Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5869 del 08/03/2017


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Cassazione civile, sez. II, 08/03/2017, (ud. 08/07/2016, dep.08/03/2017),  n. 5869

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12408-2012 proposto da:

R.G.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

UMBRIA 7, presso lo studio dell’avvocato GIULIO ROSAUER,

rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI CECCHINI;

– ricorrente –

contro

B.S. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA LAZIO 20-C, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO FRANCESCO

DOTTO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1527/2011 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 28/11/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/07/2016 dal Consigliere Dott. D’ASCOLA PASQUALE;

udito l’Avvocato Cecchini Luigi difensore del ricorrente che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso; udito l’Avv. Dotto Massimo

Francesco difensore del controricorrente che si riporta alle difese

in atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO CARMELO che ha concluso per l’improcedibilità del ricorso

per incompletezza di copia della sentenza impugnata, incompletezza

già rilevata dalla Corte in via preliminare, in subordine, per il

rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1) La controversia riguarda l’eredità relitta dall’avv. F.C., che alla sua morte, nel (OMISSIS), aveva nominato erede universale del proprio ingente patrimonio G.L. ed esecutore testamentario B.S..

Quest’ultimo era stato istituito “erede unico” dalla G., deceduta il (OMISSIS).

L’avv. F. aveva legato a R.G.M., figlio di Br.Pi., i beni siti in (OMISSIS) e in particolare in piena proprietà la “torre” già “scuderia”; come nudo proprietario la villa e gli altri beni, esclusi i mobili contenuti nella villa che la G. avesse voluto ritirare.

Nel 1999 B. ha convenuto in giudizio R. per la restituzione di tutti i beni facenti parte dell’asse ereditario di G.L..

Il tribunale di Firenze il 12 settembre 2005 ha respinto la domanda riconvenzionale relativa all’annullamento del testamento della G. per incapacità naturale; ha respinto le domande del B. volte alla restituzione dei beni mobili di (OMISSIS).

Ha però condannato il convenuto alla restituzione della somma di 521 milioni di Lire, facente parte delle somme a vario titolo consegnate in vita dal de cuius al R. e destinate, quanto a 530 milioni menzionati in testamento, a investimenti, da effettuare nell’interesse del F..

Il tribunale ha respinto in proposito la tesi del convenuto, il quale aveva sostenuto che la somma gli era stata consegnata con l’incarico di restaurare la torre e il parco di (OMISSIS), opere realizzate con la somma affidatagli.

La Corte di appello gigliata con sentenza n. 1527 del 2011 ha rigettato l’appello di R.G.M., dichiarando inammissibile la produzione di nuova documentazione in appello.

Il soccombente ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 10 maggio 2012, resistito da controricorso dell’intimato.

Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

2) Preliminarmente va rilevato che non sussiste l’ipotesi di improcedibilità del ricorso, prospettata dal procuratore generale, per incompletezza della copia autentica della sentenza impugnata.

E’ vero che nella terza pagina il testo presenta un ampio spazio bianco, ma tutto il testo leggibile, sia prima che dopo la quarta pagina (nessuna è numerata) verte sul tema dell’interpretazione dell’art. 345 c.p.c. e sui limiti di ammissibilità dei documenti nuovi in appello, sicchè non sembra profilarsi l’impossibilità della Corte di esaminare il ricorso (v. Cass. 11005/03; 17065/07).

Non risulta infatti che la parte che si suppone mancante contenesse allegazioni rilevanti per stabilire se i motivi di censura siano fondati o meno. Ciò si può ritenere proprio perchè, stante l’unitarietà argomentativa del testo leggibile, nella parte mancante non vi sarebbe stato spazio per trattazione di altri profili, considerato anche che l’appello verteva su unico motivo di gravame (ricorso pag. 14). E’ quindi del tutto attendibile il testo di una parte mancante che si desume da pag. 16 del ricorso a partire dal sesto rigo; testo che riprende dopo una quindicina di righe quello della copia esistente e che riporta in quelle righe elementari argomentazioni circa il concetto di indispensabilità delle produzioni nuove in appello.

Quanto all’altra pagina completamente bianca che è inserita dopo la quarta, non è dato sapere se contenesse ulteriori sviluppi argomentativi della tesi accolta dai giudici di appello sull’inammissibilità della nuova documentazione e del giuramento suppletorio richiesto. Qualora si tratti di pagina mancante e involontariamente oscurata, la mancanza può ridondare al fine di far emergere con maggior nitore eventuali incompletezze dei motivi di ricorso, che devono essere formulati in modo da svolgere la critica strettamente rapportandosi alla sentenza di appello, riportandone cioè i passi criticati in stretto collegamento con la censura svolta.

3) Il primo motivo di ricorso denuncia in rubrica vizi di motivazione e violazioni relative alla normativa in tema di prova, indicando gli artt. 2697 e 112 c.p.c..

Il ricorso involge una questione che appare nuova rispetto al testo noto della sentenza impugnata e di cui non viene specificato, come è onere del ricorrente, in quali precisi termini sia stata posta in primo grado e riproposta in appello (Cass. 11738/16; 19410/15). Tale onere è da rispettare sia in caso di denuncia di vizi in procedendo, che consentono l’esame degli atti, sia, allorquando venga denunciato un vizio in iudicando.

Significativa della novità della questione è anche la circostanza che il ricorso deduca (pagg. 23/24) che la Corte di appello d’ufficio avrebbe dovuto affermare che era onere dell’attore provare che la somma contesa fosse appartenente al compendio ereditario al momento della apertura della successione.

Va peraltro rilevato che questa eccezione – cioè la specifica contestazione che i 530 milioni facessero parte del compendio ereditario e che la petitio hereditatis dovesse essere sul punto provata – non è stata qualificata in tal modo dal tribunale.

Il giudice di primo grado ha infatti rilevato (pag. 26) che il convenuto non aveva contestato di aver ricevuto la somma dall’avv. F., ma aveva dedotto che gli era stata consegnata con l’incarico di curare il restauro della torre e del parco.

Questa tesi difensiva partiva dal presupposto che la somma era quindi nella disponibilità del convenuto e imponeva di ritenere, come ha fatto il tribunale, che il convenuto dovesse dimostrare di aver speso effettivamente la somma per la destinazione indicata. Ne consegue che, in mancanza di tale prova, la somma doveva essere considerata ancora esistente e detenuta dal convenuto solo per investimenti, come recato dalla disposizione testamentaria. Non senza rilevare che la stessa sentenza di primo grado reca che la spiegazione di tale disposizione era stata dal convenuto attribuita a “dimenticanza del testatore” (sentenza tribunale pag. 27).

Il tribunale è poi pervenuto alla conclusione (pag. 29) che il convenuto R. non avesse dato prova della eccezione proposta “ovvero di avere impiegato la somma oggetto della disposizione testamentaria per lavori nella torre e nel parco della villa” e che “per contro, la documentazione offerta dall’attore avvalora la contraria prospettazione che i lavori della scuderia o torre e nel parco fossero stati già eseguiti al momento della dazione e che la somma consegnata dall’avv. F. al R. fosse stata investita”.

Quest’ultima affermazione dimostra che il giudice di primo grado è giunto ad accertare sia la insussistenza della giustificazione di spesa addotta sia, per contro, la sussistenza della somma tra i beni ereditari.

La censura resta così vanificata sotto ogni profilo e si comprende perchè lo sforzo in sede di appello si sia concentrato nella produzione documentale volto a dimostrare che la somma di 530 milioni sia stata spesa per lavori.

4) Il secondo motivo è inammissibile.

Esso denuncia omessa motivazione circa l’obbligo del rendiconto da parte del R. e violazione dell’art. 263 c.c..

Con questo breve motivo viene del pari introdotto un tema di indagine nuovo circa il fatto che il giudice di primo grado non aveva richiesto il rendiconto e si muove dal presupposto, negato con l’esame del primo motivo – e quindi insussistente – che la somma contesa “non era ricompresa nel compendio ereditario”.

5) I motivi dal terzo al sesto sono connessi.

Con il terzo il ricorrente si duole di uno scorretto uso delle presunzioni circa la prova di non appartenenza della somma controversa al compendio ereditario. La doglianza è volta a rimuovere affermazioni di contorno della sentenza, una delle quali peraltro non riscontrata nelle pagine di essa prodotte, relative alla necessità di congrua e affidabile documentazione delle spese asseritamente destinate a “lavori di manutenzione importanti”.

Il ricorrente deduce che il giudice può fondare il proprio convincimento su una prova presuntiva semplice, affermazione che non tocca la ratio decidendi data dalla mancanza di prova della destinazione proprio di quella somma a spese di manutenzione; l’esistenza di prova che altre somme furono a ciò destinate; l’inidoneità dei documenti prodotti in appello a rimuovere tale conclusione.

Con il quarto motivo viene lamentato un vizio di motivazione che si concentra sulla circostanza che il convenuto avrebbe prodotto documenti attestanti restituzioni di somme che “possono essere considerate verosimili” (pag. 37); sulla affermazione che la destinazione ad investimenti speculativi sarebbe stata di soli 455 milioni di lire investiti su conto di famiglia R. dal 1 dicembre 1996; che vi sarebbero stati successivi disinvestimenti per finalità di manutenzione di (OMISSIS); sulla conclusione che la disposizione testamentaria (del 24 aprile 1997) secondo cui residuavano 530 milioni dati per investimenti era forse dovuta al fatto che il de cuius era affetto all’epoca da male incurabile e potrebbe aver “fatto confusione”.

Trattasi di circostanze che necessitano quindi di una nuova valutazione inibita al giudice di legittimità e consentita solo a quello di merito, chiamato a riformularla solo in caso di cassazione con rinvio per dimostrata fondatezza della censura (successiva) relativa alla ammissibilità dei nuovi mezzi di prova. Nè è vero che i giudici di merito sono arrivati al “paradosso inaccettabile di quantificare tali spese a zero”, giacchè la sentenza di primo grado, confermata in appello, sentenza rispetto alla quale occorre commisurare la indispensabilità dei documenti nuovi, ha affermato che oltre alla somma di 530 milioni (inizialmente 600 consegnati il 28/11/2016, cfr sentenza tribunale pag. 27) che altre “ingenti somme” erano state versate in quel lasso di tempo dall’avv. F. alla ditta Poroporato e alla signora Br., madre del R. “certamente per spese di restauro della torre” e comunque per il “mantenimento del complesso di (OMISSIS)”.

Anche in questo caso difettano quindi i presupposti stessi del motivo di ricorso.

Meramente valutativa e di per sè priva di spessore logico è anche un’altra enfatizzazione, relativa all’ipotesi che essendo registrate in un appunto della segretario dello studio legale del de cuius in genti spese per (OMISSIS) tra il 1994 e il 1996 ingenti spese (200 milioni) dovrebbe inferirsi che anche negli anni successivi la gestione sia stata parimenti onerosa.

Elementare è osservare che proprio perchè sia prima che dopo quel periodo (nel 1993 circa 7 milioni; nel 1997 2,5) erano annotate spese modeste, sia stato solo il periodo 1994-1996 quello di spese straordinarie di manutenzione per opere, appunto, straordinarie e non ordinarie.

Ed infatti il tribunale ha ritenuto ciò che prima si è detto e la Corte di appello ha considerato i documenti nuovi insufficienti a smentire le risultanze acquisite. Vien meno così un altro puntello logico della costruzione del ricorso.

5.1) Il quinto motivo ritorna vanamente sulla valutazione delle nozioni di comune esperienza fatte dal giudice di merito e dedica un capo alla prova mediante giuramento suppletorio, la cui ammissione era comunque sollecitata per effetto delle “numerose produzioni documentali in appello”.

La sua sorte segue quindi quella del sesto motivo.

Con esso si denuncia violazione dell’art. 345 c.p.c. e si postula l’interpretazione che consente l’ammissione di nuove prove in appello, sol che siano idonee a fornire un contributo decisivo all’accertamento della verità materiale.

Trattasi di molti documenti, in parte, come rileva il controricorso, in possesso o comunque acquisibili da parte dell’attore e non prodotti tempestivamente per scelta difensiva (documenti bancari e amministrativi).

La Corte di appello li ha ritenuti non decisivi; tale affermazione è criticata sostenendo che per l’ammissibilità in appello non è necessaria la decisività ma la indispensabilità ai fini della decisione, cioè una prova avente spessore contenutistico decisivo per l’accertamento della verità materiale.

La censura, pur se diffusamente illustrata, forse anche al comprensibile fine di suffragare in questo modo la correttezza del ricorrente nei confronti del de cuius, non è accoglibile.

Essa si scontra con le regole del processo civile e con la valutazione insindacabile della Corte di appello circa la portata probatoria dei documenti. Non scalfisce due scogli insuperabili.

Il primo è costituito dal rilievo che per stessa ammissione di parte ricorrente sarebbe stato necessario un giuramento suppletorio per suffragare la consistenza di semipiena probatio che la documentazione nuova avrebbe potuto avere.

Dunque si trattava di documenti non decisivi, non idonei al ribaltamento della decisione, ma solo aventi una limitata forza probatoria.

Essi non potevano quindi superare l’ostacolo legato alla valutazione – spettante al giudice di merito – legata al concetto di decisività che, anche nelle ipotesi giurisprudenziali più lassiste (Cass. 13432/13) presuppone l’idoneità a rafforzare le prove già raccolte in primo grado. Esse erano in quella sede del tutto mancanti, alla luce di quanto si è osservato in riferimento alla sentenza di primo grado, esaminata sopra nel considerare motivi di portata processuale. Emerge infatti dagli atti menzionati che le somme spese per (OMISSIS) non furono solo quelle contese, ma anche altre erogate alla madre del convenuto. Ed infatti il tribunale aveva ritenuto non solo mancante la prova da parte di R di aver impiegato la somma oggetto di causa per lavori in villa, ma anche che esisteva la prova che i lavori erano stati altrimenti finanziati ed eseguiti. Dunque rispetto a questa ratio va considerata la motivazione della Corte di appello, la quale ha ritenuto che il “coacervo indistinto di pagamenti” esibiti fosse prova inadeguata della indispensabilità di essi al fine di dimostrare univocamente la finalità delle spese e la provenienza del danaro.

Non è quindi il caso di soffermarsi oltre sulla nozione di indispensabilità dei mezzi di prova ex art. 345 c.p.c. e di dar conto dettagliatamente delle letture più rigide (Cass. 5013/16) o di quelle, più realistiche, secondo cui il mezzo istruttorio in sede di gravame di merito è indispensabile quando appaia idoneo a sovvertire la decisione di primo grado, nel senso di mutare uno o più giudizi di fatto sui quali si basa la pronuncia impugnata, fornendo un contributo decisivo all’accertamento della verità materiale, in coerenza con i principi del giusto processo. (Sez. L, Sentenza n. 8568 del 29/04/2016)o di quelle più liberali (Cass. 17341/15).

In ogni caso mancherebbero i requisiti, filtrati dal giudizio insuperato della Corte di appello.

6) Resta assorbito il motivo di ricorso relativo alle spese di lite.

Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso e la condanna alla refusione delle spese di lite, liquidate in dispositivo, in relazione al valore della controversia.

Ratione temporis non è applicabile il disposto di cui al D.P.R 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1 quater, introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna parte ricorrente alla refusione a controparte delle spese di lite liquidate in Euro 8.000 (ottomila) per compenso, 200 per esborsi, oltre accessori di legge, rimborso delle spese generali (15%).

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2^ sezione civile, il 8 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2017

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