Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5904 del 03/03/2020

Cassazione civile sez. un., 03/03/2020, (ud. 05/11/2019, dep. 03/03/2020), n.5904

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente f.f. –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente di Sez. –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 17356/2019 R.G. proposto da:

AVR S.P.A., in persona dell’amministratore delegato p.t.

N.C., IMPRESA S.G. & C. S.R.L., in persona del

presidente p.t. D.F.M., e TEOREMA S.P.A., in

persona del presidente p.t. N.C., rappresentate e

difese dagli Avv. Maurizio Boifava e Francesco Vagnucci, con

domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, piazza S.

Bernardo, n. 101;

– ricorrenti –

contro

AMBITO DI RACCOLTA OTTIMALE N. 2 DELLA PROVINCIA DI TARANTO, in

persona del Sindaco del Comune di Martina Franca, rappresentato e

difeso dall’Avv. Giuseppe Misserini, con domicilio eletto in Roma,

via Cosseria, n. 2, presso lo studio del Dott. Alfredo Placidi;

– controricorrente – e

MONTECO S.R.L., in persona dell’amministratore unico p.t.

M.M., in proprio e nella qualità di mandataria del RAGGRUPPAMENTO

TEMPORANEO D’IMPRESE costituito con la CICLAT AMBIENTE SOC. COOP. ed

il CONSORZIO NAZIONALE COOPERATIVE DI PRODUZIONE E LAVORO

C.M. S.C.P.A., rappresentata e difesa dagli Avv. Federico Massa e

Domenico Mastrolia, con domicilio eletto in Roma, viale G. Mazzini,

n. 13, presso lo studio dell’Avv. Luca Agliocchi;

– controricorrente –

e

UFFICIO COMUNE DI A.R.O. TA/(OMISSIS), COMUNE DI MARTINA FRANCA, in

qualità di capofila dell’A.R.O. TA/(OMISSIS), COMUNE DI CRISPIANO,

COMUNE DI LATERZA, COMUNE DI MOTTOLA, COMUNE DI PALAGIANELLO e

COMUNE DI STATTE;

– intimati –

avverso la sentenza del Consiglio di Stato n. 691/18, depositata il 2

febbraio 2018;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 5 novembre 2019

dal Consigliere Dott. Guido Mercolino;

uditi gli Avv. Francesco Vagnucci, Giuseppe Misserini e Domenico

Mastrolia;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato generale Dott.

SALZANO Francesco, che ha concluso chiedendo la dichiarazione

d’inammissibilità ed in subordine il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 1 agosto 2016, il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, Sezione staccata di Lecce, rigettò il ricorso proposto dal Raggruppamento Temporaneo d’Imprese tra I’AVR S.p.a., l’Impresa S.G. & C. S.r.l. e la Teorema S.p.a., per l’annullamento della determina dirigenziale del 6 maggio 2016, n. 150, con cui l’Ambito di Raccolta Ottimale n. 2 della Provincia di Taranto lo aveva escluso dalla procedura aperta per l’affidamento dell’appalto dei servizi di igiene urbana e realizzazione di alcune strutture di servizio nei Comuni in esso ricadenti, ai sensi del D.Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, art. 38, comma 1, lett. c), dichiarando la decadenza dall’aggiudicazione e disponendo l’incameramento della cauzione.

2. L’impugnazione proposta dall’AVR, in proprio e nella qualità d’impresa mandataria, è stata rigettata dal Consiglio di Stato, che con sentenza del 2 febbraio 2018 ha dichiarato improcedibile l’appello incidentale condizionato proposto dalla Monteco S.r.l., in proprio e nella qualità di mandataria del Raggruppamento Temporaneo d’Imprese costituito con la Ciclat Ambiente Soc. coop. ed il Consorzio Nazionale Cooperative di Produzione e Lavoro C.M. S.c.p.a.

A fondamento della decisione, il Consiglio di Stato ha ritenuto che l’esclusione dalla procedura fosse stata correttamente giustificata con l’incompleta dissociazione dell’Impresa S. dal direttore tecnico D.F., nei confronti del quale era stata pronunciata sentenza di condanna ai sensi dell’art. 444 c.p.p., in quanto, nonostante la dichiarazione del presidente del consiglio d’amministrazione, secondo cui il D. era cessato dalla predetta carica con decorrenza dall’11 marzo 2014 e dall’incarico di responsabile tecnico con decorrenza dal 7 agosto 2014, una pluralità d’indizi evidenziava il tentativo della società di continuare ad avvalersi del predetto soggetto. Premesso infatti che con delibera del 24 febbraio 2014 l’Impresa S. si era limitata a revocare l’incarico di direttore tecnico, lasciando al D. quello di direttore operativo, ha rilevato che la risoluzione del rapporto di collaborazione professionale aveva avuto luogo solo nel mese di settembre 2014, aggiungendo che con verbale del 26 gennaio 2015 l’assemblea aveva dato atto dell’avvenuta stipulazione di un accordo informale con cui il D. si era impegnato a corrispondere alla società un’indennità risarcitoria sotto forma di mensilità di retribuzione/compenso. Ha escluso che, nel ritenere simbolica l’entità del risarcimento, la sentenza di primo grado fosse incorsa in ultrapetizione, osservando che, anche a voler concordare con l’importo indicato dall’appellante, risultava difficile affermarne la congruità in relazione alle dimensioni dell’Impresa, alla rilevanza della gara e alla gravità del reato contestato al D..

Il Giudice amministrativo ha inoltre escluso che il D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 38, comma 1, lett. c), si ponga in contrasto con la normativa comunitaria, richiamando la sentenza della Corte di Giustizia UE del 20 dicembre 2017, in causa C-178/16, secondo cui l’art. 45, par. 2, lett. c), d) e g) della direttiva 2004/18/CE del 31 marzo 2004 ed i principi di parità di trattamento e proporzionalità non ostano ad una normativa nazionale che consenta all’amministrazione aggiudicatrice di tener conto di una condanna penale, ancorchè non definitiva, a carico dell’amministratore di un’impresa offerente, per un reato che incide sulla moralità professionale dell’impresa, e di escludere la stessa dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione. Ha rilevato in particolare che la Corte di Giustizia ha riconosciuto il diritto dello Stato membro di determinare le condizioni della dissociazione dell’impresa dalla condotta dell’amministratore e l’obbligo dell’impresa di presentare tutte le prove che dimostrano la predetta dissociazione, aggiungendo che, ove quest’ultima non sia dimostrata in modo convincente, si applica necessariamente la clausola di esclusione.

Il Consiglio di Stato ha ritenuto infine legittimo l’incameramento della cauzione provvisoria, ravvisandovi una garanzia del rispetto del patto d’integrità cui si vincola chi partecipa ad una gara pubblica, e precisando che lo stesso costituisce una conseguenza automatica del provvedimento di esclusione, che non richiede nè la colpa del concorrente nè una valutazione discrezionale della stazione appaltante.

3. Avverso la predetta sentenza l’AVR e le imprese mandanti hanno proposto ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo, illustrato anche con memoria. Hanno resistito con controricorsi la Monteco S.r.l., in proprio e nella qualità, e l’ARO, il quale ha depositato anche memoria. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo d’impugnazione, le ricorrenti denunciano la violazione o la falsa applicazione dell’art. 111 Cost. e del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 110, nonchè l’eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera della Pubblica Amministrazione. Premesso che l’affermazione secondo cui l’Impresa S. non si era completamente dissociata dal suo amministratore trae origine dall’errata convinzione che, nonostante la cessazione dalla carica di direttore tecnico, il D. avesse conservato l’incarico di direttore operativo, che era stato invece revocato con la medesima delibera del 24 febbraio 2014, sostengono che, nel confermare la configurabilità della fattispecie di cui al D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 38, comma 1, lett. c), il Consiglio di Stato ha sostituito la motivazione della determinazione impugnata, avendo ritenuto che il rapporto di collaborazione fosse definitivamente cessato dal mese di settembre 2014, laddove il provvedimento di esclusione affermava che esso era proseguito fino alla data dell’esclusione dalla gara, ed avendo conseguentemente proceduto alla valutazione delle misure di dissociazione adottate dalla società, non prese in esame dall’ARO. Sostengono che in tal modo il Giudice amministrativo non solo si è sostituito all’Amministrazione aggiudicatrice in un apprezzamento discrezionale ad essa istituzionalmente riservato, ma lo ha rimodulato in pejus per l’Impresa, avendo fatto dipendere l’esclusione da un fatto meno grave di quello indicato nel provvedimento impugnato. A loro avviso, la sentenza avrebbe dovuto invece limitarsi a dare atto dell’estromissione del D. dalla struttura organizzativa della società a decorrere dal mese di settembre 2014, e rimettere all’Amministrazione ogni successiva valutazione in ordine all’adeguatezza delle misure di dissociazione poste in essere dall’Impresa S., non esaminate nella determinazione, la quale aveva ritenuto dirimente la prosecuzione del rapporto di collaborazione. In particolare, nel conferire rilievo all’inadeguatezza dell’importo richiesto al D. a titolo di indennità risarcitoria, quale indizio dell’incompleta dissociazione della società dal proprio amministratore, il Giudice amministrativo ha preso in considerazione un elemento che non aveva formato oggetto di valutazione da parte dell’ARO, in tal modo sostituendo la propria volontà a quella dell’Amministrazione, con conseguente superamento dei limiti esterni della giurisdizione.

1.1. Il ricorso è inammissibile.

Com’è noto, infatti, l’eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nella sfera del merito è configurabile soltanto quando l’indagine svolta dal giudice amministrativo abbia ecceduto i limiti del riscontro di legittimità del provvedimento impugnato, rivelandosi strumentale ad una diretta e concreta valutazione dell’opportunità e della convenienza dell’atto, ovvero quando la decisione finale, pur nel rispetto della formula dell’annullamento, esprima la volontà dell’organo giudicante di sostituirsi a quella dell’Amministrazione, attraverso un sindacato di merito che si estrinsechi in una pronunzia avente il contenuto sostanziale e l’esecutorietà propria del provvedimento sostituito, senza salvezza degli ulteriori provvedimenti dell’autorità amministrativa (cfr. tra le più recenti, Cass., Sez. Un., 24/05/2019, n. 14264; 26/11/2018, n. 30526; 2/02/2018, n. 2582).

Tali vizi non sono riscontrabili nella sentenza impugnata, la quale, nel procedere alla verifica dell’intervenuta dissociazione dell’Impresa S. dalla condotta penalmente illecita del suo direttore tecnico, nei confronti del quale era stata pronunciata sentenza ex art. 444 c.p.p., non ha espresso alcun apprezzamento in ordine all’opportunità ed alla convenienza del provvedimento di esclusione dalla gara, ma si è mantenuta nell’ambito del sindacato di legittimità, sollecitato in riferimento al D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 38, comma 1, lett. c), essendosi limitata, nel confermare la sussistenza dei presupposti necessari per l’esclusione, al doveroso accertamento dei fatti rilevanti ai fini dell’applicazione di tale disposizione. Rilevato infatti che il direttore tecnico che aveva riportato la predetta condanna era cessato da tale carica nell’anno anteriore alla pubblicazione del bando di gara, ha ritenuto applicabile l’ultimo periodo dell’art. 38, comma 1, lett. c), cit., il quale richiede l’accertamento della dissociazione, osservando che il rapporto di collaborazione con il soggetto indicato era proseguito fino al mese di settembre 2014, e traendone, con il concorso di altri elementi risultanti dalla documentazione prodotta, il convincimento che l’Impresa S. non avesse effettivamente e completamente preso le distanze dalla condotta illecita.

Nessun rilievo può assumere, ai fini della configurabilità del vizio lamentato, la duplice circostanza, fatta valere dalle ricorrenti, che l’amministratore fosse stato rimosso dalla carica di direttore operativo non già successivamente, ma contestualmente alla cessazione da quella di direttore tecnico, e che nella motivazione del provvedimento di esclusione si affermasse che il rapporto di collaborazione era proseguito fino all’attualità, anzichè fino al mese di settembre 2014: si tratta infatti di elementi di dettaglio inidonei a modificare la fattispecie posta a fondamento del provvedimento di esclusione, il cui nucleo essenziale, puntualmente riscontrato nella specie dal Giudice amministrativo, è costituito dalla condanna di uno dei soggetti indicati per gravi reati incidenti sulla moralità professionale e, in caso di cessazione dalla carica nell’anno anteriore alla pubblicazione del bando di gara, dalla mancata dimostrazione della completa ed effettiva dissociazione dell’impresa dalla condotta penalmente sanzionata. Ai fini della sussistenza del primo presupposto, doveva considerarsi sufficiente la circostanza che il D. avesse ricoperto la carica di direttore tecnico, non essendo quella di direttore operativo inclusa nell’elenco dei possibili destinatari della condanna il cui concorso o la cui collaborazione nell’impresa precludono la partecipazione della stessa alla gara, ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. c), del D.Lgs. n. 163; a conservazione della carica di direttore operativo poteva assumere rilievo esclusivamente ai fini della prova della prosecuzione sotto altra veste della collaborazione tra l’impresa ed il condannato, che aveva tuttavia costituito oggetto di valutazione già nell’ambito della motivazione del provvedimento di esclusione, in quanto il D. era cessato dalle funzioni di direttore tecnico nell’anno antecedente all’indizione della gara. E’ in quest’ottica che l’Amministrazione aveva dato atto della prosecuzione del rapporto di collaborazione, correttamente riscontrata dalla sentenza impugnata, sia pure in riferimento ad un periodo più breve di quello risultante dal provvedimento, ma ritenuto comunque rilevante ai fini dell’esclusione, in concorso con altri elementi.

Giova d’altronde sottolineare che, nell’ambito dell’accertamento richiesto dal D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 38, comma 1, lett. c), la verifica della mancata dissociazione dell’impresa dalla condotta illecita del titolare, del socio, dell’amministratore o del direttore tecnico attinto dalla condanna penale, così come quella della qualità rivestita da quest’ultimo, non presenta alcun profilo di discrezionalità, trattandosi di circostanze oggettivamente riscontrabili, il cui controllo non può quindi tradursi in un’invasione della sfera del merito amministrativo. Al di fuori delle ipotesi specificamente previste dalla norma in esame con richiamo all’art. 45, par. 1, della direttiva n. 2004/18/CE, la discrezionalità dell’Amministrazione risulta infatti limitata all’apprezzamento della gravità del reato e della sua idoneità ad incidere sulla moralità professionale del condannato (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 17/06/ 2014, n. 3092; 27/03/2012, n. 1799; 8/7/2010, n. 4440), in ordine alle quali la sentenza impugnata non ha formulato alcun apprezzamento, trattandosi di profili che, per quanto risulta, non hanno costituito oggetto di censura nell’ambito del giudizio.

Peraltro, anche a voler ritenere che il Giudice amministrativo sia incorso in errore nell’individuazione del thema decidendum e nell’applicazione della norma invocata, avendo attribuito al provvedimento impugnato un contenuto diverso da quello effettivo ed avendo quindi ritenuto necessario un accertamento non richiesto dalla legge, dovrebbe ugualmente escludersi la configurabilità dell’eccesso di potere giurisdizionale, trattandosi di vizi incidenti rispettivamente sull’interpretazione dell’atto amministrativo e su quella della legge da applicare, le quali costituiscono il proprium della funzione giurisdizionale, e non possono quindi dar luogo ad uno sconfinamento nell’area riservata alla discrezionalità della Pubblica Amministrazione (cfr. Cass., Sez. Un., 11/07/2018, n. 18240; 31/05/2016, n. 11380).

2. Le spese processuali seguono la soccombenza, e si liquidano come dal dispositivo.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida per ciascuno dei controricorrenti in Euro 15.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dal comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 5 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2020

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