Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 594 del 15/01/2021

Cassazione civile sez. trib., 15/01/2021, (ud. 21/10/2020, dep. 15/01/2021), n.594

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25683/2013 R.G. proposto da:

P.C., rappresentato e difeso, per procura speciale in

atti, dall’Avv. Maria Teresa Vincenzi, con domicilio eletto presso

la Cancelleria della Corte di Cassazione:

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore Generale pro tempore,

rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato,

con domicilio in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Calabria n. 125/4/12, depositata l’8 ottobre 2012.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 ottobre

2020 dal Consigliere Michele Cataldi;

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. L’Agenzia delle Entrate ha notificato il 10 novembre 2006 a P.C. un avviso di accertamento sintetico, relativo all’anno d’imposta 1999, con il quale, in ragione degli incrementi patrimoniali imputati al contribuente, ha accertato, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 4, ai fini Irpef, il reddito complessivo imponibile non dichiarato e le maggiori imposte dovute, oltre ai relativi accessori ed alle sanzioni.

2. Avverso l’avviso d’accertamento ha proposto ricorso, dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Cosenza, il contribuente, eccependo in via preliminare e pregiudiziale la decadenza dell’Ufficio dal potere di accertamento in quanto esercitato oltre il termine perentorio di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, vigente ratione temporis, in base al quale l’Ufficio avrebbe dovuto procedere alla notifica dell’atto entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui era stata presentata la dichiarazione.

Il contribuente ha inoltre addotto l’inapplicabilità al caso di specie della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 10, così come modificato dal D.L. 24 dicembre 2002, n. 282, art. 5-bis, convertito dalla L. 21 febbraio 2003, n. 27, che ha prorogato di due anni – per i contribuenti che non si avvalgono delle disposizioni dettate in materia di condono dalla stessa L. n. 289 del 2002, artt. 7,8 e 9, – i termini di cui al predetto D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1.

Il contribuente, inoltre, ha lamentato anche il difetto di motivazione dell’atto impugnato e, nel merito, ha dedotto l’infondatezza dello stesso, in particolare con riferimento al quantum dell’imponibile e della pretesa erariale.

L’adita CTP ha rigettato il ricorso del contribuente.

3. Il contribuente ha appellato la sentenza di primo grado dinnanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Calabria, la quale, con la sentenza n. 125/4/12, depositata l’8 ottobre 2012, ha rigettato l’appello, confermando la decisione della CTP.

7. Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione il contribuente, affidandolo a cinque motivi.

8. L’Ufficio ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Preliminarmente, appare opportuno trattare congiuntamente, per connessione, il primo ed il quarto motivo di ricorso.

1.1. Con il primo motivo di ricorso, da ritenersi proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il contribuente lamenta la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 1, e l'”errata applicazione” della L. n. 289 del 2002, art. 10, per avere la CTR erroneamente ritenuto che, nel caso di specie, potesse applicarsi quest’ultima norma, benchè incostituzionale, perchè retroattiva rispetto all’anno d’imposta oggetto dell’accertamento, e contrastante con la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, c.d. Statuto del contribuente, in materia di efficacia temporale delle norme tributarie.

1.2. Con il quarto motivo di ricorso, da ritenersi proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il contribuente lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 289 del 2002, art. 10, atteso il contrasto della medesima fonte con la Dir. n. 77/388/CE, artt. 8 e 9, e con il Trattato CE, art. 10, come ritenuto dalla Corte di Giustizia con la sentenza 17 luglio 2008 nella causa C-132/0619. Dall’illegittimità della definizione agevolata sancita dalla predetta pronuncia, secondo il contribuente, sarebbe “auspicabile” far derivare anche quella della proroga biennale dei termini di decadenza dell’accertamento, qui sub iudice.

1.3. Il primo ed il quarto motivo sono infondati.

Infatti, questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che “In tema di condono fiscale, la proroga biennale dei termini di accertamento, accordata agli uffici finanziari dalla L. n. 289 del 2002, art. 10, opera, “in assenza di deroghe contenute nella legge”, sia nel caso in cui il contribuente non abbia inteso avvalersi delle disposizioni di favore di cui alla suddetta legge, pur avendovi astrattamente diritto, sia nel caso in cui non abbia potuto farlo, perchè raggiunto da un avviso di accertamento notificatogli prima dell’entrata in vigore della legge.” (da ultimo Cass. 19/12/2019, ex plurimis), “essendo il meccanismo finalizzato a tutelare il preminente interesse dell’Amministrazione finanziaria all’accertamento ed alla riscossione delle imposte.” (Cass. 29/05/2019, n. 14630).

E’ stato inoltre già espressamente affermato che “La disapplicazione, per contrasto con il diritto unionale, delle disposizioni interne sul condono in relazione all’IVA non incide sulla proroga dei termini per l’accertamento prevista dalla L. n. 289 del 2002, art. 10, proprio per consentire all’Amministrazione di effettuare gli adempimenti imposti dal condono senza pregiudizio per l’esercizio del potere accertativo nelle ipotesi nelle quali, per scelta del contribuente o limitazione normativa, non possa realizzarsi la definizione premiale.” (Cass. 05/07/2018, n. 17621).

Quanto poi alla pretesa illegittimità costituzionale della L. n. 289 del 2002, art. 10, la Corte Costituzionale ha già ritenuto che:

– “Non è fondata la questione di legittimità costituzionale della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 10, del D.L. 24 dicembre 2002, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2003, n. 27, art. 1, comma 1, sollevata in riferimento all’art. 24 Cost. per asserita lesione del diritto di difesa del contribuente, perchè proroga i termini per la notificazione dell’accertamento previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, anche “per i contribuenti che non possono accedere al beneficio del condono e, quindi”, assoggetta “ad un termine indefinito il cittadino alla azione di accertamento dell’Amministrazione Finanziaria”. Infatti, la disposizione denunciata fissa una proroga limitata ad un biennio e, perciò, non può mai comportare l’assoggettamento del contribuente all’azione di accertamento per un tempo indefinito.”. (Corte Cost., sent. n. 356 del 2008);

– “Non è fondata la questione di legittimità costituzionale della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 10, del D.L. 24 dicembre 2002, n. 282, convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2003, n. 27, art. 1, comma 1, sollevata in riferimento all’art. 97 Cost., poichè la disposizione censurata si porrebbe in contrasto: a) con i principi di efficienza e di buon andamento della pubblica amministrazione, nonchè con il “dovere di leale collaborazione nei confronti degli amministrati”, perchè esclude “quella minima attività di riscontro volta ad individuare la possibilità di un soggetto giuridico sottoposto ad amministrazione straordinaria di accedere al condono”; b) con i principi di buon andamento e di imparzialità della pubblica amministrazione, perchè favorisce l’amministrazione finanziaria e danneggia il contribuente il quale, per i motivi più vari, non si sia avvalso delle suddette agevolazioni fiscali. La ratio delle proroghe dei termini per la notifica degli avvisi di accertamento è quella di porre gli uffici finanziari in condizione di far fronte all’oggettivo aggravio di lavoro determinato dall’applicazione delle agevolazioni fiscali di cui alla L. n. 289 del 2002, artt. da 7 a 9, ed è, perciò, ispirata proprio a quei valori costituzionali, presupposti dall’art. 97 Cost., che i rimettenti erroneamente affermano essere stati violati dal legislatore. Invero, la suddetta proroga: a) mette la pubblica amministrazione in grado di far valere, nei confronti di tutti contribuenti ed in condizioni di uguaglianza, le pretese del fisco e non comporta, quindi, alcuna lesione dell’evocato principio di imparzialità; b) trova la propria giustificazione nell’esigenza di evitare i disservizi conseguenti all’aggravio di lavoro imposto dall’applicazione del condono e, pertanto, non viola il principio dell’efficienza della pubblica amministrazione.” (Corte Cost., sent. n. 356 del 2008).

Rispetto a tali pronunce del giudice delle leggi, la parte ricorrente non ha evidenziato ulteriori argomentazioni che, con riferimento ai medesimi parametri costituzionali o ad altri richiamati dalla stessa parte, giustifichino una nuova rimessione della norma alla stessa Corte costituzionale. Nè, comunque, la diposizione potrebbe ritenersi illegittima per il suo contrasto con la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, comma 3, per il quale “I termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti di imposta non possono essere prorogati”.

Infatti, come questa Corte ha già avuto modo di chiarire, “Le disposizioni dello statuto del contribuente – che costituiscono meri criteri guida per il giudice in sede di applicazione ed interpretazione delle norme tributarie, anche anteriormente vigenti, per risolvere eventuali dubbi ermeneutici – non hanno, nella gerarchia delle fonti, rango superiore alla legge ordinaria, con la conseguenza che esse non possono fungere da norme-parametro di costituzionalità, nè consentire la disapplicazione delle norme tributarie in asserito contrasto con le stesse; pertanto, sebbene sia esclusa l’applicazione retroattiva, in via generale, in base al principio di irretroattività codificato, in materia fiscale, in seno alla L. n. 212 del 2000, art. 3, può essere espressamente prevista dalle singole leggi tributarie.” (Cass. 20/06/2018, n. 16227).

Pertanto, considerato che l’anno di presentazione delle relative dichiarazioni (per l’anno d’imposta 1999) era il 2000, la pretesa decadenza non era maturata alla data (esposta nel ricorso) del 10 novembre 2006, quando l’atto impositivo impugnato è stato notificato alla contribuente, quindi prima che fosse decorso, dal 31 dicembre 2000, il quadriennio (ma prorogato di due anni) previsto in materia di imposte dirette.

2. Il secondo motivo di ricorso è rubricato come “violazione ed errata applicazione delle norme di diritto in tema di irretroattività della norma tributaria per l’applicazione del D.P.R. n. 600, art. 38, comma 5”., ma la lettura del suo contenuto evidenzia che in esso si evocano contemporaneamente ed indistintamente anche una pretesa omessa pronuncia della CTR, un assunto vizio di legittimità dell’atto impositivo per generiche carenze motivazionali ed un’ asserita omessa motivazione della sentenza impugnata.

Il motivo è quindi inammissibile, per la contemporanea prospettazione delle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4, 5, atteso che la lettura dell’intero corpo del relativo mezzo d’impugnazione palesa una sostanziale mescolanza e sovrapposizione di censure, che dia luogo all’inammissibile prospettazione della medesima questione sotto profili incompatibili (Cass. 23/10/2018, n. 26874; Cass. 23/09/2011, n. 19443; Cass. 11/04/2008, n. 9470), non risultando specificamente separati la trattazione delle doglianze relative all’interpretazione o all’applicazione delle norme di diritto appropriate alla fattispecie ed i profili attinenti alla ricostruzione del fatto (Cass. 11/04/2018, n. 8915; Cass. 23/04/2013, n. 9793).

Pertanto, i distinti motivi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, risultano, nel contenuto del ricorso, censure non ontologicamente distinte dallo stesso ricorrente e quindi non autonomamente individuabili, se non tramite un’inammissibile intervento di selezione e ricostruzione del mezzo d’impugnazione da parte di questa Corte.

Giova peraltro aggiungere, per completezza, che è comunque infondata la doglianza del ricorrente, relativa alla pretesa inapplicabilità, ratione temporis, all’accertamento controverso del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 5, nella versione modificata dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 2, comma 14-quater, convertito dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248, entrata in vigore il 3 dicembre 2005, che ha ridotto da cinque a quattro anni precedenti il periodo nel quale si presumono, salva prova contraria, conseguiti, in quote costanti, i redditi determinati sinteticamente con i quali è stata sostenuta la spesa per gli incrementi patrimoniali accertati.

Infatti, il D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 2, comma 14 -quinquies, convertito dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248, entrata in vigore il 3 dicembre 2005, prevede che “La disposizione di cui al comma 14-quater, ha effetto per gli accertamenti notificati a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.”. A sua volta, la L. 2 dicembre 2005, n. 248, art. 1, comma 2, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 2 dicembre 2005, n. 281, stabilisce che “La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.”, quindi dal 3 dicembre 2005. Pertanto, la novella in questione era applicabile all’accertamento sub iudice, notificato, come indicato nel ricorso, al contribuente il 10 novembre 2006, quindi dopo che la citata legge di conversione n. 248 del 2005 era entrata in vigore.

Quanto poi alla relazione tra tale disposizione ed il principio di irretroattività codificato, in materia fiscale, in seno alla L. n. 212 del 2000, art. 3, si richiama quanto ante già argomentato a proposito del primo e del quarto motivo.

3. Il terzo motivo di ricorso è rubricato come “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione nonchè difetto di motivazione della sentenza stessa” e la lettura del suo contenuto evidenzia che anche in esso si evocano contemporaneamente ed indistintamente una pretesa omessa pronuncia della CTR, un assunto vizio di legittimità dell’atto impositivo per carenze motivazionali ed un’asserita omessa motivazione della sentenza impugnata.

Anche tale motivo è quindi inammissibile, per la contemporanea, prospettazione delle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, che si traduce in una sostanziale mescolanza e sovrapposizione di censure, che dà luogo alla prospettazione della medesima questione sotto profili incompatibili. Si richiamano quindi, sul punto, le argomentazioni e le citazioni giurisprudenziali di cui alla trattazione del secondo motivo. Anche in questo caso giova aggiungere, per completezza, che ciascuno dei motivi, anche ove autonomamente considerato, sarebbe comunque infondato o ulteriormente inammissibile.

Infatti, quanto all’assunta omessa pronuncia, che pare di capire riguarderebbe l’asserita nullità dell’atto impositivo per la sua carenza di motivazione, non meglio specificata, deve rilevarsi che il giudice a quo si è invece pronunciato, non solo implicitamente, avendo confermato la sentenza impugnata e quindi l’accertamento controverso, ma anche espressamente, per quanto sinteticamente, laddove, dopo aver dato atto nello svolgimento del processo della pretesa illegittimità dello stesso atto, nella motivazione ha valutato che l’Ufficio “ha dettagliatamente riportato nell’avviso di accertamento dati ed elementi incontrovertibili” in ordine alla pretesa erariale.

Pertanto, la censura è comunque infondata.

Quanto invece alla pretesa nullità dell’atto impositivo per pretese, generiche, carenze della sua motivazione, la censura è comunque inammissibile, perchè nel giudizio tributario, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento, è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso ne riporti testualmente i passi che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentirne la verifica esclusivamente in base al ricorso medesimo, essendo il predetto avviso non un atto processuale, bensì amministrativo, la cui legittimità è necessariamente integrata dalla motivazione dei presupposti di fatto e dalle ragioni giuridiche poste a suo fondamento (Cass. 19/04/2013, n. 9536; nello stesso senso, ex plurimis, Cass. 28/06/2017, n. 16147; Cass. 06/11/2019, n. 28570). Nel caso di specie, invece, il ricorrente non ha riportato (ed anzi neppure comunque individuato), neppure in parte, i passi dell’accertamento che assume carenti e viziati.

Quanto, infine, al preteso vizio della motivazione della sentenza impugnata, il motivo è inammissibile non solo per la sua intrinseca contraddittorietà sul piano logico (non può essere insufficiente e contraddittoria la motivazione che si assume omessa integralmente), ma anche perchè formulato ai sensi della versione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non applicabile, ratione temporis, a questo giudizio, in ragione della data di deposito della sentenza impugnata.

4. Il quinto motivo di ricorso è rubricato come “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata per aver disatteso un punto decisivo della controversia, ovvero la valutazione della documentazione prodotta dal ricorrente.”.

Il motivo è inammissibile sia per la sua intrinseca contraddittorietà sul piano logico (non può essere insufficiente e contraddittoria la motivazione che si assume omessa integralmente); sia perchè formulato ai sensi delle versioni dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non applicabili, ratione temporis, a questo giudizio, in ragione della data di deposito della sentenza impugnata.

Inoltre, l’individuazione del “punto decisivo” con la “valutazione della documentazione prodotta dal ricorrente della controversia” evidenzia come, nella sostanza, il ricorrente stia censurando meramente il giudizio di fatto esposto dalla CTR e chiedendo di sostituire ad esso la propria tesi, ciò che non è consentito in questa sede di legittimità.

Ancora, il motivo è ulteriormente inammissibile perchè “Nel processo tributario di cassazione il ricorrente, pur non essendo tenuto a produrre nuovamente i documenti, in ragione dell’indisponibilità del fascicolo di parte che resta acquisito, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 25, comma 2, al fascicolo d’ufficio del giudizio svoltosi dinanzi alla commissione tributaria – del quale è sufficiente la richiesta di trasmissione ex art. 369 c.p.c., comma 3, – deve rispettare, a pena d’inammissibilità del ricorso, il diverso onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonchè dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito.” (Cass. 15/01/2019, n. 777; nello stesso senso Cass. 18/11/2015, n. 23575; Cass., Sez. U., 03/11/2011, n. 22726).

Nel caso di specie, la parte ricorrente non ha ottemperato la prescrizione di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non indicando specificamente quali documenti non sarebbero stati valutati dalla CTR; nè, comunque, il grado e la fase dei giudizi di merito nei quali essi sarebbero stati ritualmente prodotti in giudizio. Tanto meno, poi, risulta dedotta specificamente la potenziale natura decisiva dei fatti, non specificati, che tali indefiniti documenti dovrebbero dimostrare, ai sensi della versione applicabile, ratione temporis, dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1.

5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2021

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