Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5924 del 08/03/2017

Cassazione civile, sez. trib., 08/03/2017, (ud. 24/10/2016, dep.08/03/2017),  n. 5924

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17416/2010 proposto da:

C.S.A., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso

la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’Avvocato FABIO PACE con studio in MILANO C.SO PORTA ROMANA 89/B

(avviso postale ex art. 135), giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

DIREZIONE REGIONALE DELLA LOMBARDIA, AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO

LOCALE DI MILANO (OMISSIS);

– intimati –

avverso la sentenza n. 56/2009 della COMM. TRIB. REG. della

LOMBARDIA, depositata il 14/05/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

24/10/2016 dal Consigliere Dott. MARCO MARULLI;

udito per il ricorrente l’Avvocato PACE che si riporta agli atti;

udito per il controricorrente l’Avvocato GAROFOLI che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1.1. Con tre distinti avvisi di accertamento notificati alla parte il 7.3.2005, l’ufficio di Milano (OMISSIS) dell’Agenzia delle entrate – in esito ad una complessa attività investigativa avente ad oggetto un gruppo di operatori attivi nel settore della commercializzazione dei prodotti software, che aveva evidenziato una fitta rete di traffici diretti all’evasione degli obblighi in materia di IVA – provvedeva a contestare per gli anni 2001, 2002 e 2003 ad C.S.A., identificato quale dominus di alcune delle società coinvolte nella vicenda, tra le quali segnatamente la DB Trading s.r.l., l’indebita detrazione dell’imposta in relazione ad operazioni inesistenti e l’irregolare tenuta della contabilità, recuperando a tassazione le imposte evase ed applicando interessi e sanzioni.

1.2. Opposti senza successo in primo grado, gli atti impositivi richiamati erano nuovamente sottoposti a vaglio su appello della parte avanti alla CTR Lombardia che con la sentenza qui impugnata rigettava il gravame e confermava la legittimità delle operate riprese.

Il giudicante, dopo aver proceduto alla ricostruzione del meccanismo fraudolento, ascritto pure alla condotta dell’impugnante e basato sull’utilizzo a credito della prefata DB Trading dell’IVA consumata nelle precedenti negoziazioni, in guisa del quale si produceva in capo a quest’ultima “un vantaggio oltre che finanziario anche economico” con conseguente insorgenza di “un illecito tributario”, considerato assolto “anche per relationem ossia mediante il riferimento ad elementi di fatto offerti da altri documenti” l’obbligo di motivazione gravante sull’amministrazione, ha ritenuto che fosse “intuitiva” nella specie “la presenza dell’abuso nelle manifestazioni evasive/elusive” imputate al C.S. alla luce degli elementi emersi al termine dell’attività investigativa, rappresentativi dell’effettiva conoscenza da parte del contribuente della riscontrata situazioni di illegalità e consistenti segnatamente nella “costituzione e/o rapporti di (o con) società estero vestite, società a fiscalità agevolata e società vincolate al segreto bancario”, nelle “modalità di stipula dei contratti con riguardo a mandati fiduciari”, “nell’esistenza di formali amministratori-direttori esteri e/o italiani”, nella “durata temporale brevissima di società facenti parte del c.d. carosello”, nella “mancanza di concrete attività in sedi di società meramente cartolari, facenti in ultima analisi capo a Sig. C.S.A.”.

Per la cassazione di detta sentenza la parte si affida a tredici motivi di ricorso, ai quali replica l’erario con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

2.1. Con il primo motivo di ricorso il C.S. deduce la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 56, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis e artt. 1344 e 2697 c.c., vero che, contrariamente a quanto ravvisato dal giudice d’appello con riferimento ai sopra riferiti elementi di indagine, “appare evidente come il complesso delle attività evidenziate… non costituisce un’ipotesi di abuso del diritto in quanto… il ricorrente non ha posto in essere un’operazione che ha il fine di ottenere indebiti vantaggi fiscali attraverso l’utilizzo distorto di strumenti giuridici idonei a tal fine”, onde “in definitiva, l’addebito di abuso del diritto che il giudice prospetta nella sentenza impugnata non trova riscontro nella condotta del C.S.”.

2.2. Parimenti con il quarto motivo del ricorso la parte addebita alla sentenza impugnata la violazione degli artt. 2383, 2475 e 2476 c.c., avendo questa riconosciuto la fondatezza della condotta illecita imputata al contribuente senza tuttavia identificare i concreti atti di gestione che il C.S. avrebbe posto in essere e limitandosi ad affermare che sarebbe intuitiva la presenza dell’abuso nella condotta ascrittagli, ancorchè, com’è noto, l’attribuzione al medesimo della veste di amministratore di fatto presupponga il suo coinvolgimento nella gestione della società DB Trading, mentre nella specie “non sono state identificate direttive eventualmente impartite dal C.S.” e “non è stato dimostrato il condizionamento di scelte operative della società” o “il compimento di atti di disposizione dei beni” della medesima.

2.3. Con l’ottavo motivo di ricorso C.S. censura infine l’impugnato pronunciamento in ragione della sua contrarietà al D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 51, 54 e 56 e art. 2697 c.c., in quanto si è affermato “il diretto intervento del ricorrente” in tutti gli atti di gestione delle società del gruppo della DB Trading violando “in modo palese la disciplina in materia di onere della prova”, atteso che come si evince dallo stesso pvc che attesta “l’assoluta carenza di prove e la totale mancanza di argomenti circostanziati”, l’amministrazione ha dedotto dal nulla che il ricorrente sia stato amministratore di fatto della DB Trading s.r.l.

2.4.1. Tutti gli esposti motivi di ricorso – che possono essere esaminati congiuntamente in quanto afferenti ad una medesima matrice concettuale – condividono anche la medesima sorte in quanto soggetti, per più ragioni, ad una comune declaratoria di inammissibilità.

2.4.2. Primariamente rilevante è sotto questa angolazione la circostanza che, sebbene vi fossero soggetti per ragioni temporali, la illustrazione di ciascuno dei detti motivi non sia conclusa con la predisposizione di un idoneo quesito di diritto a mente dell’art. 366-bis c.p.c..

Posto invero che secondo la giurisprudenza di questa Corte il quesito di diritto, “dovendo assolvere alla funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio giuridico generale”, non può essere meramente generico e teorico, ma deve essere calato nella fattispecie concreta (3530/12) e, per non risolversi “in una tautologia o in un interrogativo circolare” (SS.UU. 28536/08), deve in particolare compendiare nella sua formulazione “a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie” (1013/15; 27539/14; 19769/08), in modo tale da “consentire alla Corte di cassazione l’enunciazione di una regula iuris suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata” (SS.UU. 26020/08).

Nella specie i quesiti che accompagnano ciascun motivo, con cui il ricorrente chiede, nell’ordine, “se incorra nella violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 56, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis e artt. 1344 e 2697 c.c., la sentenza della CTR che ritenga sussistere la fattispecie dell’abuso di diritto in assenza di una condotta dei ricorrenti finalizzata a porre in essere un’operazione avente il fine di ottenere indebiti vantaggi fiscali attraverso l’utilizzo distorto di strumenti giuridici idonei a tal fine” (primo motivo), “se incorra nella violazione o falsa applicazione degli artt. 2383, 2475 e 2476 c.c., la sentenza della CTR che ritenga sussistente la qualifica di amministratore di fatto senza individuare un singolo atto concreto di gestione della società e senza considerare che ai fini della individuazione di tale figura non è sufficiente il compimento di singoli sporadici atti, ma è richiesto l’esercizio di un’attività di gestione” (quarto motivo) e “se incorra nella violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 51, 54 e 56 e art. 2697, la sentenza della CTR che ritenga accertato che il ricorrente abbia agito nella qualità di amministratore di fatto della società DB Trading senza neppure indicare i fatti e le prove idonee a rilevare il grado di continuità logica tra fatto ignoto e quello noto oppure basandosi sulle dichiarazioni rese da terzi” (ottavo motivo), mostrano di prescindere dal visto decalogo regolatorio e si risolvono nel porre alla Corte un interrogativo che, in disparte dall’oggettivo contenuto, più afferente ad un tema motivazionale che una quaestio iuris, è puramente astratto, risultando infatti privo di ogni indicazione riguardo al caso concreto, alla norma applicata e a quella di cui si auspica l’applicazione.

2.4.3. Anche la formulazione dei motivi adottata dal ricorrente si presta a censura, poichè, contravvenendo all’indirizzo più volte affermato da questa Corte secondo cui a mente del precetto indicato dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, “il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta la necessità dell’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e dell’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione” (24419/15; 24483/15; 20652/09), nella specie le sollevate doglianze si risolvono in una critica generica e priva di specificità, in particolare sottraendosi, in ragione di una caratterizzazione argomentativa che si limita a reiterare temi di indagine già vagliati nei precedenti gradi di merito e non evidenzia oggettivi profili di erroneità in capo alla decisione impugnata in grado di palesarne la contrarietà con il diritto richiamato, al compito, che è imprescindibile postulato della denuncia avanti a questa Corte di un errore di diritto, di dedurre a pena di inammissibilità la violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate, ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione” (287/16; 25419/14; 16038/13).

2.4.4. Ciò è peraltro indice anche di un’altra non secondaria manchevolezza del ricorso in esame che induce a declinarne previamente l’ammissibilità, dal momento che per il modo in cui i detti motivi prendono internamente forma, astenendosi, come si è detto, dal dar vita ad un esercizio critico rispetto alla decisione impugnata provvisto di puntualità e pertinenza, traspare da essi che le ragioni di scontento del ricorrente, quantunque rappresentate, per mezzo del richiamo alle norme nella specie pretesamente violate dalla decisione impugnata, in guisa di errori di diritto, affondano in buona sostanza le proprie radici nel tentativo di riproporre una mera rilettura delle risultanze processuali, contrapponendo alla visione dei fatti affermata dai giudici di merito una ricostruzione di essi in grado di assicurare un più soddisfacente esito della lite, ma contravvenendo però in tal modo alle finalità del giudizio di cassazione, che non costituisce notoriamente un terzo grado del processo in cui sia possibile rivedere, se congruamente ed adeguatamente motivato – ma in caso contrario, ovviamente, non nella forma dell’errore di diritto – l’apprezzamento dei fatti a cui abbia provveduto il giudice del merito, nell’esclusivo esercizio del potere di valutazione di essi che gli è affidato dall’ordinamento processuale in quanto giudice del fatto sostanziale.

3.1. Il secondo motivo di ricorso fa leva sul vizio di insufficiente motivazione che inficia il pronunciamento impugnato, posto che, nel riconoscere nella condotta imputata al ricorrente la presenza di un abuso del diritto, il giudice non ha tuttavia indicato “in modo concreto gli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento con riferimento alla ritenuta sussistenza dei presupposti di fatto giustificanti l’applicazione della clausola antiabuso”, limitandosi ad attribuire efficacia probatoria ad alcune circostanze senza procedere ad alcuna valutazione critica delle medesime e pervenendo in tal modo ad una conclusione “del tutto apodittica”.

3.2. Anche il sesto motivo di ricorso allega un vizio di insufficiente motivazione in quanto in ordine alla ritenuta solidale responsabilità della parte circa i debiti fiscali della DB Trading s.r.l. “il giudice di merito non ha indicato alcuna ragione in linea di fatto o diritto” a sostegno dell’assunto, atteso che la sentenza non ha indicato quali norme abbia applicato a questo fine e non si è verificato alcun fatto invocabile in questo senso.

3.3. E così pure con il settimo motivo di ricorso si deduce un vizio di insufficiente motivazione, che il ricorrente lamenta riguardo alla circostanza che il C.S. sia stato amministratore di fatto della società ed abbia tratto beneficio dalle operazioni della DB Trading, in quanto “il giudice di secondo grado si è limitato ad attribuire efficacia probatoria ad alcune circostanze senza procedere ad alcuna valutazione critica delle medesime”, in particolare omettendo di individuare le dichiarazioni rese da terzi ritenute rilevanti e di spiegare come il C.S. “gestisse” sostanzialmente tutte le società e le relative transazioni e come avesse “effettiva conoscenza” delle riscontrate situazioni di illegalità.

3.4. Tutti i sopradetti motivi – che possono essere esaminati congiuntamente in ragione dell’unitarietà della censura – sono fondati.

Ricordato in breve che secondo il diritto vivente il vizio in parola ricorre allorchè dal compendio giustificativo che accompagna la decisione sia evincibile un’obiettiva carenza nell’iter logico-argomentativo che ha condotto il giudice a risolvere la vicenda al suo esame in base alla regola concretamene applicata, nella specie la sussistenza del lamentato vizio con riguardo a tutti i profili oggetto di doglianza costituisce un dato di inoppugnabile evidenza.

Il giudice d’appello, pur dando prova di uno sforzo espositivo non certo trascurabile nel tentativo di offrire uno spaccato quanto mai realistico del contesto ambientale in cui si muove la figura e si consuma la parabola di C.S.A.A., intrecciando i fili di un racconto in cui al dinamismo della sua personalità si associa una spiccata propensione per le attività criminose, che ne evidenziano la non comune “pericolosità sociale”, ha tuttavia sfornato all’esito di questa ricognizione un prodotto motivazionale che malgrado queste premesse resta largamente al di sotto delle attese che la concreta portata della vicenda, non solo per i suoi termini quantitativi, e vieppiù le questioni di diritto che essa poneva, e di cui ora sono espressione i motivi di ricorso in disamina, si mostravano in grado di suscitare. Lungi dall’intercettare anche solo latamente i temi di indagine proposti dall’appellante – che, in qualche caso, come accade per l’abuso del diritto, la CTR liquida in poche battute, in cui l’effetto rassicurante del tono assertivo (“è infatti intuitiva la presenza dell’abuso nelle manifestazioni evasive/elusive riconducibili alla casistica di svariati comportamenti”) scolora presto in una formula ipotetica (“nella ricerca di un minimo comune denominatore delle possibili manifestazioni del fenomeno dell’evasione si potrebbe identificare con l’abuso il filo conduttore…”) e che in altri, come è per la questione afferente alla responsabilità solidale e alla qualità di amministratore di fatto, neppure sfiora indirettamente – la motivazione, nel mentre rifugge chiaramente da ogni suggestione sillogistica, si astiene tuttavia dal ricorrere ad un schema dialettico equivalente, capace di soddisfare in modo altrettanto lineare e coerente il compito che le è proprio, e preferisce piuttosto seguire, deviando tuttavia in tal modo dall’idea della motivazione quale simulacro delle ragioni che conducono il giudice alla decisione, una via argomentativa che inizialmente associa la discorsività del resoconto giornalistico (“milanese 53 anni…. la Guardia di Finanza di Milano lo ha arrestato nel 2007… le indagini partite nel 2002”, ecc.) alle complessità delle dimostrazione ragionieristiche (“la descrizione delle operazioni presunte fittizie… si può sintetizzare con un esempio contabile di partita doppia”, ecc), dando vita ad un coacervo di affermazioni che, in disparte dalla loro conferenza con la specie in decisione, non aiutano minimamente a chiarire il pensiero del decidente; via, che di seguito diviene ancora più oscura laddove mette capo ad una sorta di inedito modello di ragionamento a chiave offrendo al giudizio del lettore un telegrafico elenco di dati conoscitivi, che vengono declinati nella loro nudità senza alcuna riga di commento che valga a sottolinearne la concludenza motivazionale e, segnatamente, l’apprezzamento che in questa guisa ne abbia fatto il decidente, quasi a voler suggerire in questo modo che sia il lettore a doversi dare cura di cogliere questo aspetto e di valutare di essi la decisività. Ciò in particolare si apprezza sia in ordine alle risultanze istruttorie più dettagliate (Roofman service, mandati fiduciari, ecc.) che assommano una serie di dati privi di una connessione logico-argomentativa che ne chiarisca la portata in rapporto alla riconosciuta sussistenza della condotta elusiva, sia in ordine a quelle risultanze istruttorie che sono solo menzionate nei loro termini epigrafici (esistenza di formali direttori/amministratori, durata temporale brevissima di società facenti parte del c.d. carosello, mancanza di concrete attività) che, pur se astrattamente in grado di evocare la fattispecie dell’abuso, non sono fatte oggetto di alcuna specifica illustrazione che ne mostri l’inferenza argomentativa in questa direzione.

In buona sostanza l’obbligo motivazionale è qui assolto in maniera criptica e non soddisfa minimamente lo scopo di dare compiuta contezza delle ragioni che hanno indotto il giudice alla decisione.

4.1. Con il terzo motivo di ricorso il C.S. denuncia l’errore di diritto commesso dal giudice territoriale nel dare applicazione al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, poichè, in merito alle denegata illegittimità degli atti impugnati per violazione dell’obbligo motivazionale, constava dai medesimi che l’ente impositore si era limitato “a recepire le risultanze di indagine della polizia tributaria” e tale “rinvio acritico appare in netto contrasto con il disposto normativo”, ratione maiori se si fosse tenuto conto che dal processo verbale di constatazione oggetto di rinvio “nessuna motivazione è stata esplicitata delle ragioni per cui la pretesa tributaria è stata rivolta nei confronti della persona fisica di C.S.A.”.

4.2. In disparte dall’inammissibilità cui il motivo va previamente soggetto in quanto non assistito da idoneo quesito (“dica codesta Suprema Corte se incorre nella violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, la sentenza della CTR che ritenga legittimi gli atti di accertamento che si limitino a recepire le risultanze delle indagini di polizia tributaria, richiamando integralmente e avallando quanto verificato in sede di constatazione e non esplicitando le ragioni per cui la pretesa tributaria è stata rivolta nei confronti della persona fisica quale amministratore di fatto di società a responsabilità limitata”), per ciò che si è più innanzi osservato, entrambe le censure che esso racchiude non meritano accoglimento.

4.3. Quanto alla prima di esse – su cui già ha preso posizione tra le stesse parti nel senso che qui si intende ribadire Cass. 12007/15 – con cui il ricorrente si duole della violazione della prescrizione motivazionale imposta dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, comma 5, in quanto l’atto impositivo avrebbe recepito acriticamente le risultanze del p.v.c., si rivela in contrario assorbente il consolidato dictum di questa Corte, a voce del quale “la motivazione che rinvii alle conclusioni contenute in atti redatti nell’esercizio dei poteri di polizia tributari, già noti al contribuente, non è illegittima, indicando semplicemente che l’Ufficio procedente ha inteso realizzare un’economia di scrittura, la quale non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio” (16976/12; 4523/12; 21119/11).

4.4. Quanto alla seconda – con cui il ricorrente fa valere la medesima violazione in considerazione del fatto che non emergerebbero dal p.v.c. le ragioni per cui si è ritenuto di affermarne la qualità di amministratore di fatto – si rivela in contrario decisiva la considerazione, già positivamente espressa dal giudice di prima istanza, secondo cui assolvimento dell’obbligo motivazionale nella predisposizione dell’atto e idoneità degli elementi fattuali in esso trascritti o richiamati a comprovare la legittimità del recupero investono profili decisionali distinti e non sovrapponibili, il secondo dei quali manifestamente estraneo alla censura di diritto che faccia leva sulla violazione dell’obbligo di motivazione ed afferente semmai ad una valutazione in fatto delle risultanze probatorie che, nei termini qui formulati, non è censurabile in questa sede.

5.1. Con il quinto motivo di ricorso l’impugnante denuncia la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36 e degli D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 17 e 60 bis, in quanto “la norma implicitamente applicata” dal giudice di merito per affermare la responsabilità del contribuente “non è stata correttamente applicata al caso in esame”, vuoi perchè essa “prevede la responsabilità del liquidatore per i soli debiti relativi alle imposte dirette e non anche all’imposta sul valore aggiunto”, vuoi perchè non risulta che “il C.S. abbia distribuito ai soci o si sia appropriato di ben della Db Trading s.r.l.”, vuoi ancora perchè “il C.S. non è titolare di partita iva”.

5.2. In disparte dall’inammissibilità che ad esso deriva dal fatto che, per le ragioni già più sopra spiegate, non è assistito da idoneo quesito (“dica codesta Suprema Corte se incorre nella violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36 e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 17 e 60 bis, la sentenza della CTR che estenda alla persona fisica in qualità di amministratore di fatto la responsabilità per l’imposta sul valore aggiunto e le relative pene pecuniarie tributarie senza neppure dedurre la distrazione di attività del patrimonio della società a fini diversi dal pagamento delle imposte dovute”), il motivo è inammissibile per novità della questione, trattandosi di tema della decisione non precedentemente prospettato nei pregressi gradi di giudizio e non sottoposto perciò al vaglio del giudice di appello.

Tra le diverse questioni portate al vaglio del giudicante di merito dal ricorrente – e che questi ha cura di riepilogare a pag. 21 del ricorso – nonchè nella narrativa di fatto che il giudice d’appello ha premesso alla propria decisione, quella qui sollevata non trova posto, di modo che la sua prospettazione per la prima volta in questa sede urta contro il consolidato principio affermato da questa Corte secondo cui “non sono prospettabili, per la prima volta, in sede di legittimità le questioni non appartenenti al tema del decidere dei precedenti gradi del giudizio di merito, nè rilevabili di ufficio” (13960/16; 19422/15; 17041/13); e ciò perchè, com’è noto, il giudizio di cassazione “ha per oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formale del processo ed alle questioni di diritto proposte” (20324/16; 21425/15; 4787/12) e ad esso è perciò preclusa la possibilità di estendere il proprio sindacato alla risoluzione di questioni differenti da quelle ivi decise che postulano indagini e valutazioni di fatto non compiute dai giudici di merito o che al giudice di merito non siano state sollecitate.

6.1. Il nono motivo di ricorso deduce un errore di diritto in relazione all’applicazione del D.L. n. 269 del 2003, art. 7, poichè il giudice d’appello, condividendo la tesi secondo cui il C.S., beneficiando di indebiti vantaggi fiscali, è tenuto a rispondere delle relative sanzioni, ha esteso “illegittimamente la responsabilità solidale del ricorrente anche alle imposte” ed ha esteso “la responsabilità per le sanzioni ad un terzo”.

6.2. Il motivo in disparte dall’inammissibilità per inidoneità del quesito (“dica codesta Suprema Corte se incorre nella violazione o falsa applicazione del D.L. n. 269 del 2003, art. 7, la sentenza della CTR che ritenga che l’amministratore di fatto deve rispondere dell’imposta sul valore aggiunto e delle sanzioni relative al fatto proprio”)t è altresì inammissibile, alla luce delle determinazioni assunte dal collegio in ordine al secondo, sesto e settimo motivo di ricorso, per difetto di interesse in capo all’impugnante.

Come invero si apprende dalla lettura degli atti impositivi con cui sono state irrogate le sanzioni – che il ricorrente riproduce in ricorso – e come bene chiarisce l’amministrazione controricorrente (“la responsabilità personale del ricorrente è stata fondata… sulla circostanza che gli illeciti commessi dalla società erano stati materialmente posti in essere dal contribuente medesimo il quale aveva totalmente strumentalizzato le società stesse alla finalità fraudolenta”), il C.S. si è reso nella specie destinatario del trattamento sanzionatorio, pur non rivestendo alcuna carica formale nell’organigramma delle società coinvolte nella vicenda, in ragione della sua ritenuta qualità di orchestratore della vasta rete di attività illecite imputate alle società anzidette, delle quali egli, a mezzo di compiacenti prestanomi e di un sistema operativo imperniato sul largo uso di “scatole vuote” e di mandati fiduciari, risultava essere il dominus incontrastato. L’assunzione della qualità di amministratore di fatto che ciò comporta rende certamente applicabili al soggetto che la rivesta le sanzioni previste per le violazioni in materia tributaria alla stregua del positivo disposto del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 11, comma 1, che include appunto tra i soggetti responsabili anche costoro, di tal chè, come questa Corte ha già avuto modo di affermare nel citato precedente 12007/15 – e come peraltro già aveva affermato in precedenza, pur se nella specie escludendone l’applicabilità per ragione del fatto che le violazioni erano state commesse prima della sua entrata in vigore -, anche all’amministratore di fatto risulta pienamente applicabile l’esimente di cui al D.L. n. 269 del 2003, art. 7 (9122/14). E’ vero però che come si è altrove affermato un limite in questa direzione risulta invocabile, perchè, “ove sia dimostrato che la persona giuridica (nella specie, società di capitali) sia stata costituita artificiosamente, a fini illeciti, le sanzioni amministrative tributarie possono essere irrogate nei confronti della persona fisica che ha beneficiato materialmente delle violazioni contestate. In tal caso, la persona fisica che ha agito per conto della società è, nel contempo, trasgressore e contribuente, e la persona giuridica è una mera fictio, creata nell’esclusivo interesse della persona fisica. Non opera pertanto il D.L. n. 269 del 2003, art. 7, secondo cui nel caso di rapporti fiscali facenti capo a persone giuridiche le sanzioni possono essere irrogate nei soli confronti dell’ente, in quanto detta norma “intende regolamentare le ipotesi in cui vi sia una differenza tra trasgressore e contribuente, e, in particolare, l’ipotesi di un amministratore di una persona giuridica che, in forza del proprio mandato, compie violazioni nell’interesse della persona giuridica medesima” (19716/13).

E’ perciò di tutta evidenza, alla luce di questo coordinato quadro di precedenti, che, lungi dall’essere pregiudizialmente esclusa dalla disposizione contenuta nel D.L. n. 269 del 2003, art. 7, l’irrogazione o meno delle sanzioni nei confronti dell’odierno ricorrente presupponga che ne sia chiarito il ruolo effettivamente rivestito nel complessivo svolgimento della vicenda che lo ha interessato, fermo infatti che se la qualifica di amministratore di fatto può rendere inapplicabili le sanzioni, la coincidenza nella sua persona delle figure di trasgressore e contribuente in quanto materiale beneficiario dell’attività fraudolenta gioca in senso diametralmente opposto. Sicchè se l’accertamento in parte qua è decisivo ai fini della statuizione sulla sollevata censura, vien fatto d’osservare che, avendo il collegio cassato la sentenza impugnata per vizio motivazionale proprio in ordine alle questioni della riconoscibilità in capo al C.S., segnatamente di una condotta elusiva, oltre che di una pretesa sua responsabilità solidale e dell’assunzione della qualità di amministratore di fatto, mandando il giudice d’appello perchè su questi temi di decisione assolva adeguatamente l’ufficio motivazionale, allo stato il C.S. non è portatore di un interesse attuale e concreto a far valere una violazione di legge che presuppone un accertamento di fatto nuovamente devoluto al giudice di merito. E dunque la censura qui formulata, in difetto di questa condizione, va conseguentemente dichiarata inammissibile.

7.1. Con il decimo e l’undicesimo motivo di ricorso il C.S. denuncia un vizio di omessa pronuncia poichè, sebbene si fosse eccepita l’ultrapetizione della decisione di primo grado laddove questa aveva ravvisato la responsabilità solidale della parte quale effettivo beneficiario dei vantaggi fiscali ritratti indebitamente in disaccordo con la motivazione degli atti impositivi (decimo motivo) e si fosse pure eccepita l’erroneità dell’anzidetta decisione laddove il giudice di prime cure aveva ravvisato la legittimità dei detti atti senza prendere posizione sul difetto di motivazione del trattamento sanzionatorio (undicesimo motivo), “il giudice di secondo grado ha omesso di esaminare la suddetta questione” e ha implicitamente ritenuto legittimi gli atti impugnati secondo l’interpretazione del primo giudice.

7.2. Ancora una volta, in disparte dall’inidoneità del quesito di diritto che accompagna l’esposizione di ciascun dei motivi in rassegna – che va ribadito tanto con riguardo al decimo motivo (“dica Codesta Suprema Corte se incorra nel vizio di omessa pronuncia, desumibile dall’art. 112 c.p.c., il giudice di appello che, dinanzi ad una chiara domanda rivoltagli, tesa a far dichiarare la illegittimità per ultrapetizione della sentenza impugnata rispetto alla motivazione degli atti di accertamento in base al tenore dei motivi di impugnazione contenuti nell’atto di appello, non risponda, nemmeno indirettamente o parzialmente alla detta domanda”), quanto con riguardo all’undicesimo motivo (“dica Codesta Suprema Corte se incorra nel vizio di omessa pronuncia, desumibile dall’art. 112 c.p.c., il giudice di appello che, dinanzi ad una chiara domanda rivoltagli, tesa a far dichiarare la illegittimità degli atti di accertamento per violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 7 e 16, non risponda, nemmeno indirettamente o parzialmente alla detta domanda”) e che è fonte, per quanto si è già detto, di incontrovertibile inammissibilità entrambi i motivi risultano privi di fondamento.

Questa Corte ha infatti escluso la configurabilità dell’omessa pronuncia quando, nonostante la mancanza di una specifica, espressa statuizione su una tesi difensiva o un’eccezione, la decisione adottata dal giudice risulti in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte e ne abbia comportato il suo rigetto o assorbimento, ovvero, come nel caso di specie, il rigetto di una domanda sia implicito nella costruzione logico-giuridica con la quale venga accolta una tesi incompatibile con la relativa eccezione (5443/16; 4313/16; 21612/13).

Nel caso di specie la CTR ha escluso la dedotta invalidità dell’accertamento, valutando il merito del ricorso, cosi disattendendo implicitamente la censura di difetto assoluto di motivazione sollevata dal contribuente.

8.1. Il dodicesimo e tredicesimo motivo di ricorso addebitano all’impugnata sentenza la violazione, rispettivamente, del D.Ls. n. 472 del 1997, artt. 7 e 16 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 8, in quanto il giudice d’appello ha ritenuto legittimo il trattamento sanzionatorio applicato al ricorrente malgrado gli atti impositivi risultassero sul punto immotivati quanto “alla gravità della violazione” e “alla personalità” del trasgressore (dodicesimo motivo); e malgrado nella specie risultasse applicabile l’esimente delle obiettive condizioni di incertezza sulla portata della norma sanzionatoria a cui era riconducibile anche la violazione del principio generale in materia di abuso (tredicesimo motivo).

8.2. Ancorchè i detti motivi siano affetti da pregiudiziali ragioni che ne precludono l’ammissibilità in quanto, cumulativamente, non sono assistiti da idoneo quesito ovvero perchè il dodicesimo risulta privo di autosufficienza in quanto non si riproduce nei suoi esatti termini il contenuto rilevante dell’atto, nè è dato intendere se la trascrizione dell’atto impositivo a cui provvede il ricorso sia completa, e perchè l’undicesimo pone una questione nuova non precedentemente esaminata, entrambi vanno giudicati assorbiti in considerazione di quanto affermato in relazione al nono motivo di ricorso, giacchè la loro prospettazione si giustifica se ed in quanto, una volta riesaminata dal giudice di rinvio avanti al quale la causa è stati rimessa in accoglimento del secondo, del sesto e del settimo motivo di ricorso, sia accertata o meno il legittimo assoggettamento del contribuente all’applicazione delle sanzioni previste per le violazioni contestategli.

9. Vanno in conclusione accolti il secondo, il sesto ed il settimo motivo di ricorso, mentre vanno rigettati i restanti.

La sentenza impugnata andrà perciò cassata in relazione ai motivi accolti e la causa a mente dell’art. 383 c.p.c., comma 1, va rinviata avanti al giudice d’appello per il doveroso riesame.

PQM

La Corte Suprema di Cassazione:

accoglie il secondo, il sesto ed il settimo motivo di ricorso, dichiara inammissibili il primo, il quarto, il quinto, l’ottavo ed il nono motivo, infondati il terzo, il decimo e l’undicesimo motivo ed assorbiti il dodicesimo ed il tredicesimo motivo; cassa l’impugnata sentenza nei limiti dei motivi accolti e rinvia avanti alla CTR Lombardia che, in altra composizione, provvederà pure alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 24 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2017

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