Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5894 del 03/03/2020

Cassazione civile sez. lav., 03/03/2020, (ud. 12/11/2019, dep. 03/03/2020), n.5894

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21794/2014 proposto da:

C.V., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA SEMPIONE

19/B, presso lo studio dell’avvocato IRMA BOMBARDINI, rappresentato

e difeso dall’avvocato FABIOLA GIOVANNELLI;

– ricorrente –

contro

PROVINCIA DI RIETI, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA EUSTACHIO MANFREDI 21, presso

lo studio dell’avvocato ROBERTO ANTONELLI, rappresentata e difeso

dall’avvocato CARLA PISTOLESI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1036/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 24/06/2014 R.G.N. 66/2011.

Fatto

RILEVATO

che:

1. con la sentenza n. 1036, resa in data 24 giugno 2014, la Corte d’appello di Roma, decidendo sull’impugnazione proposta dalla Provincia di Rieti nei confronti di C.V., ex lavoratore socialmente utile, in riforma della decisione primo grado, respingeva le domande avanzate dal C. per ottenere la declaratoria di illegittimità e conseguente disapplicazione dei provvedimenti con i quali la Provincia aveva dichiarato anticipatamente risolto il rapporto instaurato con il ricorrente (per essere risultato quest’ultimo “temporaneamente non idoneo per mesi uno” – lettera del 14/5/2007 – e per avere lo stesso “superato il periodo di assenza di giorni 30” previsti dal regolamento di utilizzazione dei lavoratori di utilità sociale – lettera del 28 maggio 2007 -), con condanna dell’Ente al pagamento delle mensilità di integrazione salariale maturate dal maggio 2007 al 2/11/2007;

2. riteneva la Corte territoriale che la sopravvenuta impossibilità fisica del lavoratore integrasse una tipica ipotesi di impossibilità parziale della prestazione ex art. 1464 c.c., che rendeva legittimo recesso dal contratto della controparte che non avesse un interesse apprezzabile all’adempimento parziale;

sosteneva, poi, quanto al fatto che l’amministrazione non si era preoccupata di dimostrare l’oggettiva impossibilità di utilizzare il lavoratore reputato inidoneo alle mansioni affidategli in altri compiti compatibili con la qualifica di assunzione (operaio), che fosse onere del lavoratore indicare le posizioni lavorative presenti nell’organigramma aziendale compatibili con le sue condizioni di salute, cosa che nella specie non era avvenuta;

riteneva, infine, quanto all’ulteriore causale del recesso, che non avesse il legislatore previsto il diritto ad assentarsi per motivi di salute per un periodo di 90 giorni nell’arco di dodici mesi in quanto il D.Lgs. n. 468 del 1997, art. 8, comma 11, aveva comunque rimesso all’utilizzatore il compito di stabilire il limite massimo di assenze per malattia compatibile con il buon andamento del progetto e che non vi fosse alcun argomento logico e giuridico per sostenere che le assenze rilevanti ai sensi dei punti 2.3 e 2.5 del regolamento fossero solo quelle dovute a malattia;

3. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso C.V. articolando due motivi ai quali ha opposto difese la Provincia di Rieti;

4. entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3) violazione dell’art. 112 c.p.c.;

deduce che il motivo di appello della Provincia era stato tutto incentrato sulla sussistenza o meno di un rapporto di lavoro subordinato e che la Corte territoriale, ritenendo sussistente, nel caso di specie, un legittimo motivo di recesso dal contratto da parte della Provincia, stante la ritenuta impossibilità parziale lavorativa del C., avrebbe introdotto in modo del tutto illegittimo una nuova causa petendi;

2. il motivo è inammissibile;

il ricorrente non ha adempiuto all’onere di trascrivere il contenuto degli atti sui quali incentra le censure (comparsa di costituzione in primo grado della Provincia di Chieti, atto di appello) limitandosi ad una generica sintesi narrativa della posizione difensiva assunta dall’Ente (v. pag. 7 del ricorso per cassazione);

tale modalità di formulazione si pone in contrasto con i presupposti giuridici e di rito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1 e con i principi di autonomia del ricorso per cassazione (Cass., Sez. Un., 22 maggio 2014, n. 11308) che la predetta norma nel suo complesso esprime;

si aggiunga che l’interpretazione della domanda (di primo grado ovvero di appello) spetta al giudice del merito, per cui, ove questi abbia espressamente ritenuto che una certa domanda sia stata avanzata e sia compresa nel “thema decidendum”, tale statuizione, ancorchè erronea, non può essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che, avendo comunque il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione debba ritenersi ricompresa tra quelle da decidere, il difetto di ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere accertato che quella medesima motivazione sia erronea (cfr. Cass. 13 agosto 2018, n. 20718; Cass. 31 gennaio 2006, n. 2146);

il vizio di “ultra” o “extra” petizione ricorre, infatti, solo quando il giudice pronunci oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, fermo restando che egli è libero non solo di individuare l’esatta natura dell’azione e di porre a base della pronuncia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle prospettate, ma pure di rilevare, indipendentemente dall’iniziativa della parte convenuta, la mancanza degli elementi che caratterizzano l’efficacia costitutiva o estintiva di una data pretesa, in quanto ciò attiene all’obbligo inerente all’esatta applicazione della legge (v. Cass. 5 agosto 2019, n. 20932 nonchè Cass. 5 febbraio 2014, n. 2630; Cass. 11 settembre 2007, n. 2630; Cass. 23 febbraio 2006, n. 4008; Cass. 21 febbraio 2006, n. 3702);

3. con secondo motivo il ricorrente denuncia violazione della normativa sui lavoratori socialmente utili (art. 360 c.p.c., n. 3);

sostiene che la Corte territoriale, nel ritenere che non vi fosse alcun argomento logico e giuridico per sostenere che le assenze rilevanti ai sensi dei punti 2.3 e 2.5. del regolamento di utilizzazione dei lavoratori di utilità sociale, ai fini dell’esclusione dal progetto, fossero solo quelle non dovute a malattia, avrebbe operato un’erronea applicazione della normativa in materia di lavoro socialmente utili;

4. il motivo è inammissibile;

il ricorrente denuncia la violazioni di norme di diritto ma non formula le censure così come richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte, trascurando di considerare che il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’elencazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (v. Cass. 12 gennaio 2016, n. 287; Cass. 15 gennaio 2015, n. 635; Cass. 1 dicembre 2014, n. 25419; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038);

nel motivo, peraltro, vi è un’affermazione (“se pure è vero quanto disposto dal D.Lgs. n. 468 del 1997, art. 8, altrettanto vero è che il bando non ha giammai fissato in 30 giorni il limite di assenza per malattia…”) che contraddice la prospettata erronea applicazione di tale norma, scivolando il rilievo nella censura di quelli che sono stati accertamenti in fatto della Corte territoriale concernenti tanto i punti del regolamento quanto il bando di progetto (atti, peraltro, neppure trascritti nel loro contenuto nè allegati al ricorso per cassazione);

5. da tanto consegue che il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;

6. la regolamentazione delle spese segue la soccombenza;

7. la circostanza che il ricorrente risulti ammesso a beneficiare gratuito patrocinio (Delib. Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma 19 settembre 2014) lo esonera, allo stato, dal versamento dell’ulteriore somma dovuta ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, a titolo di contributo unificato (cfr. Cass. 25 novembre 2014, n. 25005 e Cass. 2 settembre 2014, n. 18523).

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza, allo stato, dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2020

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