giugno 2008, n. 17033, nonchè Cass. Sez. Un., sent. 9 giugno 2015, n. 9100, ed altre successive).

4. Ha proposto controricorso l’amministrazione straordinaria della L.C., per chiedere che l’avversaria impugnazione sia dichiarata inammissibile o infondata.

In relazione al primo motivo di ricorso, la controricorrente ne evidenzia l’infondatezza, richiamando quella giurisprudenza secondo cui il giudice del gravame ben può enunciare ragioni ed argomentazioni diverse da quelle adottate dal primo giudice. Del pari non fondata risulterebbe anche la censura oggetto del secondo motivo di ricorso, visto che la decisione della Corte territoriale risulterebbe ricca di argomentazioni illustrative delle ragioni, di fatto e di diritto, poste a fondamento del rigetto dell’esperito gravame. Il terzo motivo, infine, sarebbe addirittura inammissibile, in applicazione del principio secondo cui “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità”. In ogni caso, poi, la censura sarebbe infondata, avendo la Corte milanese fatto corretta applicazione dei principi in tema di liquidazione equitativa del danno.

5. Sono rimasti, invece, intimati C.E., M.A., P.A. e Lu.Ci..

6. Sia i ricorrenti che la controricorrente hanno presentato memorie, insistendo nelle rispettive argomentazioni.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

7. Il ricorso è improcedibile.

7.1. Deve, infatti, rilevarsi che la notifica, agli odierni ricorrenti, della sentenza della Corte di Appello di Milano dagli stessi poi impugnata, è avvenuta telematicamente, sicchè il loro legale, nel proporre il presente ricorso, non avrebbe dovuto attestare soltanto come ha fatto – la conformità della copia analogica (“id est”, cartacea) della sentenza all’originale digitale, ma anche, pena l’improcedibilità del ricorso, della relata di notificazione e del messaggio “PEC”, formalità, quest’ultima, “necessaria, perchè solo di lì si evince il giorno e ora in cui si è perfezionata la notifica per il destinatario” (così, in motivazione, Cass. Sez. 6, ord. 22 dicembre 2017, n. 30765, Rv. 647029-01).

Anche la cd. “prova di resistenza” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 10 luglio 2013, n. 17066, Rv. 628539-01) – ovvero l’accertamento che la notifica del ricorso (nella specie, risalente al 26 aprile 2018) sia avvenuta entro il sessantesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza (nella specie, data 14 febbraio 2018) – è negativa.

7.2. Il principio testè indicato, che postula l’improcedibilità del ricorso in difetto della descritta attestazione, sebbene progressivamente consolidatosi nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., tra le altre, Cass. Sez. 6-2, ord. 15 marzo 2017, n. 6657, non massimata; Cass. Sez. 3, sent. 14 luglio 2017, n. 17450, Rv. 64496801; Cass. Sez. 2, ord. 16 ottobre 2017, n. 24347, non massimata; Cass. Sez. 3, ord. 26 ottobre 2017, n. 25429, non massimata), ha formato oggetto di ulteriori precisazioni (e parziali temperamenti), anche a fini nomofilattici.

Difatti, il Presidente della Sesta Sezione di questa Corte, innanzi alla quale la questione “de qua” si è ripetutamente riproposta nell’ambito di procedimenti fissati ex art. 380-bis c.p.c., ha ritenuto di rimettere un approfondimento della stessa al particolare collegio previsto dal punto 41.2. delle tabelle di organizzazione di questo Ufficio.

Si è, infatti, ritenuta opportuna – data la natura processuale della questione ed il suo rilievo – una composizione del collegio giudicante attraverso “consiglieri delle diverse sottosezioni”.

L’esito di tale iniziativa è stato, come detto, un’ulteriore conferma del principio (la già citata Cass. Sez. 6, ord. n. 30765 del 2017), al quale, peraltro, un indiretto avallo è stato fornito dalle Sezioni Unite di questa Corte, avendo esse affermato che “nel giudizio di cassazione, cui – ad eccezione delle comunicazioni e notificazioni a cura della cancelleria del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, ex art. 16, convertito con modificazioni in L. 17 dicembre 2012, n. 221 – non è stato ancora esteso il processo telematico, è necessario estrarre copie analogiche degli atti digitali ed attestarne la conformità, in virtù del potere appositamente conferito al difensore dalla L. n. 53 del 1994, art. 6 e art. 9, commi 1-bis e 1-ter” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 27 aprile 2018, n. 10266, Rv. 648132-01; in senso conforme anche Cass. Sez. 3, ord. 15 maggio 2018, n. 11739, Rv. 648609-01).

7.3. Nondimeno, un parziale ripensamento dell’intera tematica – o meglio, come si diceva un “temperamento” del principio dell’improcedibilità del ricorso – è stato compiuto dalle Sezioni Unite di questa Corte (investite specificamente della questione, in base ad ordinanza interlocutoria di questa Terza Sezione, la n. 28844 del 25 ottobre 2018), senza, però, che le precisazioni da esse operata escludano, nel presente caso, il descritto esito dell’improcedibilità.

Esse, infatti, hanno affermato che il “deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione, di copia analogica della decisione impugnata, sottoscritta con firma autografa e inserita nel fascicolo informatico, priva di attestazione di conformità del difensore, oppure con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non determina l’improcedibilità del ricorso per cassazione laddove il controricorrente (o uno dei controricorrenti), nel costituirsi (anche tardivamente), depositi a sua volta copia analogica della decisione ritualmente autenticata, ovvero non disconosca la conformità della copia informale all’originale; nell’ipotesi in cui, invece, la controparte (o una delle controparti) sia rimasta soltanto intimata” (che è il caso che qui rileva), “ovvero abbia effettuato il suddetto disconoscimento, per evitare di incorrere nella dichiarazione di improcedibilità il ricorrente ha l’onere di depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica, entro l’udienza di discussione o l’adunanza in Camera di consiglio” (così, Cass. Sez. Un., sent. 25 marzo 2019, n. 8312, Rv. 653597-03).

Tali principi, inoltre, si è precisato applicarsi “con riguardo al requisito del deposito della relata attestante la notificazione telematica decisione impugnata” (fr. p. 35, punto 2 della citata sentenza delle Sezioni Unite), ovvero proprio con riferimento alla fattispecie che viene qui in rilievo.

7.4. Orbene, la circostanza – come sopra rilevato – che la C., il M., il P. e il Lu., nei cui confronti la notificazione del ricorso pure è stata compiuta, siano rimasti (solo) intimati, comporta, dunque, l’improcedibilità del ricorso.

E ciò perchè nè la controricorrente, nel costituirsi, risulta aver depositato, “a sua volta copia analogica della decisione ritualmente autenticata”, nè il legale dei ricorrenti ha provveduto a depositare l’asseverazione di conformità all’originale della copia analogica, entro l’udienza di discussione; evenienze, entrambe, che sarebbero valse a determinare il superamento dell’improcedibilità (cfr. Cass. Sez. Un., sent. n. 8312 del 2019, cit.).

7.5. Il ricorso, in conclusione, è improcedibile.

8. Le spese seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico dei ricorrenti e liquidate come da dispositivo.

9. A carico dei ricorrenti sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte dichiara improcedibile il ricorso, condannando S.T. e R.G. a rifondere all’amministrazione straordinaria della società L.C. S.p.a. le spese processuali, che liquida in Euro 7.800,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 14 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2020

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