Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5879 del 08/03/2017

Cassazione civile, sez. II, 08/03/2017, (ud. 07/02/2017, dep.08/03/2017),  n. 5879

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7390/2012 proposto da:

EDILUMBRA APPALTI DI M.R., (OMISSIS), IN PERSONA DEL

TITOLARE P.T., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARLO

MIRABELLO 6, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO D’AGOSTINO,

rappresentata e difesa dall’avvocato ALESSANDRO CHIUCCHIOLO;

– ricorrente –

contro

C.G., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO

DI FRANCIA 158, presso lo studio dell’avvocato NICODEMO FURFARO, che

lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 61/2011 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 27/01/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/02/2017 dal Consigliere Dott. GUIDO FEDERICO;

udito l’Avvocato Chiucchiolo Alessandro difensore della ricorrente

che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

ESPOSIZIONE DEL FATTO

Con atto di citazione ritualmente notificato M.R., quale titolare della ditta individuale Edilumbra Appalti, convenne innanzi al Tribunale di Perugia, sez. stacc. di Todi, C.G. esponendo di aver eseguito in favore del convenuto diversi lavori edili per una casa di abitazione per un corrispettivo di 3.286,11 Euro, oltre iva;

egli aveva altresì concluso un separato contratto per la costruzione di un capannone nel Comune di Fratta Todina per un corrispettivo di Lire 123.627.630, giusto computo metrico del 20/6/2002, sottoscritto dallo stesso C. e con consegna prevista per il 31/1/2003.

Tanto premesso, chiedeva la condanna del convenuto al pagamento di 25.800,00 euro, di cui 3.286,11 oltre Iva avuto riguardo all’importo residuo per l’abitazione e la restante somma a titolo di risarcimento danni per il mancato guadagno derivante dal recesso del C. dal contratto di appalto relativo alla costruzione del capannone, nonchè danno reputazionale, per la condotta diffamatoria del C. medesimo.

Costituitosi in giudizio, il C. resistette alla domanda, rilevando che, in occasione della contabilizzazione dei lavori l’architetto T., in qualità di direttore dei lavori, aveva espresso osservazioni sulle opere eseguite, successivamente contestate con comunicazione del 19.12.2002. Poichè il R. aveva rifiutato di conformarsi alle indicazioni del direttore dei lavori, il C. aveva esercitato il recesso.

Chiedeva pertanto, in via riconvenzionale, la condanna del R. al risarcimento dei danni per lavori di riparazione sull’immobile, ultimazione dei lavori non eseguiti, e mancato guadagno derivante dal ritardo nel completamento delle opere oggetto del contratto.

Il Tribunale respinse la domanda dell’attore ed, in parziale accoglimento della domanda riconvenzionale del convenuto, dichiarò compensate le spese sostenute per l’eliminazione dei vizi e difetti rilevati sulle opere eseguite dall’attore con le somme ancora dovute dal convenuto a saldo di dette opere.

Rigettò nel resto la domanda riconvenzionale e compensò le spese di lite tra le parti.

La Corte d’Appello, con la sentenza n. 61/2011 confermò la compensazione delle spese sostenute per l’eliminazione dei vizi e difetti riscontrati sulle opere eseguite dal R. con le somme a questi dovute per il saldo delle opere ed, in parziale riforma della sentenza impugnata, dichiarò risolto per inadempimento del R. il contratto di appalto avente ad oggetto i lavori eseguiti presso il fabbricato di civile abitazione del C., condannando il R. al risarcimento dei danni, determinati in 1.800,00 Euro, oltre ad interessi legali.

Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso, con quattro motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c. M.R..

C.G. resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Deve anzitutto disattendersi l’eccezione di tardività del ricorso, sollevata dal controricorrente, atteso che la data del 14.10.2010 da questi indicata, si riferisce con evidenza alla data di deliberazione della sentenza, mentre la data di pubblicazione, da cui decorre il c.d. “termine lungo” ex art. 327 c.p.c. è quella del 27 gennaio 2011, come risulta dal timbro di -depositato in cancelleria” apposto.

Passando all’esame dei motivi, con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360, nn. 3), 4) e 5), deducendo la violazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 116 c.p.c., nonchè l’omessa ed insufficiente valutazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, deducendo che la sentenza impugnata avrebbe omesso di valutare alcuni elementi istruttori e senza dare conto in motivazione del criterio per il quale ha ritenuto di dare la prevalenza a determinate prove a discapito di altre.

Il motivo è inammissibile in quanto si risolve in una mera rivalutazione dei fatti già oggetto del sindacato del giudice di merito.

Ed invero, secondo il consolidato orientamento di questa Corte il vizio di omessa o insufficiente motivazione, ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo quando nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, ma non può consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove date dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte, spettando solo a detto giudice individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, senza necessità della specifica confutazione di ogni mezzo istruttorio e di ogni singola acquisizione processuale, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge, in cui alla prova è assegnato un valore legale (Cass. n. 6064/2008).

Nel caso di specie, la Corte territoriale con valutazione di merito che, in quanto fondata su argomentazione logica, coerente ed esaustiva, si sottrae al sindacato di legittimità, sulla base del complessivo esame delle acquisizioni istruttorie, ha ritenuto di ritenere particolarmente attendibile la testimonianza del direttore dei lavori arch. T., sia per le conoscenze tecniche che per la posizione di imparzialità, evidenziando altresì che le sue dichiarazioni avevano trovato pieno riscontro e conferma in quelle rese da diversi testimoni, i quali tutti riferirono della presenza di vizi presso l’abitazione del C..

Non sussiste dunque il dedotto vizio di carenza motivazionale, configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di merito emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza del procedimento logico posto a base della statuizione censurata.

Nel caso, invece, in cui vi sia mera difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente il motivo di ricorso si risolve, come nel caso di specie, in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. Ss.Uu. 24148/2013).

Con il secondo motivo il ricorrente censura il capo della sentenza che ha dichiarato la risoluzione del contratto di appalto avente ad oggetto la casa di abitazione del C., per inadempimento dell’odierno ricorrente, condannandolo al risarcimento dei danni.

Il ricorrente denuncia, in particolare, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1455 e 1662 c.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo, lamentando che la Corte d’Appello abbia erroneamente applicato le norme generali in materia di risoluzione contrattuale, invece che la disposizione di cui all’art. 1662 c.c., ed inoltre per avere ritenuto comunque sussistente il requisito della gravità dell’inadempimento di cui all’art. 1455 c.c..

Deduce inoltre l’omessa motivazione, in quanto la Corte non ha indicato sulla base di quali elementi ha desunto il rifiuto dell’odierno ricorrente di uniformarsi alle disposizioni del committente.

Il motivo appare fondato nei limiti di cui appresso.

La Corte ha infatti correttamente affermato che il rimedio previsto dall’art. 1662 c.c., analogo alla diffida ad adempiere di cui all’art. 1454 c.c., costituisce una facoltà per il committente, il quale può o meno ricorrervi, ben potendo scegliere di chiedere la risoluzione del contratto secondo il paradigma generale di cui agli artt. 1453 c.c. e segg., come, ad avviso della Corte, verificatosi nel caso di specie.

La Corte ha però fondato il presupposto della risoluzione del contratto su un elemento, il rifiuto dell’impresa appaltatrice di conformarsi all’eliminazione dei vizi, che, da un lato, avrebbe piuttosto legittimato il rimedio dell’art. 1662 c.c., e dall’altro era stato escluso dalla sentenza di primo grado, mentre la ritenuta sussistenza di tale rifiuto non risulta in alcun modo argomentata, onde non è possibile accertare su quali basi la Corte ha ritenuto provato il rifiuto all’eliminazione dei vizi, specificamente contestato dall’odierno ricorrente.

La sentenza impugnata va dunque cassata sul punto, per violazione dell’art. 1662 c.c. e artt. 1453 c.c. e segg., per aver posto a fondamento della generale azione di risoluzione il presupposto dello specifico rimedio di cui all’art. 1662 c.c., invece che la gravità dell’inadempimento ex art. 1455 c.c. e per l’omessa indicazione degli elementi in forza dei quali risulti provato il rifiuto dell’appaltatore di eliminare i vizi e difformità contestate.

L’accoglimento di detto motivo assorbe l’esame del terzo, con il quale l’odierno ricorrente denunzia, subordinatamente alla censura precedente, la violazione e falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., nonchè degli artt. 936, 1458, 1655 c.c. e l’omessa motivazione circa un fatto controverso, in ordine alla mancata liquidazione, da parte della Corte territoriale, del proprio credito in esito alla pronuncia di risoluzione.

Con il quarto motivo si denunzia la violazione dell’art. 1671 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3) e 5), censurando, sotto diverso profilo, il capo della sentenza impugnata che ha pronunciato la risoluzione del contratto di appalto avente ad oggetto la casa di abitazione del C., deducendo che la Corte avrebbe dovuto piuttosto configurare il recesso del committente.

Con lo stesso motivo si censura la statuizione che, pur ritenendo la sussistenza del recesso ad nutum ex art. 1671 c.c., da parte del committente con riferimento all’appalto del capannone, ha escluso il risarcimento dei danni da esso conseguente, deducendo che l’appaltatore non aveva assolto all’onere di provare il lucro cessante, avuto riguardo alle occasioni di lavoro e di guadagno cui aveva rinunciato ed all’utile che ne sarebbe conseguito, rilevando che tale prova avrebbe dovuto essere fornita documentalmente.

La prima censura è assorbita dall’accoglimento del secondo motivo, restando demandata al giudice del rinvio, avuto riguardo all’appalto della casa di abitazione del committente, la valutazione del rapporto controverso e del comportamento delle parti, ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all’art. 1662 c.c. o alla pronuncia di risoluzione del contratto per inadempimento dell’appaltatore.

La secondo censura è fondata.

Ed invero, secondo il consolidato indirizzo di questa Corte, in ipotesi di recesso unilaterale del committente dal contratto d’appalto, ai sensi dell’art. 1671 c.c., grava sull’appaltatore, che chiede di essere indennizzato del mancato guadagno, l’onere di dimostrare quale sarebbe stato l’utile netto da lui conseguibile con l’esecuzione delle opere appaltate, costituito dalla differenza tra il pattuito prezzo globale dell’appalto e le spese che si sarebbero rese necessarie per la realizzazione delle opere, restando salva per il committente la facoltà di provare che l’interruzione dell’appalto non ha impedito all’appaltatore di realizzare guadagni sostitutivi, ovvero gli ha procurato vantaggi diversi (Cass. 9132/2012).

Nella liquidazione di tale indennizzo, peraltro, il giudice del merito ha facoltà di applicare il criterio equitativo che, se costituisce il metodo normale per la valutazione del lucro cessante (ex art. 2056 c.c.), può essere utilizzato per qualsiasi danno ed, in particolare, per la determinazione della quota di spese generali, costi di ammortamento, impegno improduttivo di materiali e mano d’opera ecc., quando sia impossibile o assai difficoltoso, sulla base di una valutazione discrezionale del giudice, fornire la prova precisa dell’entità del pregiudizio sofferto (Cass. 2608/2003).

A tale principio non risulta essersi conformata la Corte d’Appello che ha escluso ogni rilievo alle dichiarazione di un dipendente, affermando che la prova del lucro cessante avrebbe dovuto essere fornita documentalmente ed ha omesso altresì di verificare la praticabilità del ricorso al criterio equitativo, che, proprio in materia di prova del lucro cessante trova uno dei suoi principali ambitivi, ai fini della liquidazione dell’indennizzo.

Pure tale capo della sentenza va dunque cassato.

In conclusione, respinto il primo motivo, il ricorso va accolto limitatamente al secondo e quarto motivo, assorbito il terzo.

La sentenza impugnata va dunque cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio, per nuovo esame, ad altra sezione della Corte d’Appello di Perugia, che provvederà ala regolazione delle spese del presente giudizio.

PQM

La Corte, respinto il primo motivo, accoglie il secondo e quarto motivo ricorso, assorbito il terzo.

Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia per nuovo esame ad altar sezione alla Corte d’appello di Perugia, che provvederà alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2017

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