Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5913 del 11/03/2010

Cassazione civile sez. trib., 11/03/2010, (ud. 20/01/2010, dep. 11/03/2010), n.5913

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere –

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere –

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere –

Dott. MELONCELLI Achille – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso rgn 25379/2002, proposto da:

signor R.U., rappresentato e difeso dagli avv. IPPOLITO

GIULIO e Lorenzo Gilardi ed elettivamente domiciliato presso il

primo in Roma, Via Sallustiana 26;

– ricorrente –

contro

IL MINISTERO DELLE FINANZE, di seguito “Ministero”, rappresentato e

difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la quale è

domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi 12;

– intimato e controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale (CTR) di

Milano 25 maggio 2001, n. 208/39/01, depositata il 6 luglio 2001;

udita la relazione sulla causa svolta nell’udienza pubblica del 20

gennaio 2010 dal Cons. Dott. Achille Meloncelli;

udito l’avv. Giulio Ippolito per il ricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. Gli atti introduttivi del giudizio di legittimità.

1.1. Il ricorso del signor R.U..

1.1.1. Il 4 ottobre 2002 è notificato al Ministero delle finanze un ricorso del signor R.U. per la cassazione della sentenza descritta in epigrafe, che ha respinto l’appello del contribuente contro la sentenza della Commissione tributaria provinciale (CTP) di Milano n. 301/06/98, che aveva accolto il suo ricorso contro l’avviso di accertamento dell’Irpef 1989 e contro l’avviso di accertamento n. (OMISSIS) dell’Irpef 1991.

1.1.2. Il ricorso per cassazione del signor R.U. è sostenuto con cinque motivi d’impugnazione e si conclude con la richiesta che sia cassata la sentenza impugnata, con vittoria di spese.

1.2. Il controricorso del Ministero.

Il 13 novembre 2002 è notificato al signor R.U. il controricorso del Ministero e conclude per il rigetto del ricorso, con vittoria di spese.

2.1 fatti di causa.

I fatti di causa sono i seguenti:

a) la Guardia di finanza verifica, in sede di indagini connesse a procedimenti penali nei confronti di diversi soggetti, i conti correnti bancari del signor R.U. e di alcuni suoi familiari e segnala all’Ufficio delle imposte dirette di Milano gli accreditamenti effettuati su di essi;

b) il 23 dicembre 1997 l’Ufficio delle imposte dirette di Milano notifica al signor R.U. gli avvisi di accertamento n. (OMISSIS) dell’irpef 1989 e n. 4641046387 dell’irpef 1991, con i quali si determinano, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 81, lett. 1), redditi diversi, non dichiarati, in applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32;

c) il ricorso del contribuente è accolto dalla CTP;

d) l’appello dell’Ufficio è, poi, accolto dalla CTR con la sentenza ora impugnata per cassazione.

3. La motivazione della sentenza impugnata.

La sentenza della CTR, oggetto del ricorso per cassazione, è cosi motivata:

a) “l’esame della fattispecie… non può prescindere dal considerare le seguenti circostanze: a) che l’Ufficio prima dell’emissione dell’avviso di accertamento aveva notificato un apposito questionario per consentire al contribuente di documentare la provenienza della somme affluite sui conti bancari; b) che il conto intestato alla moglie in origine era cointestato al contribuente; c) che all’origine dell’attività accertativa siedono fatti di reato per corruzione”;

b) “siffatte circostanze indizianti avevano ragione di addurre alla conclusione secondo cui, da un profilo logico è altamente probabile che i versamenti affluiti sui conti dei familiari del contribuente siano a lui ascrivibili. Ed anche la provenienza (da obbligazioni di fare, non fare o promettere) sembra logicamente collegabile alla situazione di fatto da cui la presunzione trae fondamento”;

c) “in ogni caso, sarebbe stato onere del contribuente, alla luce delle norme di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 33, provare che i versamenti affluiti sui conti non sono collegabili a rapporti di natura reddituale”.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

5. Il primo motivo d’impugnazione.

5.1. La censura proposta con il primo motivo d’impugnazione.

5.1.1. La rubrica del primo motivo d’impugnazione.

Il primo motivo d’impugnazione è preannunciato dalla seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, anche in relazione alla L. n. 241 del 1990, art. 3”.

5.1.2. La motivazione addotta a sostegno del primo motivo d’impugnazione.

Il ricorrente sostiene, in proposito, che l’ufficio, lungi dal fornire una giustificazione delle ragioni e delle modalità che hanno determinato il nuovo calcolo della base imponibile, si sarebbe limitata a recepire il verbale della Guardia di finanza del 2 febbraio 1994, che sarebbe stato sottoscritto dai soli ufficiali verbalizzanti e non sarebbe stato mai a lui notificato. Privi di rilevanza sarebbero, poi, l’invio di un questionario, perchè è l’avviso di accertamento, con cui si contesta l’omessa indicazione di redditi imponibili, che dev’essere congruamente e idoneamente motivato, e il riferimento alla circostanza che l’accertamento scaturisca da un’indagine penale per reati di corruzione.

5.1.3. La norma di diritto indicata dal ricorrente.

Il ricorrente basa il suo motivo d’impugnazione sulla seguente norma giuridica: “Non è motivato l’atto amministrativo d’imposizione tributaria, la cui motivazione consista nella ricezione del PVC della Guardia di finanza”.

5.2. La valutazione della Corte del primo motivo d’impugnazione.

5.2.1. Il motivo è manifestamente infondato, perchè i rapporti tra avviso di accertamento e PVC sono regolati in modo diverso da quello rappresentato dal ricorrente. Come questa Sezione ha avuto occasione di precisare di recente nella sentenza 11 maggio 2009, n. 10680, “la motivazione degli atti di accertamento “per relationem”, con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura, che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio” (Corte di cassazione 17 giugno 2002, n. 8690. Nello stesso senso, Corte di Cassazione 26 giugno 2003, n. 10205). Il rinvio dell’atto amministrativo finale ad un atto procedimentale può esser effettuato, peraltro, non solo alle conclusioni, ma anche, in tutto o in parte, ai fatti accertati e alle ragioni addotte dagli organi istruttori per giungere alle loro qualificazioni giuridiche dei fatti accertati. Infatti, il procedimento amministrativo, anche quello tributario, è la forma della funzione e il potere di adottare l’atto amministrativo finale è solo l’esercizio terminale di un potere che è frazionato tra organi amministrativi diversi, anche di enti pubblici diversi, in dipendenza della divisione del potere di provvedere. In particolare, ai fini che qui interessano, è rilevante il frazionamento, che è ispirato alla natura del processo decisionale umano e che la normazione effettua diffusamente, del potere di provvedere nei preliminari poteri d’iniziativa e d’istruttoria rispetto al finale potere di decidere. Se questo è lo stato della normazione sull’organizzazione amministrativa e sull’attività amministrativa, si appalesa come manifestamente fondata la pretesa delle amministrazioni finanziarie di interpretare la norma sulla motivazione per relationem del provvedimento amministrativo come attributiva, al titolare del potere di decidere, del potere di richiamare nel proprio atto il contributo, d’iniziativa o istruttorio, apportato da un altro organo amministrativo, il cui atto sia normativamente inserito nello stesso procedimento. In questo senso già si è espressa questa Corte nelle sentenze: 23 gennaio 2006, n. 1236; 21 marzo 2008, n. 7766. La riaffermazione della legittimità della motivazione per relationem non esclude che il rinvio possa essere, per così dire, “dosato” alla misura nella quale l’organo titolare del potere di adottare l’atto dotato di autonomia funzionale intenda recepire l’attività istruttoria e che la sua formulazione sia, perciò, adeguata allo scopo, che è quanto dire che anche la motivazione per relationem dev’essere adeguata. Ma la misura del richiamo è affidata alla scelta dell’organo decidente e la “pedissequa utilizzazione” dell’atto istruttorio è un fatto che il giudice di merito non può censurare di per sè, ma solo in base alla constatazione che dal richiamo globale dell’atto strumentale sia derivata, paradossalmente per eccesso del rinvio, un’inadeguatezza, o insufficienza, della motivazione dell’atto finale. Questa Corte ha già avuto occasione, al riguardo, di precisare che “L’autorità decidente deve, invero, guardarsi bene dal richiamare nella sua interezza un determinato atto, perchè, se esso fosse eccedente rispetto alla decisione e la sua dimensione e la sua articolazione fossero tali da impedire alla motivazione, anche per relationem, di svolgere la sua funzione garantistica di pubblicità dell’azione amministrativa a favore del destinatario, l’allegazione dell’atto richiamato non salverebbe la decisione dall’invalidità derivante da quella che paradossalmente potrebbe chiamarsi insufficienza di motivazione per eccesso di motivazione. Nell’ipotesi delineata, infatti, l’autorità decidente dovrebbe, comunque, fornire una guida alla lettura dell’atto richiamato e tracciare una sorta di fil rouge che consenta al contribuente – e al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale – di reperire i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione della decisione” (Corte di Cassazione 15 febbraio 2008, n. 3896). Tuttavia, se il limite della motivazione per relationem sia stato superato, non s’accerta, come erroneamente pretenderebbe il ricorrente in questa sede, con il generico rimprovero all’Ufficio di essersi “limitato a recepire il verbale della Guardia di finanza”, ma con un’adeguata motivazione illustrativa delle cause dell’inadeguatezza della motivazione per relationem.

In sostanza, si ribadisce che vigono le seguenti norme giuridiche:

1) “L’atto amministrativo d’imposizione tributaria può essere motivato per relationem ad un atto istruttorio del procedimento”;

2) “il rinvio motivazionale dell’atto amministrativo d’imposizione tributaria ad un atto istruttorio dev’essere adeguato”;

3) “l’accertamento giudiziale dell’adeguatezza della motivazione per relationem dell’atto amministrativo d’imposizione tributaria dev’essere adeguatamente motivato”;

4) “l’accertamento in sede di giudizio di legittimità dell’adeguatezza della motivazione per relationem dell’atto amministrativo d’imposizione tributaria dev’essere specificamente contestato dal ricorrente”.

Nel ricorso proposto dal contribuente in questo giudizio, non solo si è invocata una norma giuridica inesistente, ma non si è nemmeno contestato specificamente l’ipotizzato vizio della motivazione per relationem. Ne deriva che la censura è, per un verso, in fondata e, per altro verso, inammissibile.

5.2.2. Le due argomentazioni aggiuntive rispetto all’argomentazione principale, poi, sono singolarmente non condivisibili: non la prima, perchè l’ufficio ha rispettato il principio del giusto procedimento amministrativo e la mancata risposta del contribuente dimostra che solo che egli ha rinunciato ad esercitare il potere strumentale al suo onere di provare i fatti a lui favorevoli; non la seconda, perchè la circostanza che l’accertamento scaturisca da un’indagine penale per reati di corruzione è un fatto che contribuisce a creare la presunzione sulla quale s’è basato l’accertamento.

6. Il secondo motivo d’impugnazione.

6.1. La censura proposta con il secondo motivo d’impugnazione.

6.1.1. La rubrica del secondo motivo d’impugnazione.

Il secondo motivo d’impugnazione è posto sotto la seguente rubrica:

“Presunzioni gravi, precise e concordanti. D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 42, in relazione all’art. 2729 c.c. – Violazione e falsa applicazione di norme di diritto – insufficiente motivazione in relazione ad un punto decisivo della controversia”.

6.1.2. La motivazione addotta a sostegno del secondo motivo d’impugnazione.

Il contribuente segnala che negli avvisi di accertamento non si effettuerebbe alcun riferimento ai criteri presuntivi utilizzati, con la conseguenza che sarebbe impossibile stabilirne precisione, gravità e concordanza. Nè potrebbero assurgere a rango di presunzioni le circostanze indicate dal giudice d’appello relative alla sussistenza di fatti corruttivi e all’originaria cointestazione del conto corrente della moglie del contribuente: non la prima, perchè nel PVC si riconoscerebbe che non è stato possibile quantificare le somme provenienti da attività illecita; non la seconda, perchè il contribuente non avrebbe avuto la disponibilità ad operare sul c/c della moglie.

6.2. La valutazione della Corte del secondo motivo d’impugnazione.

Il motivo è manifestamente inammissibile, perchè esso è diretto contro l’avviso di accertamento, anzichè censurare la sentenza d’appello, e perchè le considerazioni che mirano a censurare la decisione della CTR attengono ai fatti di causa.

7. Il terzo motivo d’impugnazione.

7.1. La censura proposta con il terzo motivo d’impugnazione.

7.1.1. La rubrica del terzo motivo d’impugnazione.

Il terzo motivo di censura è enunciato dalla seguente rubrica: “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32, 33 e 42, – Omessa, insufficiente e/o contraddittorietà della motivazione su un punto decisivo della controversia”.

7.1.2. La motivazione addotta a sostegno del terzo motivo d’impugnazione.

Il contribuente contesta la parte della motivazione della sentenza che s’è qui riprodotta nel p.3.c), e sostiene che la CTR, invocando le disposizioni menzionate in rubrica, avrebbe invertito, a sfavore del contribuente, l’onere di provare l’origine reddituale dei versamenti affluiti sui conti.

7.1.3. La norma indicata dal ricorrente come fondate il suo motivo.

Il ricorrente indica come norma fondate il suo motivo quella secondo cui “è onere dell’Ufficio tributario provare che i versamenti affluiti sui conti intestati al soggetto passivo d’imposta non sono di natura reddituale”.

7.2. La valutazione della Corte del terzo motivo d’impugnazione.

Il motivo è inammissibile per mancanza di interesse, perchè censura un’argomentazione aggiuntiva addotta dal giudice d’appello alle rationes decidenti della sentenza. Anche ove la si caducasse, la sentenza si sosterrebbe ugualmente.

In ogni caso, esso è infondato, perchè, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte “nel processo tributario, nel caso in cui l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, è onere del contribuente, a carico del quale si determina una inversione dell’onere della prova, dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non siano riferibili ad operazioni imponibili, mentre l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, per legge, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti” (v., per tutte, Corte di cassazione 26 febbraio 2009, n. 4589).

8. Il quarto motivo d’impugnazione.

8.1. La censura proposta con il quarto motivo d’impugnazione.

8.1.1. La rubrica del quarto motivo d’impugnazione.

Il quarto motivo d’impugnazione è collocato sotto la seguente rubrica: “La titolarità di redditi diversi – D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, – Violazione e falsa applicazione di norme di diritto – Insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia”.

8.1.2. La motivazione addotta a sostegno del quarto motivo d’impugnazione.

Il ricorrente sostiene che la CTR avrebbe addebitato le somme confluite sui conti correnti dei suoi familiari in base al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37, anche se tale disposizione non è espressamente menzionata nella sentenza. Si contesta, però, che l’imputazione sia effettuabile sulla base dei fatti addotti, perchè essi non assurgerebbero al livello di presunzione.

8.2. La valutazione della Corte del quarto motivo d’impugnazione.

Il motivo è inammissibile, perchè mira ad ottenere dal giudice di legittimità una diversa valutazione dei fatti di causa rispetto a quella operata dal giudice di merito nell’esercizio dei poteri di sua esclusiva competenza e con motivazione logica, la cui censura, annunciata in rubrica non è poi sviluppata in sede argomentativa.

9. Il quinto motivo d’impugnazione.

9.1. La censura proposta con il quinto motivo d’impugnazione.

9.1.1. La rubrica del quinto motivo d’impugnazione.

Il quinto motivo d’impugnazione è preceduto dalla seguente rubrica: “La tassabilità dei redditi accertati. Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1993, art. 81. Omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia”.

9.1.2. La motivazione addotta a sostegno del quinto motivo d’impugnazione.

Il motivo, proposto in via subordinata, contesta l’assimilabilità dei proventi illeciti ai redditi diversi, perchè la normativa citata in rubrica non sarebbe retroattiva.

9.1.3. La norma indicata dal ricorrente come fondante il suo motivo Il ricorrente indica, come norma fondante il suo motivo, quella secondo cui i proventi illeciti sarebbe imponibili secondo la legge del loro tempo.

9.2. La valutazione della Corte del quinto motivo d’impugnazione.

Il motivo è manifestamente infondato, perchè, a parte l’erroneità della citazione, il regime dei proventi illeciti è quello dell’imponibilità, anche retroattiva, in forza della retroattività della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4, che introduce una norma d’interpretazione autentica (Corte di cassazione 19 luglio 2006, n. 16504).

10. Conclusioni.

10.1. Sul ricorso.

Le precedenti considerazioni comportano il rigetto del ricorso.

10.2. Sulle pese processuali.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata nel dispositivo.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali relative al giudizio di cassazione per Euro 3.500,00 (tremila e cinquecento), oltre ad Euro 200,00 (duecento) per spese e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2010

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