Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5953 del 04/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 04/03/2021, (ud. 16/12/2020, dep. 04/03/2021), n.5953

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

Dott. PIRARI Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27213/2011 R.G. proposto da:

Bialetti Holding s.r.l., con socio unico, in persona del legale

rappresentante pro tempore, R.F., rappresentata e

difesa dall’Avv. Giancarlo Zoppini, dall’avv. Giuseppe Russo Corvace

e dall’avv. Giuseppe Pizzonia, presso il cui studio in Roma, via

della Scrofa, n. 57, è elettivamente domiciliata, giusta delega a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro in

carica, e Agenzia delle entrate, in persona del direttore

pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n.

12;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 152/65/10 della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, depositata il 23/09/2010 e non

notificata;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

16/12/2020 dalla Dott.ssa Pirari Valeria.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. In data 31/01/2007, fu notificato alla Bialetti Holding srl avviso di accertamento, con cui, per l’anno 2003, era stata accertata una maggiore Irpeg ed era stata irrogata una sanzione di pari importo, in seguito al disconoscimento, da parte dell’ufficio, per difetto dei requisiti di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 123, comma 5, dell’utilizzo in compensazione di perdite fiscali pregresse maturate da altre società incorporate nella ricorrente; l’accertamento evidenziava, infatti, che, ai sensi della norma suddetta, l’utilizzo delle perdite fosse possibile soltanto se, nell’esercizio precedente a quello della fusione, la società cui si riferivano le perdite riportate avesse sostenuto spese per prestazioni di lavoro subordinato, circostanza che non emergeva nella specie.

Impugnato il predetto atto dalla contribuente, la CTP di Brescia respinse il ricorso della società e la CTR della Lombardia, con sentenza n. 152/65/10 depositata il 23.9.2010, respinse l’appello.

Per l’annullamento di quest’ultima sentenza ricorre la società sulla base di cinque motivi, illustrati anche con memoria. L’Agenzia delle Entrate si è difesa con controricorso.

Il giudizio, in seguito ad istanza avanzata prima della pubblicazione della sentenza, con memoria del 2/04/2019, dalla contribuente, che ne ha chiesto la sospensione o, in alternativa, il rinvio del deposito della sentenza fino al 10/06/2019, ai sensi del D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, art. 6, comma 10, convertito dalla L. 17 dicembre 2018, n. 136, è stato sospeso e rinviato a nuovo ruolo con ordinanza interlocutoria depositata il 09/05/2019.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo la società ricorrente lamenta l’illegittimità della sentenza impugnata, nella parte in cui i giudici hanno confermato la pretesa recata dall’avviso di accertamento, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 123, comma 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Ad avviso della contribuente, infatti, quando, come nella specie, la società non abbia sostenuto alcun costo per il personale dipendente in tutto il periodo preso a riferimento dalla norma, la preclusione da questa prevista non potrebbe operare, essendo invece legittimo e insindacabile (in presenza dell’altro requisito di vitalità afferente ai ricavi) l’utilizzo delle perdite. La ratio della normativa, infatti, consisterebbe nel prevenire operazioni elusive di incorporazione di società scientemente depotenziate negli ultimi anni precedenti la fusione, proprio per permettere all’incorporante di dedurre le perdite della incorporata, mentre la normativa non sarebbe applicabile ai casi, come quello di specie, in cui la situazione della società incorporata non è mutata – pur in perdita – nel periodo di riferimento, in particolare con riferimento all’assenza di costi per personale dipendente.

2. Con il secondo motivo, si deduce l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui i giudici hanno confermato la pretesa recata dall’avviso di accertamento, sostenendo che le valutazioni necessarie per la disapplicazione della norma anti, elusiva possano essere effettuate soltanto in sede di interpello, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 123, comma 5, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37 bis, comma 8, nonchè dell’art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Secondo la ricorrente, anche a volere accedere all’interpretazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 123, comma 5, dell’ufficio, tale norma avrebbe dovuto essere disapplicata per assenza dei requisiti dell’operazione elusiva, mentre la CTR ha ritenuto che la disapplicazione fosse possibile solo su espressa autorizzazione dell’Agenzia delle Entrate.

3. Con il terzo motivo, si deduce la nullità della sentenza impugnata nella parte in cui i giudici hanno confermato la pretesa recata dall’avviso di accertamento, sostenendo di non poter effettuare le valutazioni necessarie per la disapplicazione della norma antielusiva, e quindi per violazione dell’art. 112 c.p.c. e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 1 e 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. La sentenza ha, infatti, sostenuto che, in caso di disapplicazione della norma antielusiva, non sarebbe possibile per il collegio entrare nel merito delle questioni tecnico-contabili necessarie per valutare l’operazione, in contrasto con la natura di impugnazione-merito del processo tributario.

4. Con il quarto motivo, si lamenta l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui i giudici hanno confermato la pretesa recata dall’avviso di accertamento, perchè avente una motivazione insufficiente in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. La CTR non avrebbe, infatti, tenuto in conto, con adeguata motivazione, delle ragioni economiche che hanno determinato l’operazione di fusione, per quanto il ricorrente affermi di averle chiaramente esposte in atti, senza contestazione da parte dell’ufficio.

5. Con il quinto motivo, infine, si lamenta l’illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui i giudici hanno respinto la doglianza relativa alla illegittimità della irrogazione delle sanzioni, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 123, comma 5, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, comma 8, e del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Secondo il ricorrente sussistevano infatti le condizioni di oggettiva incertezza sulla normativa per la disapplicazione delle sanzioni, nè queste potevano discendere dall’applicazione della norma antielusiva di cui all’art. 37-bis, che non prevede alcuna sanzione in caso di riconoscimento di comportamento elusivo.

6. Il primo, il secondo e il terzo motivo, da trattare congiuntamente in quanto connessi, sono fondati nei termini che seguono.

Va innanzitutto premesso che il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 170 – in conformità a quanto espresso nella prima Relazione di accompagnamento, secondo cui “la trasformazione, come pure la fusione…, conserva nel sistema delle imposte sui redditi le caratteristiche che le sono proprie nel diritto civile”, trattandosi di “operazioni che, non attendendo alla gestione dell’impresa, ma esclusivamente allo status del soggetto imprenditore, lasciano inalterati i rapporti giuridici esterni, compresi quelli tributari”, stabilisce, al comma 1, che, ai fini fiscali, la trasformazione della società, ivi compresa la fusione, “non costituisce realizzo, nè distribuzione delle plusvalenze e minusvalenze dei beni, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento”, siccome produttiva non già di una vicenda estintiva-costitutiva dell’ente, bensì di un mero mutamento dell’atto costitutivo da parte dell’assemblea dei soci e, quindi, di un mero cambiamento del regime legale applicabile. Ciò comporta che a tale operazione sono applicabili i principi di neutralità fiscale, nel senso che dette operazioni non sono idonee a generare reddito, e di simmetria fiscale, nel senso della continuità dei valori fiscalmente riconosciuti dei beni che fanno parte del patrimonio dell’impresa, come anche espresso dal citato D.P.R., artt. 86, 172 e 173, non incidendo la stessa nella gestione della società, nè costituendo, di per sè, fatto generatore di redditi o perdite, nè comportando una soluzione di continuità nella vita delle società interessate o il trasferimento di ricchezza da una società all’altra, ma interessando la sola organizzazione patrimoniale e societaria dei soggetti d’imposta (in questi esatti termini, Cass., Sez. 5, 23/07/2020, n. 15757, che richiama Cass., Sez. U., 08/02/2006, n. 2637; vedi anche Cass., Sez. 5, 17/07/2019, n. 19222).

Nonostante ciò, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 123 (oggi art. 172, comma 7), (nel testo vigente ratione temporis ed applicabile fino al 31 dicembre del 2003 e dunque al caso di specie), pur prevedendo che dalla data in cui ha effetto la fusione (o incorporazione) la società da essa risultante subentra negli obblighi e nei diritti delle società fuse o incorporate relativi alle imposte sui redditi e pur riconoscendo perciò l’acquisizione, da parte della prima, del diritto all’utilizzazione delle perdite fiscali pregresse della seconda, pone, al comma 5 (oggi art. 172, comma 7), dei limiti alla deducibilità di queste ultime con lo scopo di inibire quelle operazioni che abbiano quale unica finalità il mero assorbimento, da parte dell’incorporante, delle perdite dell’incorporata e il conseguente ottenimento del relativo beneficio fiscale (in tal senso, vedi Cass., Sez. 5, 17/07/2019, n. 19222).

Tale disposizione stabilisce, infatti, che “le perdite delle società che partecipano alla fusione, compresa la società incorporante, possono essere portate in diminuzione del reddito della società risultante dalla fusione o incorporante per la parte del loro ammontare che non eccede l’ammontare del rispettivo patrimonio netto quale risulta dall’ultimo bilancio o, se inferiore, dalla situazione patrimoniale di cui all’art. 2502 c.c., senza tenere conto dei conferimenti e versamenti fatti negli ultimi 24 mesi anteriori alla data cui si riferisce la situazione stessa, e sempre che dal conto dei profitti e delle perdite della società le cui perdite sono riportabili, relativo all’esercizio precedente a quello in cui la fusione è stata deliberata, risulti un ammontare dei ricavi e proventi dell’attività caratteristica, e un ammontare delle spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi, di cui, all’art. 2425-bis c.c., parte seconda, n. 3, superiore al 40% di quello risultante dalla media degli ultimi due esercizi anteriori”. In caso di retrodatazione della fusione deliberata dalle assemblee delle società partecipanti prima dell’entrata in vigore del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, ossia prima del 4 luglio 2006, come nella specie, resta ferma, a mente del citato D.L., art. 35, comma 18, “l’applicazione delle disposizioni di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis”, con riferimento all’estensibilità delle norme di cui all’art. 172, comma 7, al risultato negativo determinabile applicando le regole ordinarie.

Secondo questa Corte, che si è riferita anche a quanto sintetizzato dalla dottrina, la riportabilità delle perdite in esito a una fusione deve essere valutata alla stregua di tre criteri: 1) il limite del patrimonio netto delle singole società (senza tenere conto dei versamenti e dei conferimenti eventualmente effettuati nel corso dei 24 mesi precedenti all’intervenuta fusione) come risultante dall’ultimo bilancio ovvero, se inferiore, dalla situazione patrimoniale predisposta nell’ambito del procedimento di fusione (art. 2501-quater c.c.); tale valore deve essere considerato quale limite massimo entro cui è consentito il riporto delle perdite e ciò al fine di evitare che si possa procedere alla fusione di una società sana con una società scarsamente patrimonializzata e carica esclusivamente di perdite pregresse;

2) le condizioni di operatività delle imprese partecipanti alla fusione rappresentate dal conseguimento da parte delle stesse nell’esercizio anteriore alla deliberazione della fusione di ricavi e proventi dell’attività caratteristica e di spese per lavoro dipendente non inferiori a una determinata percentuale (40%) rispetto alla media dei due periodi d’imposta immediatamente anteriori (con il che si vuole evitare di permettere la fusione di scatole vuote o cariche solo di perdite da portare “in dote” all’incorporante, ma ormai svuotate di ogni concreta operatività);

3) le precedenti svalutazioni sulla partecipazione alla società incorporata effettuate da parte dell’incorporante o dall’impresa che l’ha ceduta a quest’ultima (ossia all’incorporante) dopo l’esercizio di realizzazione della perdita astrattamente riportabile (in tal modo s’intende impedire che la società incorporante abbia a trarre un duplice beneficio dalla perdita in argomento: in un primo momento fruendo della svalutazione ingenerata dalla perdita di periodo conseguita dalla partecipata e in una seconda occasione previo utilizzo della medesima perdita acquisita in esito alla fusione) (in tal senso, vedi Cass., sez. 5, 20/10/2011, n. 21782, in motivazione).

Si è inoltre affermato che il criterio stabilito dall’art. 123, comma 5, per beneficiare del riporto delle perdite in esito alla fusione, ossia quello che fa riferimento alla superiorità al 40 per cento, rispetto alla media dei due periodi di imposta immediatamente precedenti, dell’ammontare dei ricavi e proventi dell’attività caratteristica e delle spese per prestazioni di lavoro dipendente e relativi contributi nell’esercizio anteriore alla delibera di fusione, persegue l’obiettivo di evitare l’incorporazione di società inattive a fini elusivi (“vitalità” della società) e la fusione di “scatole vuote” o cariche solo di perdite da portare “in dote” all’incorporante, ma ormai svuotate di ogni concreta operatività, ed esige che la società abbia una residua efficienza, costituendo il predetto limite una presunzione di legge di operatività, che rende irrilevanti, a tali fini, depotenziamenti dell’attività contenuti in tali limiti, ma senza, nel contempo, pretendere alcun depotenziamento (Vedi in termini, Cass., Sez. 5, 17/07/2019, n. 19222; anche Cass., Sez. 5, 20/10/2011, n. 21782).

Sulla base di questa premessa è stato quindi sostenuto, sia pure con riguardo all’ulteriore requisito del quantum delle perdite riportabili, che non devono essere superiori al rispettivo patrimonio netto risultante dall’ultimo bilancio, ma con argomentazione valevole anche con riferimento al criterio in esame, che “il contenuto assolutamente chiaro del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 123, comma 5 (ora art. 172, comma 7), (…) perseguendo l’obiettivo di evitare la fusione di “scatole vuote”, cariche solo di perdite, ma di fatto non operative, non consente di ravvisare deroghe o condizioni di operatività diverse da quelle stabilite” (Cass., Sez. 5, 22/12/2016, n. 26697; Cass., Sez. 5, 17/07/2019, n. 19222 cit.).

Ne consegue che soltanto in presenza di tutti i predetti requisiti è possibile riconoscere il diritto dell’incorporante alla riportabilità delle perdite dell’incorporata in esito all’operazione di fusione, derivando dall’assenza anche di uno solo di essi l’inapplicabilità del regime previsto dalla norma, alla quale va riconosciuta la funzione, operante all’interno delle norme impositive, di presiedere alla determinazione dell’imponibile e del reddito di imposta, attraverso l’individuazione di parametri oggettivi predeterminati sulla cui base la loro quantificazione deve essere operata.

In materia deve perciò essere formulato il seguente principio di diritto:

“Il diritto dell’incorporante alla riportabilità delle perdite dell’incorporata in esito ad operazione di fusione, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 123, comma 5 (oggi art. 172, comma 7), (nel testo vigente ratione temporis ed applicabile fino al 31 dicembre del 2003), opera soltanto in presenza dei tre requisiti 1) del limite del patrimonio netto delle singole società risultante dall’ultimo bilancio ovvero, se inferiore, dalla situazione patrimoniale predisposta nell’ambito del procedimento di fusione (art. 2501-quater c.c.), 2) delle condizioni di operatività delle imprese partecipanti alla fusione rappresentate dal conseguimento da parte delle stesse nell’esercizio anteriore alla deliberazione della fusione di ricavi e proventi dell’attività caratteristica e di spese per lavoro dipendente non inferiori a una determinata percentuale (40%) rispetto alla media dei due periodi d’imposta immediatamente anteriori e 3) delle precedenti svalutazioni sulla partecipazione alla società incorporata effettuate da parte dell’incorporante o dall’impresa che l’ha ceduta a quest’ultima (ossia all’incorporante) dopo l’esercizio di realizzazione della perdita astrattamente riportabile, sicchè l’assenza di uno solo di essi determina l’inapplicabilità del regime previsto dalla norma, stante la sua funzione, operante all’interno delle norme impositive, di presiedere alla determinazione dell’imponibile e del reddito di imposta, attraverso l’individuazione di parametri oggettivi predeterminati sulla cui base la loro quantificazione deve essere operata”.

6.1 Nella specie, la C.T.R. si è certamente attenuta al suddetto principio, con la conseguenza che, sotto questo profilo, la doglianza espressa dalla contribuente, laddove afferma l’applicabilità della suddetta disposizione e dunque l’utilizzabilità da parte dell’incorporante delle perdite originate in capo all’incorporata anche nei casi in cui l’attività sia stata svolta in assenza di personale, essendo a tal fine sufficiente la sussistenza dell’altro requisito di vitalità costituito dai ricavi, è certamente infondata.

I giudici di merito, invero, pur rendendo sul punto una motivazione laconica e poco perspicua, allorchè hanno sostenuto che “ad un esame approfondito dell’avviso di accertamento notificato alla Bialetti Holding s.r.l. (agli atti del fascicolo di primo grado) appare che la stessa Amministrazione abbia contestualmente, esaurientemente quanto correttamente interpretato la normativa di riferimento”, hanno sostanzialmente richiamato per relationem il contenuto dell’avviso di accertamento, condividendo l’interpretazione della norma operata dall’Ufficio che aveva, correttamente, ritenuto inapplicabile l’art. 123, comma 5, proprio in quanto “in nessuno dei tre esercizi” erano “state sostenute spese per prestazioni di lavoro subordinato e relativi contributi (v. in particolare voce 8.9 dei rispettivi conti economici)”.

6.2 Posta l’inapplicabilità, nella specie, dell’art. 123, comma 5, quale sistema per la determinazione dell’imponibile e del reddito di imposta, resta da vedere se la società abbia la possibilità di utilizzare le perdite originatesi in capo all’incorporata secondo i principi generali.

Orbene, a questo riguardo opera, ad avviso del collegio, lo sbarramento contenuto nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, inserito dal D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 7, intitolato “Riordino delle imposte sui redditi applicabili alle operazioni di cessione e conferimento di aziende, fusione, scissione e permuta di partecipazioni”, in attuazione della delega contenuta nella L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 161, lett. g), il quale sancisce l’inopponibilità al Fisco e la soggezione ad imposizione, secondo le norme eluse, degli atti, fatti e negozi, anche collegati tra loro, che siano privi di valide ragioni economiche e siano diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti, semprechè nel comportamento inopponibile vengano utilizzate determinate operazioni, tra cui le “trasformazioni, fusioni, scissioni, liquidazioni volontarie e distribuzioni ai soci di somme prelevate da voci del patrimonio netto diverse da quelle formate con utili” (comma 3, lett. a). Tale disposizione opera in modo tutt’affatto differente rispetto alla disciplina di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 123, in quanto incide sulle norme tributarie dall’esterno, inibendone l’applicazione in caso di condotta elusiva, sebbene il rigore di tale meccanismo trovi attenuazione nell’istituto previsto dal successivo comma 8, del D.P.R. n. 633 del 1973, art. 37-bis, il quale stabilisce che “le norme tributarie che, allo scopo di contrastare comportamenti elusivi, limitano deduzioni, detrazioni, crediti di imposta o altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, possono essere disapplicate qualora il contribuente dimostri che nella particolare fattispecie tali effetti elusivi non potevano verificarsi” e che “a tal fine il contribuente deve presentare istanza al direttore regionale delle entrate competente per territorio, descrivendo compiutamente l’operazione e indicando le disposizioni normative di cui chiede la disapplicazione”.

Orbene, il rapporto tra le due disposizioni, quella generale di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis (che a sua volta distingue tra condotta atipica, di cui al comma 1, e condotta tipica, di cui al comma 3; cfr. Cass., Sez. 5, 20/10/2011, n. 21782) e quella specifica stabilita dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 172, è stato variamente ricostruito in dottrina ora come di genere a specie, con conseguente inutilizzabilità del primo al fine di correggere i limiti posti dal secondo, ora come di conformità, individuando la prima norma l’insieme di obblighi e divieti sottesi alla determinazione dell’imponibile e dell’imposta e collocandosi la seconda al loro esterno al fine di salvaguardare l’effettività di quegli obblighi e divieti, ora come complementare, in quanto, soddisfatti i requisiti posti dall’art. 172, operano le disposizioni di cui all’art. 37-bis quando si dimostri che il contribuente ha violato lo spirito della norma speciale, trattandosi di norma di chiusura del sistema dei rimedi antielusivi.

Quest’ultima considerazione è stata accolta da questa Corte sulla base del principio generale dell’abuso del diritto, ravvisabile in presenza di pratiche che, pur formalmente rispettose del diritto interno o comunitario, siano mirate principalmente a ottenere benefici fiscali contrastanti con la ratio delle norme che introducono un tributo (Cass., Sez. U., 2008, 23/12/2008, n. 30055, e 31/12/2008, n. 30007; Cass., Sez. 5, 7/11/2012, n. 19234), in quanto prive di reale contenuto economico diverso dal risparmio di imposta, ciò che impone di valutare le operazioni secondo la loro essenza, sulla quale non possono influire ragioni economiche meramente marginali o teoriche, tali, quindi, da considerarsi manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti, rispetto alla finalità di conseguire un risparmio d’imposta (in tal senso Cass., Sez. 5, 20/10/2011, n. 21782, in relazione ad un caso in cui la società, che aveva sempre operato senza dipendenti, ponendosi così al di fuori dal campo applicativo del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 137, aveva assunto quale lavoratore subordinato l’amministratore della società incorporante, così da rimettersi in campo rispetto alla operatività del riporto dei debiti, ma ponendo il problema della deduzione della funzione economica dell’operazione).

E tali considerazioni valgono a maggior ragione quando l’organizzazione della società sia tale da impedire l’applicazione dell’art. 172 perchè difettano alcuni dei requisiti descritti nella norma, come quando essa operi in assenza di dipendenti, secondo quanto accaduto nella specie.

Può dunque dirsi che, anche in presenza di disposizioni specifiche, quale quella di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 172, in esame, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, pur operando dall’esterno delle norme tributarie e non dall’interno, come la prima, non si pone rispetto ad essa in posizione antinomica, ma opera, in via complementare, come clausola di chiusura con riguardo a quelle operazioni che, pur corrette rispetto al paradigma delineato dall’art. 172, presentino elementi di atipicità indicativi della nozione di elusione contemplata dalla seconda o che manifestino delle peculiarità che le pongono al di fuori della fattispecie astratta prevista dall’art. 172 citato.

E se così è, la sinergica operatività delle due disposizioni non può non consentire l’estensione all’art. 172 dell’istituto dell’interpello disapplicativo contemplato dall’art. 37-bis, u.c., il quale consente la disapplicazione delle norme antielusive correttive o impeditive di detrazioni, deduzioni o crediti di imposta quando si dimostri che nella fattispecie concreta non si sarebbero potuti realizzare gli effetti antielusivi impediti dalla relativa disposizione, non soltanto perchè il rispetto dei requisiti della prima non pone al riparo da residue condotte rientranti nel disposto della seconda, richiedendosi comunque una valutazione in concreto, ma anche perchè la stessa rigidità dei criteri normativi previsti per la fattispecie tipica non consentono di valutare se le finalità tutelate dal legislatore siano state o meno pregiudicate dagli interessi sottesi all’operazione posta in essere in concreto, esigenza questa immanente nel sistema, come arguibile, a titolo di esempio, dal richiamo all’interpello di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 11, comma 1, lett. b), contenuto nella L. 23 dicembre 1994, n. 724, art. 30, comma 4-bis, in materia di società di comodo, o allo stesso D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, contenuto nella L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 248, in tema di agevolazioni relative ad operazioni di aggregazione aziendale operative da almeno due anni.

6.3 Resta da vedere dunque se l’interpello disapplicativo, operante tanto nella fattispecie astratta di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 172, quanto in quella di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, come si è visto, implichi sempre e comunque la necessità della sua attivazione, a pena di sostanziale decadenza dalla possibilità di ottenere la disapplicazione della norma antielusiva, e, ove omesso, inibisca di conseguenza al giudice di valutare da sè la sussistenza, in concreto, dei presupposti per la disapplicazione stessa.

In assenza di precedenti sul punto, ritiene il collegio che la soluzione della questione possa indirettamente arguirsi dagli arresti giurisprudenziali che, nel prendere posizione sulla impugnabilità o meno dell’atto di diniego del direttore regionale, ne hanno chiarito natura ed efficacia.

In merito si sono formati nella giurisprudenza di questa Corte due orientamenti.

In un caso è stato sostenuto che le determinazioni del direttore regionale sull’istanza del contribuente, aventi natura di atto amministrativo definitivo e recettizio con immediata rilevanza esterna, costituiscono presupposto necessario e imprescindibile per l’esercizio del potere di disapplicazione, sicchè il parere negativo, costituendo diniego di agevolazione fiscale, è soggetto ad autonoma impugnazione D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 ex art. 19, comma 1, lett. h), siccome rientrante tra quelli tipici previsti come impugnabili da tale disposizione. Partendo da tali considerazioni, si è sostenuto, per un verso, che la mancata impugnazione del parere nei termini di legge – decorrenti dalla comunicazione al contribuente D.M. 19 giugno 1998, n. 258 ex art. 1, comma 4 – comporta la definitiva carenza del potere di disapplicazione della norma antielusiva in capo all’istante, e, per altro verso, che il relativo giudizio, vertendo in materia di diritti soggettivi e non di meri interessi legittimi, è a cognizione piena e si estende, quindi, al merito della pretesa, senza limitarsi alla mera illegittimità dell’atto, per cui, all’esito, potrà essere emessa una decisione sulla fondatezza della domanda di disapplicazione, con conseguente attribuzione, ove ne ricorrano le condizioni applicative, dell’agevolazione richiesta (Cass., Sez. 5, 15/04/2011, n. 8663).

Secondo l’orientamento maggioritario, invece, il contribuente non ha un obbligo, ma una mera facoltà di impugnare il diniego del Direttore Regionale delle Entrate di disapplicazione di norme antielusive D.P.R. n. 600 del 1973 ex art. 37-bis, comma 8, atteso che lo stesso non è atto rientrante nelle tipologie elencate dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, ma provvedimento con cui l’Amministrazione porta a conoscenza del contribuente, pur senza efficacia vincolante per questi, il proprio convincimento in ordine ad un determinato rapporto tributario (vedi Cass., Sez. 5, 05/10/2012, n. 17010; Cass., 6-5, 6/10/2017, n. 23469; Cass., Sez. 6-5, 15/12/2018, n. 3775). Tale orientamento, prendendo spunto dalla differenza ontologica esistente tra “agevolazione fiscale” e “disapplicazione di norma antielusiva”, costituendo la prima un trattamento derogatorio di favore a certe condizioni con la finalità di realizzare interessi diversi da quelli fiscali e meritevoli di tutela e consistendo la seconda nella rimozione, per fini antielusivi, dell’operatività di norme limitative di vantaggi fiscali di regola spettanti, per finalità sempre di carattere fiscale, e dalla assenza di indicazioni normative circa l’impugnabilità delle determinazioni del direttore regionale, ha ritenuto che il parere da questi espresso non sia obbligatoriamente impugnabile, non potendosi introdurre per via interpretativa una decadenza del contribuente dal diritto di contestare una pretesa tributaria, la quale conseguirebbe dall’accoglimento della tesi opposta, e che la sua mancata impugnazione non impedisca al contribuente di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale nei confronti dell’atto tipico che gli venga notificato, dimostrando in tale sede, senza preclusioni di sorta, la sussistenza delle condizioni per fruire della disapplicazione della norma antielusiva (in questi termini, Cass., Sez. 5, 05/10/2012, n. 17010 cit.; vedi anche Cass., 6-5, 6/10/2017, n. 23469; Cass., Sez. 6-5, 15/12/2018, n. 3775; Cass., Sez. 5, 20/12/2018, n. 32962; Cass., Sez. 5, 21/01/2020, n. 1230).

Ed è alla stregua delle considerazioni poste a base della decisione di mera facoltatività dell’impugnazione del parere negativo di cui all’art. 37-bis, comma 8, che può trarsi spunto per affermare che la mancata attivazione del relativo procedimento, in uno con la non cogenza dell’atto conclusivo dello stesso, non inibisca in alcun modo la facoltà del contribuente di far valere davanti al giudice adito le ragioni sostanziali della richiesta di disapplicazione della norma antielusiva, cui si correla il corrispondente dovere di quest’ultimo di esaminarle.

Pertanto, devono sul punto formularsi i seguenti principi di diritto:

“Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis (che a sua volta distingue tra condotta atipica, di cui al comma 1, e condotta tipica, di cui al comma 3), in quanto norma di chiusura del sistema dei rimedi antielusivi, si pone rispetto alla norma specifica contenuta nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 172, comma 7, in rapporto di complementarietà, nel senso che essa opera sia quando quest’ultima disposizione non sia applicabile per l’assenza di uno dei requisiti in essa indicati (nella specie, per assenza di dipendenti), sia quando, pur essendo interamente soddisfatti i requisiti posti da quest’ultima disposizione, risulti, dall’esame dell’intera operazione e dalla sussistenza di condotte atipiche anche ad essa prodromiche, che il contribuente ha comunque violato lo spirito della norma speciale. Ne consegue che l’istituto dell’interpello disapplicativo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 8, è applicabile anche alle fattispecie rientranti nella disciplina di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 172, comma 7, stante la sinergica operatività delle due disposizioni”.

“Il contribuente che intenda far valere l’illegittimità dell’operato dell’Amministrazione in ordine al mancato riconoscimento di deduzioni, detrazioni, crediti di imposta o di altre posizioni soggettive altrimenti ammesse dall’ordinamento tributario, per l’impossibilità, in concreto, del verificarsi di effetti elusivi, non è tenuto obbligatoriamente ad avanzare istanza di interpello disapplicativo ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 8, incorrendo altrimenti nella decadenza dal diritto ad ottenere la disapplicazione delle disposizioni antielusive, ma può far valere la medesima pretesa direttamente in sede giudiziale, con correlativo obbligo del giudice di pronunciarsi in merito”.

7.1 Nella specie, la C.T.R. non si è attenuta a quest’ultimo principio, allorquando ha sostenuto che la mancata attivazione del procedimento in esame inibisse la disapplicazione della norma antielusiva in sede giudiziaria, sia in quanto “trattasi di deroga speciale rimessa e accordata dal legislatore agli Uffici finanziari e non surrogabili questi, sic et simpliciter, dal collegio giudiziario”, sia in quanto il collegio giudicante non potrebbe affrontare il “compito strettamente contabile che il legislatore ha demandato a esperti funzionari dell’Amministrazione finanziaria, sulla base comunque di contabilità e di valutazioni conseguenti affrontabili solo da consulenti professionali ovvero c. t. u., i quali tra l’altro dovrebbero essere posti in condizione di esaminare le complesse documentazioni delle società incorporate, non fornite all’indagine di questo fascicolo processuale”.

Ne consegue l’accoglimento dei motivi in esame.

8. Dall’accoglimento delle prime tre censure, discende l’assorbimento della quarta e della quinta, dovendo ogni valutazione sui motivi economici sottesi all’operazione e sull’applicabilità delle sanzioni essere necessariamente adottata nel corso del giudizio di merito, quanto alla prima questione, e all’esito definitivo della lite, quanto alla seconda.

9. Per quanto detto, accolti i primi tre motivi e assorbiti il quarto e il quinto, la sentenza va cassata, con rinvio alla C.T.R. della Lombardia, in diversa composizione, che dovrà attenersi ai principi di diritto sopra espressi e provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

accoglie i primi tre motivi del ricorso; dichiara assorbiti il quarto e il quinto; cassa la decisione impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, in relazione ai motivi accolti anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2021

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