Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5875 del 04/03/2021

Cassazione civile sez. VI, 04/03/2021, (ud. 19/01/2021, dep. 04/03/2021), n.5875

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9896/2019 R.G. proposto da:

D.G., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Alberto

Lorenzi e Giuseppe Falace, con domicilio eletto presso lo studio del

secondo in Roma, Via Velletri, n. 24, int. 2/B;

– ricorrente –

contro

Azienda Sanitaria Locale di Pescara, rappresentata e difesa dall’Avv.

Camillo Tatozzi, con domicilio eletto in Roma, Via Cristoforo

Colombo, n. 440, presso lo studio dell’Avv. Franco Tassoni;

– controricorrente –

e nei confronti di:

B.R. e L.L.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello de L’Aquila, n. 153/2019,

depositata il 25 gennaio 2019;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19 gennaio

2021 dal Consigliere Emilio Iannello.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. La Corte d’appello di L’Aquila ha confermato la decisione di primo grado che aveva rigettato la domanda risarcitoria di D.G. per le lesioni subite a seguito dell’intervento chirurgico di asportazione di ernia del disco L4-L5 ed esplorazione di L5-S1, cui si era sottoposta presso l’Ospedale di Pescara nel 1997.

Ha, infatti, ritenuto validamente desunta dalla c.t.u. espletata in primo grado, sulla base della documentazione prodotta dai convenuti, la prova del corretto operato dei chirurghi e della ascrivibilità della lesione lamentata (paralisi del piede destro e patologie correlate) a “danno meccanico ischemico della quinta radice lombare” già provocato dall’ernia, suscettibile di progredire nel tempo anche ove questa venga trattata chirurgicamente. Secondo i giudici d’appello si trattava, dunque, di una complicanza non rimediabile dall’intervento; questo, inoltre, non poteva essere evitato, avendo i consulenti precisato che, in mancanza, la paziente avrebbe corso l’alto rischio di perdere completamente il movimento del piede.

Ha altresì respinto il motivo di gravame con il quale l’appellante si doleva della ritenuta tardività della domanda di risarcimento per difetto di consenso informato, osservando che rettamente questa è stata considerata domanda nuova, poichè introdotta solo con la memoria conclusionale e non suscettibile di essere considerata quale mera precisazione o modificazione della domanda contenuta nell’atto introduttivo.

2. Avverso tale decisione D.G. propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, cui resiste l’Azienda Sanitaria Locale di Pescara, depositando controricorso.

Gli altri intimati non svolgono difese nella presente sede.

3. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia “erronea o omessa valutazione delle prove offerte dalla danneggiata per fondare la responsabilità antagonista”.

Rileva che:

– “le produzioni documentali, tra le quali la cartella clinica, l’interrogatorio formale reso dal Dott. B. e dal contumace Dott. L., la carenza di specifica contestazione ex art. 115 c.p.c. e le altre prove orali esperite” convergono per la piena prova del contatto sociale tra la ricorrente, la struttura sanitaria ed i medici resistenti;

– il teste D.R.M., all’udienza del 13/7/2005, ha dichiarato che la paziente, fino al giorno prima dell’operazione, camminava correttamente, indossando, spesso, scarpe con il tacco, mentre dopo l’operazione manifestava, sin da subito, sensazione di freddo e di insensibilità al piede destro, non riuscendo a camminare se non appoggiandosi ad altri e soggetta varie volte a cadute;

– tale condizione era anche dimostrata dalle foto;

– altrettanto hanno riferito gli altri testi, sig.ri B.C., S.L., D.R.L., A.G., D.B.L. ed C.E..

Afferma che vi era dunque “la prova del nesso di causa tra il danno-evento (operazione) ed il danno-conseguenza (paralisi del piede), in termini presuntivi esposti in plurimi atti difensivi (i punti 2, 3, 4, 5 e 8 dell’atto introduttivo, il punto 1 della memoria di replica depositata in data 17.1.2011, pagina 19 e 20 della comparsa conclusionale del 21.6.2013 e dalla pagina 11 alla pagina 21 della seconda memoria di replica, depositata il 15.07.2013)” (così testualmente a pag. 7 del ricorso).

Argomenta che “è evidente che l’inadempimento dei sanitari vi è stato anche se il consulente ritiene, in buona sostanza, che possa derivare dall’operazione, ma non è detto che debba derivarne, e l’erronea valutazione delle prove è proprio l’aver ritenuto la possibilità del verificarsi dell’evento come esclusione della responsabilità”.

Sostiene che “i sanitari convenuti… nel giudizio di responsabilità, per superare la presunzione, posta a loro carico dall’art. 1218 c.c., non è sufficiente che dimostrino che l’evento dannoso per il paziente rientri astrattamente nel novero di quelle che nel lessico clinico vengono chiamate “complicanze”, rilevate dalla statistica sanitaria. La circostanza che un evento indesiderato sia qualificato dalla clinica come “complicanza” non basta a farne di per sè una causa non imputabile ai sensi dell’art. 1218 c.c., così come all’opposto eventi non qualificabili come “complicanze” possono teoricamente costituire casi fortuiti, che escludono la colpa del medico. Consegue, sul piano della prova, che nel giudizio di responsabilità tra paziente e medico o il medico riesce a dimostrare… di aver tenuto una condotta conforme alle leges artis e allora va esente da responsabilità, a nulla rilevando che il danno patito dal paziente rientri nella categoria delle “complicanze”, oppure all’opposto il medico quella prova non riesce a fornirla, come nel caso di specie, ed allora non gli gioverà la circostanza che l’evento di danno sia in astratto imprevedibile ed inevitabile, giacchè quel che rileva è se fosse prevedibile ed evitabile nel caso concreto, prevedibilità ed evitabilità del caso concreto che è onere del medico dimostrare e che, nel caso di specie, non è stata dimostrata”.

Conclude osservando che “avendo essa soddisfatto l’onere probatorio che le incombeva, non assolto, invece, dai sanitari e dalla struttura,… l’istanza risarcitoria deve avere ingresso con specifico riferimento alla nuova (perchè procurata dall’intervento, prima inesistente), paralisi del piede destro, in presenza di un’azione od omissione dei medici operatori in ipotesi atte a determinare l’evento, mentre l’essere rimasta ignota la causa del danno, non può ridondare a vantaggio dei convenuti, tenuti, invece, alla prova positiva non fornita del fatto idoneo ad escludere l’eziologica derivazione del pregiudizio dalla condotta inadempiente”.

“D’altro canto – prosegue – il nesso di causa tra condotta medica e danno è da ritenersi sussistente quando appaia più probabile che non che un tempestivo e diverso intervento medico avrebbe evitato il danno”; “la positiva ricorrenza della responsabilità antagonista… attinge dalla cartella clinica che relaziona il peggioramento del quadro clinico con l’intervento chirurgico, con la comparsa di grave limitazione della motilità del piede, non esistente, come evidenzia la cartella, al momento del ricovero e fino al giorno antecedente l’intervento. La comparsa di disturbi della sensibilità e la scomparsa del riflesso quelle la cui lesione è causa dei disturbi lamentati dalla ricorrente e accredita l’ipotesi di danneggiamento delle vie nervose intraoperatorio per una manipolazione delle radici non sufficientemente attiva e delicata, elementi, questi, che pur se oggetto di chiarimenti, non sono stati soddisfatti dall’ausiliario medico del Magistrato, che si è limitato a ritenere l’evento “complicanza””.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia “carenza, violazione del consenso informato, della necessaria evidenziazione delle reali eventuali conseguenze dell’intervento, cardine della deontologia medica; problemi di diritto intertemporale”.

Premesso che la disciplina sostanziale dettata dalla legge Gelli-Bianco non si applica ai fatti pregressi, che rimangono assoggettati al regime giuridico proprio della responsabilità da inadempimento ex artt. 1218 e 1228 c.c.”, lamenta che la rilevata tardività della “eccezione per il consenso informato” (così in ricorso) non sussiste.

Afferma che: è la stessa difesa di controparte ad avere introdotto in giudizio il consenso informato come thema decidendum et probandum; al pt. 4 di pag. 1 dell’atto introduttivo era stato introdotto il fatto storico di un’informazione distorta; nelle conclusioni dell’atto introduttivo ed in tutti i successivi atti difensivi, “la richiesta di condanna al generico risarcimento “è dictum generico che per il principio tempus regit actum comprende anche il danno da violazione del consenso informato”, essendo l’evoluzione giurisprudenziale che ne fa un danno autonomo successiva all’introduzione del giudizio; sul tema erano stati anche articolati capitoli di prova; controparte non aveva eccepito la tardività della domanda, ma aveva interloquito sul consenso informato; in ogni caso, il tribunale avrebbe dovuto prospettare la questione della eventuale novità della domanda, per non incorrere nel divieto della decisione della c.d. terza via.

Seguono altre considerazioni a supporto della pretesa risarcitoria riferita a tale causale.

3. Il primo motivo si espone a plurimi rilievi di inammissibilità e infondatezza.

3.1. Il motivo, così come descritto nell’intestazione, non è riconducibile ad alcuno dei vizi cassatori tipizzati. La successiva illustrazione (che, nell’impossibilità di sintetizzarla, si è sopra riprodotta pressochè nel suo testo integrale) sovrappone al suo interno, in maniera inestricabile, critiche – peraltro, come si dirà, a loro volta inammissibili – alla valutazione delle prove ed alla ricognizione del fatto e ipotizzati errores in iudicando, assumendosi erroneamente individuate o falsamente applicate le regole di giudizio pertinenti alla fattispecie.

La sovrapposizione di censure così eterogenee non consente a questa Corte di cogliere con certezza le singole doglianze prospettate (v. Cass., Sez. U, n. 9100 del 2015; conf. Cass. n. 3554 del 2017).

Varrà rammentare in proposito che la tipizzazione dei motivi di ricorso comporta che il generale requisito della specificità si moduli, in relazione all’impugnazione di legittimità, nel senso particolarmente rigoroso e pregnante, sintetizzato con l’espressione della cd. duplice specificità, essendo onere del ricorrente argomentare la sussunzione della censura formulata nella specifica previsione normativa alla stregua della tipologia dei motivi di ricorso tassativamente stabiliti dalla legge. Nella specie la tendenziale promiscuità della formulazione delle censure in esame avviluppa gli asseriti vizi strutturali della motivazione, ma anche l’inosservanza e l’erronea applicazione della legge sostanziale e processuale. Si tratta, dunque, di mezzi d’impugnazione difficilmente sovrapponibili e cumulabili in riferimento al medesimo costrutto argomentativo che sorregge la sentenza impugnata.

3.2. Altro preliminare profilo di inammissibilità è rappresentato dal ripetuto richiamo, a fondamento delle censure così eterogenee e promiscuamente sovrapposte, ad atti, prove orali e documenti del giudizio di merito, in palese inosservanza dell’onere di specifica indicazione degli stessi, imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6.

Di tali atti non viene riprodotto il contenuto, nè comunque viene indicata la specifica collocazione nel fascicolo processuale, mentre è invece necessario che si provveda anche alla relativa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta alla Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v., da ultimo, Cass., 16/3/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (v. Cass., 23/3/2010, n. 6937; Cass., 12/6/2008, n. 15808; Cass., 25/5/2007, n. 12239; Cass., 6/11/2012, n. 19157), la mancanza anche di una sola di tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr., da ultimo, Cass. Sez. U. 19/04/2016, n. 7701).

3.3. L’affermazione di una erronea applicazione delle regole di riparto dell’onere probatorio in materia, oltre ad essere in sè inficiata, come si dirà, dalla erronea identificazione di quelle applicabili alla materia, non coglie la ratio decidendi.

Questa, infatti, non consiste affatto nella affermazione del carattere ignoto della causa della lesione e nella conseguente individuazione dell’attrice quale parte che ne deve sopportare il rischio in quanto onerata della relativa prova, quanto piuttosto nell’accertamento – insindacabile in questa sede, poichè adeguatamente motivato e, comunque, non fatto segno di specifica censura – della estraneità alla condotta dei sanitari della più probabile causa (individuata nel decorso ingravescente del “danno meccanico ischemico della quinta radice lombare già provocato dall’ernia” e non rimediabile dall’intervento).

Non pertinenti si appalesano, pertanto, le considerazioni svolte in ricorso circa il concetto di “complicanza” dell’intervento e la sua limitata e condizionata rilevanza nelle fattispecie di responsabilità medica, dal momento che non è questa l’argomentazione spesa in sentenza. Questa usa bensì il termine “complicanza” ma per correlarlo (come appare chiaro al di là di qualche imprecisione sintattica) non già all’intervento bensì a preesistente fattore causale esterno, non inciso, nè rimediabile dall’operato dei chirurghi.

3.4. Alla luce di tali assorbenti considerazioni è appena il caso di soggiungere che, comunque, non ha nemmeno fondamento l’assunto svolto in ricorso secondo cui, vertendosi in tema di responsabilità contrattuale, una volta allegato da parte del paziente/danneggiato il rapporto obbligatorio nascente da contatto sociale e il danno, spetta alla struttura sanitaria e al medico che al suo interno ha operato dare prova dell’esatto adempimento o dell’esistenza di causa non imputabile dell’inadempimento.

Ribadito che nella specie tale prova (del fattore causale esterno e non prevenibile), secondo l’univoco accertamento contenuto in sentenza, è stata comunque positivamente raggiunta, così come del resto è stata anche raggiunta la prova del corretto operare secundum leges artis, varrà comunque rammentare – in punto di regole di riparto dell’onere probatorio – che, secondo principio ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, “in tema di inadempimento di obbligazioni di diligenza professionale sanitaria, il danno evento consta della lesione non dell’interesse strumentale alla cui soddisfazione è preposta l’obbligazione (perseguimento delle leges artis nella cura dell’interesse del creditore) ma del diritto alla salute (interesse primario presupposto a quello contrattualmente regolato); sicchè, ove sia dedotta la responsabilità contrattuale del sanitario per l’inadempimento della prestazione di diligenza professionale e la lesione del diritto alla salute, è onere del danneggiato provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) e la condotta del sanitario, mentre è onere della parte debitrice provare, ove il creditore abbia assolto il proprio onere probatorio, la causa imprevedibile ed inevitabile dell’impossibilità dell’esatta esecuzione della prestazione” (Cass. 11/11/2019, nn. 2899128992).

3.5. Pur prescindendo da tali assorbenti rilievi, appare comunque evidente, in ultima analisi, che la censura si risolve nella inammissibile sollecitazione di una nuova valutazione del materiale istruttorio.

4. Il secondo motivo è altresì inammissibile, ai sensi dell’art. 360-bis.1 c.p.c..

4.1. Il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte.

Costituisce infatti jus receptum il principio in base al quale, nel caso in cui l’attore abbia chiesto con l’atto di citazione il risarcimento del danno da colpa medica per errore nell’esecuzione di un intervento chirurgico (e, quindi, per la lesione del diritto alla salute), e domandi poi in corso di causa anche il risarcimento del danno derivato dall’inadempimento, da parte dello stesso medico, al dovere di informazione necessario per ottenere un consenso informato (inerente al diverso diritto alla autodeterminazione nel sottoporsi al trattamento terapeutico), si verifica una mutatio libelli e non una mera emendatio, in quanto nel processo viene introdotto un nuovo tema di indagine e di decisione, che altera l’oggetto sostanziale dell’azione e i termini della controversia, tanto da porre in essere una pretesa diversa da quella fatta valere in precedenza (Cass. n. 24072 del 13/10/2017; v. anche Cass. n. 25764 del 15/11/2013; n. 18513 del 03/09/2007).

L’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare detto orientamento.

4.2. Non è nemmeno predicabile, in materia, diversamente da quanto affermato in ricorso, alcun mutamento di indirizzo nella giurisprudenza.

Il tema del danno da mancanza di consenso informato (ossia, da lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente, il quale trova fondamento nei principi espressi negli artt. 2,13 e 32 Cost.), e della sua distinzione rispetto al danno da lesione del diritto alla salute, è patrimonio della giurisprudenza da circa mezzo secolo.

Si è soliti citare quale primo precedente in argomento Cass. 06/12/1968, n. 3906, che ebbe ad affermare l’obbligo del sanitario di rendere edotto il paziente dell’effettiva natura della malattia e di pericoli che l’atto terapeutico comporta (richiamando, anche per il contenuto delle informazioni, la deontologia professionale) e, per converso, la “necessità” del consenso da parte del paziente alla cura o all’intervento.

Si trattava di un primo approccio non ancora influenzato dalla evoluzione del modo di sentire, nella società, del rapporto medico-paziente che si manifesterà più nettamente tra gli anni ottanta e novanta attraverso pronunce dirette ad alzare la soglia a tutela dell’effettività del consenso (v. Cass. n. 1773 del 26/03/1981; n. 3604 del 12/06/1982; n. 10014 del 25/11/1994; n. 364 del 15/01/1997).

Ovvio riflesso di tale acquisita nozione era ed è dunque, sul piano processuale, l’impossibilità di considerare compresa la domanda di risarcimento del danno da mancanza del consenso informato in quella di risarcimento del danno da lesione del diritto alla salute causato dall’inesatto adempimento della prestazione sanitaria.

4.3. Trattandosi di questione di puro diritto processuale la sua rilevabilità ex officio non richiedeva alcun preventivo specifico invito alle parti di interloquire (secondo principio ora positivizzato nell’art. 101 c.p.c., comma 2, introdotto dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 13, ma già anteriormente noto nella sua matrice giurisprudenziale) (v. Cass. n. 2984 del 16/02/2016; n. 17473 del 04/07/2018).

Senza dire che tale doglianza non risulta nemmeno proposta in appello.

4.4. Nemmeno è ipotizzabile una tacita accettazione del contraddittorio, essendo detta prospettazione, come evidenziato in sentenza, avvenuta per la prima volta in memoria conclusionale.

La contraria affermazione secondo cui invece essa sarebbe stata già prima veicolata negli scritti difensivi appare affidata ad argomenti alquanto deboli (non bastando certo il riferimento, nella narrazione della vicenda contenuta nell’atto introduttivo, alle assicurazioni ottenute dai sanitari prima dell’intervento, ma occorrendo una chiara ed univoca prospettazione della distinta causa petendi della pretesa risarcitoria) e, comunque, inosservanti dell’onere di specifica indicazione degli atti richiamati, in violazione, anche per tale parte, dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

5. Il ricorso deve essere pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente alla rifusione, in favore della controricorrente Azienda Sanitaria Locale di Pescara, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis, stesso art. 13.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.500 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1-bis, stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 19 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 marzo 2021

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