Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5931 del 04/03/2021

Cassazione civile sez. VI, 04/03/2021, (ud. 02/02/2021, dep. 04/03/2021), n.5931

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19864-2019 proposto da:

NYMPHEUM SRL, EDITORIALE PANTHEON SRL, in persona degli

Amministratori Unici pro tempore, C.E., elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA AURELIA 455 presso lo studio dell’avvocato

MARIA LUFRANO che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

FINO 1 SECURITISATION SRL, e per essa quale mandataria la DOVALUE

SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA L. BISSOLATI 76, presso lo studio

dell’avvocato TOMMASO SPINELLI GIORDANO, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

R.I., C.L., UNICREDIT SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 3366/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 18/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 02/02/2021 dal Consigliere Relatore Dott. LOREDANA

NAZZICONE.

 

Fatto

RILEVATO

– che la Corte d’appello di Roma con sentenza del 18 maggio 2018, n. 3366, in accoglimento dell’impugnazione proposta, ha – per quanto ancora rileva – respinto la domanda di accertamento negativo del credito preteso da Unicredit s.p.a., proposta da Nympheum s.r.l., cui avevano aderito Editoriale Pantheon s.r.l., Ca.La. ed C.E., questi ultimi in proprio e quali soci della Imperium s.n.c.; in accoglimento della domanda riconvenzionale della banca, inoltre, ha condannato in solido la Nympheum s.r.l., nonchè (sino alla concorrenza di Euro 913.900,00) la Editoriale Pantheon s.r.l., Ca.La. ed C.E., questi ultimi personalmente e già quali soci della Imperium s.n.c., al pagamento della somma di Euro 895.022,21, oltre interessi e detratta la somma di Euro 27.929,26;

– che avverso questa sentenza propongono ricorso la Nympheum s.r.l., in persona dell’amministratore unico D., la Editoriale Pantheon s.r.l., in persona dell’amministratrice unica Ca.La., Ca.La. in proprio ed C.E., sulla base di cinque motivi;

– che si è costituita con controricorso Fino 1 Securitisation s.r.l. (cessionaria dei crediti di Unicredit Credit Management Bank s.p.a. in virtù di operazione di cartolarizzazione), a mezzo della mandataria doValue s.p.a., proponendo altresì ricorso incidentale per un motivo;

– che sono stati ritenuti sussistenti i presupposti ex art. 380-bis c.p.c.;

– che le parti hanno depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

– che i motivi di ricorso possono essere come di seguito riassunti:

1) omesso esame di fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avendo la corte territoriale omesso di esaminare l’eccezione di nullità dell’atto di citazione per chiamata di terzo, la Imperium di E.C. & C. s.n.c., i cui due soli soci erano Ca.La. (per il 2%) ed C.E. (per il 98%), ad opera della banca nel primo grado di giudizio, che ne ha allegato la qualità di fideiussore per i debiti della Nympheum s.r.l.: infatti, la società è stata cancellata dal registro delle imprese il (OMISSIS) e l’atto di chiamata in causa è del 19 aprile 2007; dunque, rilevata la mancata integrità del contraddittorio, la corte territoriale avrebbe dovuto rimettere gli atti innanzi al giudice di primo grado;

2) violazione e falsa applicazione dell’art. 2495 c.c., e degli artt. 106,157,164 e 269 c.p.c., in quanto la società già cancellata era priva di capacità processuale e non avrebbe potuto essere chiamata in giudizio;

3) violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per avere la sentenza impugnata condannato C.L. ed C.E. sia come fideiussori della debitrice principale Nimpheum s.r.l., sia come ex soci della società cancellata Imperium s.n.c.: senza considerare che in nessun atto del giudizio è stata indicata la rispettiva percentuale di partecipazione alla società, invece assai diversa fra i due soci predetti; che C.E. si è costituito anche quale legale rappresentante di Imperium s.n.c., ma ciò non sana l’inesistenza della chiamata in causa; che C.L. si è costituita solo in proprio e non come ex socia di detta società; ne deriva che la motivazione della sentenza impugnata è puramente apparente;

4) violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dell’art. 342 c.p.c., per avere la sentenza impugnata ritenuto aspecifico il motivo di appello relativo alla dedotta applicazione degli interessi usurari: al contrario, il motivo era del tutto specifico, dato che era stato indicato il capo censurato e l’omesso esame delle relative eccezioni formulate; inoltre, la sentenza impugnata, così come il primo giudice, ha aderito alle conclusioni della c.t.u., omettendo di svolgere la dovuta funzione di controllo sulle relative risultanze;

5) violazione e falsa applicazione degli artt. 1343 e 1346 c.c., in quanto la corte territoriale non ha ritenuto nulla la pattuizione sulla c.m.s., non considerando però le evoluzioni giurisprudenziali al riguardo e recependo acriticamente le conclusioni della c.t.u.;

– che l’unico motivo del ricorso incidentale deduce violazione e falsa applicazione della Delib. Cicr 9 febbraio 2000, artt. 2 e 7, in quanto la corte territoriale, dopo avere ritenuto aspecifica la relativa doglianza, ha ritenuto comunque non dovuta la capitalizzazione neppure annuale, con riguardo agli interessi successivi al 1 luglio 2000, sebbene non vi fosse stato nessun peggioramento al riguardo per la società correntista, ai sensi delle disposizioni menzionate;

– che la Corte territoriale, per quanto in questa sede ancora rileva, ha ritenuto che: a) è infondata l’eccezione di nullità della chiamata in giudizio della Imperium s.n.c. in primo grado, perchè, pur già cancellata la stessa dal registro delle imprese, i suoi soci non sono legittimati ad eccepirla, ai sensi dell’art. 157 c.p.c., comma 3, ed, altresì, essa non è fondata, data la presenza in giudizio degli unici due soci della stessa, a tal fine legittimi contraddittori per le obbligazioni della società estinta; b) il motivo di appello relativo alla pretesa sussistenza di interessi usurari (esclusi dalla c.t.u.) è aspecifico, non essendovi censure puntuali sulla sentenza appellata, nè potendo la parte appellante limitarsi a richiedere la rinnovazione dell’istruttoria e della c.t.u., quasi si trattasse di un nuovo giudizio; c) il motivo di appello relativo al riconoscimento della c.m.s. è aspecifico, perchè non opera riferimento al contenuto della sentenza, ma si limita a contestazioni generali, senza neppure menzionate il testo contrattuale; d) il motivo di appello relativo al riconoscimento dei tassi di interesse pattuiti è aspecifico, perchè, mentre il tribunale ha rilevato il valido esercizio dello ius variandi, il motivo si diffonde su altri temi ed è generico, senza neppure precisare quali documenti il c.t.u. non avrebbe esaminato; e) il motivo di appello relativo all’applicazione dell’anatocismo annuale, pur non specifico in modo adeguato, pone tuttavia una questione fondata, rilevabile d’ufficio ex art. 1421 c.c., in quanto non è dovuta nessuna capitalizzazione, ai sensi dell’art. 1283 c.c., posto che i contratti sono stati tutti conclusi nel 1996, onde nessuna capitalizzazione è lecita, secondo il principio affermato da Cass., sez. un., n. 23318 del 2010, per i contratti anteriori alla entrata in vigore della delibera del Cicr;

– che, ciò posto:

1) Il primo motivo è inammissibile, in quanto esso deduce l’omesso esame di fatti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, senza neppure dedurre elementi che possano costituire integrazione della fattispecie, la quale richiede che sia stato omesso l’esame di un fatto decisivo: al contrario, la parte ricorrente lamenta che la corte d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi su di un’eccezione dalla medesima sollevata, ma tale vizio non è riconducibile alla fattispecie invocata; invero, il motivo trascura del tutto la differenza fra l’omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c., e l’omesso esame di fatto decisivo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, consiste nella circostanza che nella prima l’omesso esame concerne direttamente una domanda od un’eccezione introdotta in causa (e, quindi, nel caso del motivo d’appello, uno dei fatti costitutivi della “domanda” di appello), mentre, nella seconda ipotesi l’attività di esame del giudice, che si assume omessa, non concerne direttamente la domanda o l’eccezione, ma una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione;

– che, invero, questa Corte ha già ampiamente chiarito – con principio che qui si intende ribadire – come l’omessa pronuncia su un motivo di appello integra la violazione dell’art. 112 c.p.c., e non già l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell’appello, sicchè, ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., L. n. 134 del 2012, il motivo deve essere dichiarato inammissibile (e multis, Cass. 16 marzo 2017, n. 6835; Cass. 12 ottobre 2017, n. 23930; v. pure Cass. 22 gennaio 2018, n. 1539);

2) il secondo motivo è inammissibile, per palese difetto di interesse a far valere un preteso vizio processuale da parte dei soci illimitatamente comunque responsabili;

– che, invero, occorre al riguardo osservare come, trattandosi di una società di persone, da un lato la cancellazione si presume solo estintiva, potendosi al contrario dimostrare che la società permane in vita (e multis, Cass. 28 dicembre 2017, n. 31037; Cass. 19 dicembre 2016, n. 26196), tema peraltro che non risulta affrontato nei giudizi di merito; dall’altro lato, l’integrità del contraddittorio era garantita, come condivisibilmente ritenuto dalla corte del merito, dalla presenza in causa dei due soci, i quali in ogni caso rispondono illimitatamente e personalmente delle obbligazioni sociali ex art. 2191 c.c., pur dopo l’estinzione della società, per il principio secondo cui, pur quando la società di persone sia estinta, l’obbligazione non di estingue, ma permane in capo ai soci illimitatamente, se sono appunto soci illimitatamente responsabili per i debiti sociali (v. es. Cass. 20 dicembre 2018, n. 33087; Cass. 11 agosto 2017, n. 20024; Cass. 15 novembre 2016, n. 23269; Cass. 6 luglio 2016, n. 13805); infine, e conclusivamente, la nullità dell’atto di chiamata in giudizio di una società personale non più esistente a quel momento, almeno presuntivamente, resta affatto irrilevante, proprio per la presenza in giudizio dei suoi soci, che dunque, in sostanza, sono privi di interesse a far valere detta pretesa nullità processuale (cfr. Cass. 9 agosto 2017, n. 19759);

3) il terzo motivo è manifestamente infondato, non essendo affatto la sentenza viziata da motivazione omessa o apparente, in quanto, al contrario, le diffuse argomentazioni in essa esposte tolgono in radice ogni pregio al motivo de quo;

4) il quarto motivo è manifestamente infondato, quanto al dedotto vizio di motivazione assente, per quanto appena esposto; mentre esso è inammissibile, con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 342 c.p.c., perchè – a fronte della declaratoria, da parte della sentenza impugnata, di aspecificità del relativo motivo di appello sulla legittima applicazione degli interessi, non superiori al tasso soglia usurario – non contrasta adeguatamente detta inammissibilità;

5) il quinto motivo è inammissibile, in quanto non coglie la ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha ritenuto il motivo di appello relativo al riconoscimento della c.m.s. aspecifico, con pronuncia dunque cui il motivo non si oppone validamente;

– che l’unico motivo del ricorso incidentale è manifestamente infondato, avendo, anche di recente, questa Corte ribadito che “In ragione della pronuncia di incostituzionalità del D.Lgs. n. 342 del 1999, art. 25, comma 3, le clausole anatocistiche inserite in contratti di conto corrente conclusi prima dell’entrata in vigore della Delib. Cicr 9 febbraio 2000, sono radicalmente nulle, con conseguente impraticabilità del giudizio di comparazione previsto dalla Delib. del Cicr, art. 7, comma 2, teso a verificare se le nuove pattuizioni abbiano o meno comportato un peggioramento delle condizioni precedentemente applicate, sicchè in tali contratti perchè sia introdotta validamente una nuova clausola di capitalizzazione degli interessi, è necessaria una espressa pattuizione formulata nel rispetto della predetta delibera, art. 2” (Cass. 19 maggio 2020, n. 9140; Cass., sez. un., 4 novembre 2004, n. 21095);

– che le spese vengono compensate per la reciproca soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale, compensando tra le parti le spese di lite per il giudizio di legittimità.

Dà atto che sussistono le condizioni per l’applicazione, in capo ai ricorrenti principali ed incidentale, del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, ove dovuto il contributo unificato.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2021

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