Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5909 del 23/02/2022

Cassazione civile sez. VI, 23/02/2022, (ud. 14/12/2021, dep. 23/02/2022), n.5909

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MELONI Marina – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – rel. Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27151 del 2020 proposto da:

U.P.C., difeso in proprio ex art. 86 c.p.c., con studio

in Roma, Via Cicerone, 28;

– ricorrente –

contro

Z.A.R., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Giulio

Cesare, 95 presso lo studio dell’Avvocato Alessandro Bianchini che

la rappresenta e difende per procura speciale in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 314/2020 della CORTE D’APPELLO di Roma,

depositata il 16/01/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 14/12/2021 dal Consigliere Relatore Dott. LAURA

SCALLA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

1. U.P.C., ricorre con due motivi, difendendosi in proprio ex art. 86 c.p.c., in quanto avvocato, per la cassazione della sentenza in epigrafe indicata con cui la Corte d’appello di Roma, rigettando l’impugnazione proposta, ha confermato la sentenza del locale tribunale che, pronunciando sul ricorso introdotto da U. per la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto il (OMISSIS) con Z.A.R., aveva determinato la misura dell’assegno divorzile riconosciuto all’ex coniuge in Euro 350,00 mensili.

I giudici di appello hanno ritenuto la disparità dei redditi tra gli ex coniugi, perché l’appellante, avvocato: esercita un’attività produttiva di maggior reddito; è titolare di proprietà immobiliari; ha costituito una nuova famiglia di fatto, potendo in tal modo condividere le spese con la nuova compagna, anch’ella avvocato; là dove invece l’appellata: gode di redditi modesti da lavoro subordinato; è gravata dai debiti maturati per far valere in giudizio diritti nei confronti del proprio datore di lavoro nonché dagli oneri di restituzione, esito del giudizio stesso; non è più titolare del diritto di abitazione sulla ex casa-coniugale.

La Corte di merito ha apprezzato altresì la durata trentennale del matrimonio e l’apporto fornito inizialmente dalla signora Z. quando, quale dipendente della Società delle condotte d’acqua, aveva un reddito superiore a quello dell’ex coniuge che si era potuto, in tal modo, dedicare alla libera professione.

2. Resiste con controricorso, illustrato da memoria, Z.A.R. che denuncia altresì la condotta processuale, in violazione dell’art. 68 CdF, di controparte che, ancora suo difensore in due giudizi giuslavoristici, si era costituito, difendendosi in proprio ex art. 86 c.p.c., nella presente lite ed in altre che avevano viste contrapposte le medesime parti.

3. Con il primo motivo il ricorrente fa valere omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, integrato dalla sopravvenuta, in corso di lite, cessazione della convivenza con la collega D.T. a far data dall’ottobre 2017 con conseguente nuovo onere dell’obbligato di far fronte a spese ed esigenze economiche prima non avute e riduzione della propria capacità economica.

La circostanza di fatto, oggetto di note autorizzate, non era stata contestata da controparte nella udienza successiva alla produzione del 7 giugno 2018, in cui la causa era stata trattenuta in decisione.

Nei giudizi di divorzio in grado di appello, da celebrarsi nell’osservanza del rito camerale vige, infatti, la libertà delle forme e l’istruttoria è semplificata potendo il giudice acquisire ogni tipo di prova, nel rispetto del principio del contraddittorio.

Il motivo è inammissibile perché generico.

In tema di ricorso per cassazione, l’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), impone al ricorrente, che denunci il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), a pena d’inammissibilità della censura, di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione, di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che pure è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo, non potendosi demandare alla Corte il compito di individuare – con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le sue funzioni – la norma violata o i punti della sentenza che si pongono in contrasto con essa (Cass. 28/10/2020, n. 23745; Cass. 06/07/2021, n. 18998).

Il motivo è altresì non autosufficiente perché il ricorrente manca di allegare i contenuti della memoria versata in atti e del verbale di udienza che, successivo alla produzione, darebbe conto della condotta processuale di “non contestazione” della controparte.

3. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La sentenza impugnata non aveva fatto applicazione dei criteri indicati da Cass. SU n. 18287 del 2018, e delle successive pronunce affermative dei medesimi principi, ai fini del riconoscimento dell’assegno divorzile ed aveva, invece, dato conto della sola sperequazione economica tra i redditi delle parti, restando carente nel valutare l’effettivo contributo fornito dalla richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, e personale di ciascuno degli ex coniugi, ed alle aspettative professionali sacrificate. La differenza tra i redditi delle parti era minima.

La Corte d’appello avrebbe dovuto motivare se, ed in quale misura, gli elementi di comparazione diversi dal reddito avrebbero assegnato valore decisivo alla sperequazione economica tra le parti che aveva, peraltro, ritenuto in via presuntiva in base alla considerazione delle potenzialità di crescita della professione di avvocato secondo comune esperienza. Non era stato apprezzato il deterioramento della situazione economica della richiedente in conseguenza del divorzio.

Controparte è stata assunta a tempo indeterminato da “Poste italiane” con uno stipendio di Euro 1.500 mensili, non doveva sostenere alcuna spesa perché continuava a vivere nell’appartamento del ricorrente ed il giudizio promosso nei confronti della prima per il recupero di somme da parte del datore di lavoro era ancora sub iudice.

Il ricorrente era invece onerato di maggior spese di gestione come professionista ed il pregresso tenore di vita della coppia era “piuttosto modesto”.

Il motivo è inammissibile perché rivolto a sollecitare a questa Corte al di là della denunciata violazione di legge una rivalutazione del fatto (Cass. n. 34476 del 27/12/2019).

Il richiamo effettuato in ricorso ai criteri di legge segnati dalla giurisprudenza inaugurata da Cass. SU n. 18287 del 2018 con contestazione del giudizio svolto dalla Corte di merito sulla sperequazione dei redditi delle parti – sull’apprezzata potenziale crescita secondo l’id quod plerumque actidit dei redditi professionali del ricorrente, in quanto avvocato, sul contributo dato al patrimonio della famiglia e dell’altro coniuge, dalla richiedente e sulla consistenza del suo patrimonio, in quanto, anche, gravato da debiti – valgono, in realtà, ad introdurre una diversa lettura di fatti già scrutinati dai giudici romani, e non le dedotte violazioni di legge.

La Corte di merito non incentra il proprio giudizio soltanto sul prerequisito dato dalla sperequazione tra i redditi delle parti, che analiticamente ricostruisce, ma fa piena applicazione dei criteri di legge secondo la più recente interpretazione di questa Corte, valorizzando il precario stato di salute della richiedente e le effettive potenzialità di guadagno connesse allo svolgimento dell’attività libero-professionale di avvocato, il contributo dato dalla richiedente alla famiglia ed al patrimonio dell’altro coniuge, nel corso di un matrimonio durato trent’anni, almeno negli anni in cui la prima era dipendente della “Società condotte d’acqua”, parametrando a siffatti criteri l’entità dell’assegno fissato.

Il motivo è pertanto, sotto quest’ultimo profilo, anche infondato.

Ogni altro contenuto resta assorbito.

4. Il ricorso conclusivamente infondato va, come tale, rigettato.

Spese liquidate come in dispositivo indicato, secondo soccombenza.

Dati oscurati.

Doppio contributo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente U.P.C. a rifondere a Z.A.R. le spese di lite che liquida in Euro 2.900,00 per compensi ed Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% forfettari ed accessori di legge da distrarsi in favore dell’Avvocato Alessandro Bianchini, dichiaratosi antistatario.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Si dispone che ai sensi del D.Lgs. n. 198 del 2003, art. 52, siano omessi le generalità e gli altri dati identificativi in caso di diffusione del presente provvedimento.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2022

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