Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5864 del 08/03/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 08/03/2017, (ud. 07/12/2016, dep.08/03/2017),  n. 5864

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16543/2011 proposto da:

E.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA PANAMA 74, presso lo studio dell’avvocato GIANNI EMILIO

IACOBELLI, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

C. MONTEVERDI 16, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE CONSOLO,

che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5528/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 21/06/2010 r.g.n. 1189/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/12/2016 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito l’Avvocato ILARIA FARES ILARIA per delega verbale GIANNI

IACOBELLI;

udito l’Avvocato GIANFRANCO RUGGIERI per delega GIUSEPPE CONSOLO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.- Con sentenza del 21 giugno 2010, la Corte di Appello di Roma ha respinto l’impugnazione proposta da E.G. avverso la pronuncia di primo grado che aveva rigettato il ricorso volto a far valere la nullità del termine del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato stipulato con Poste Italiane Spa per il periodo 26.1.2004 – 13.3.2004, ritenendo fondata l’eccezione di scioglimento del contratto per mutuo consenso ex art. 1372 c.p.c., comma 1.

2.- Per la cassazione di tale sentenza E.G. ha proposto ricorso con tre motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c.. Ha resistito con controricorso Poste Italiane Spa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione di legge deducendo che la Corte territoriale avrebbe dovuto rilevare d’ufficio la decadenza della società dalla proposizione della domanda di risoluzione del rapporto di lavoro tra le parti per mutuo consenso.

Con il secondo motivo si denuncia nullità della sentenza per omesso rilievo d’ufficio da parte del giudice di merito del vizio di inammissibilità dell’eccezione di risoluzione per mutuo consenso nonchè contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ribadendo che la controparte avrebbe dovuto spiegare sul punto autonoma domanda riconvenzionale.

Entrambi i motivi, basati sul medesimo erroneo presupposto, risultano infondati in conformità a quanto già statuito da questa Corte (v. Cass. n. 16339 del 2015).

Infatti, al di là del contrasto giurisprudenziale circa la natura dell’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito (se, cioè, la stessa debba intendersi come eccezione in senso stretto, v. Cass. n. 10526 del 2009; Cass. n. 1939 del 1982, o in senso lato, in quanto rappresentante “un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal contratto, che può essere accertato d’ufficio”, v. Cass. n. 7270 del 1997, Cass. n. 24802 del 2006, Cass. n. 12075 del 2007, Cass. n. 10201 del 2012, Cass. n. 6125 del 2014), questa Corte ha chiarito che “di certo, comunque, la proposizione della risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito non costituisce oggetto di una “necessaria domanda riconvenzionale” in quanto con essa il convenuto non oppone una controdomanda intesa ad ottenere un provvedimento positivo sfavorevole all’attore, ma chiede semplicemente il rigetto della domanda attrice” (vedi Cass. n. 21253 del 2014, cfr. Cass. n. 3767 del 2005, Cass. n. 16314 del 2007, Cass. n. 20178 del 2010, Cass. n. 4233 del 2012).

2.- Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. e degli artt. 2697 e 2729 c.c., eccependo che il motivo di gravame era sicuramente puntuale e pertinente rispetto alla motivazione del giudice di primo grado, avuto anche riguardo a: “la ricerca e l’assunzione di un nuovo lavoro”.

Invero la Corte territoriale ha ritenuto che l’appello non fosse specifico rispetto a detta motivazione la quale aveva accertato il comportamento concludente della parte valorizzando non solo il decorso del tempo ma anche “altri elementi, tra i quali, in particolare, la nuova occupazione lavorativa”, mentre l’impugnazione non aveva proposto “argomenti specifici atti ad invalidare l’iter logico seguito dal primo giudice”, prendendo in considerazione peraltro elementi quali la percezione del TFR ed il ritiro del libretto di lavoro nemmeno valutati dal Tribunale.

La Corte romana ha affermato che nell’impugnazione, alla parte volitiva, deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame, rilevabile d’ufficio e non sanabile per effetto dell’attività difensiva della controparte, una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice.

Il Collegio reputa fondata la censura con cui si denuncia l’errore processuale in cui è incorsa la Corte del merito giudicando non specifico il motivo di appello dell’ E..

Come noto in caso di error in procedendo questa Corte è anche “giudice del fatto”, con la possibilità di accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito. Invero le Sezioni unite della Cassazione hanno statuito che, nei casi di vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, il giudice di legittimità, non dovendo limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, “è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda” (Cass. SS. UU. n. 8077 del 2012).

Ciò posto il passaggio rilevante dell’appello, puntualmente trascritto per esteso nel ricorso per cassazione, è il seguente: “e anche laddove il lavoratore avesse nelle more ricercato o trovato un altro lavoro (cosa che controparte avrebbe dovuto provare) non può costituire indizio grave, preciso e concordante della comune volontà di risoluzione del rapporto essendo dettata dalla elementare necessità di sopperire ai bisogni della vita”.

Pertanto non può essere condiviso il giudizio della Corte territoriale che ha ritenuto privo di specificità il mezzo di gravame proprio in punto “di occupazione lavorativa” a fronte di una deduzione – qui non conta verificare se fondata o meno nel merito – che contestava specificamente l’idoneità dell’elemento fattuale costituito dalla prestazione di altra attività lavorativa (peraltro negata) a fondare il convincimento del giudice di primo grado circa l’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro.

Infatti con riferimento al previgente testo dell’art. 434 c.p.c., comma 1 e art. 342 c.p.c., comma 1, applicabile alla fattispecie, sui requisiti di specificità dei motivi di impugnazione si sono contrapposti due orientamenti, uno più risalente e meno rigoroso, che considera sufficiente l’indicazione sommaria degli elementi che consentono di individuare i termini di fatto della controversia e delle ragioni per le quali è richiesta la riforma della sentenza (Cass. n. 11158 del 1995; Cass. n. 8181 del 1993, Cass. n. 16190 del 2004, Cass. n. 18674 del 2011), ed un secondo che sostiene invece che, perchè sia valido, l’atto d’appello non deve soltanto consentire di individuare le statuizioni in concreto impugnate e i limiti dell’impugnazione, ma è indispensabile anche, pure quando la pronuncia di primo grado sia stata censurata nella sua interezza, che le ragioni su cui si fonda l’impugnazione siano formulate con un sufficiente grado di specificità e correlate con la motivazione della sentenza impugnata: con l’effetto che, se da un lato il grado di specificità dei motivi di appello non può essere previsto in via generale e assoluta, dall’altro lato esso richiede pur sempre che alle argomentazioni proprie della sentenza impugnata siano contrapposte le censure mosse dall’appellante, dirette a incrinarne il fondamento logico-giuridico (v. ex plurimis Cass. n. 5210 del 2003, Cass. n. 8926 del 2004, Cass. n. 967 del 2004, Cass. n. 11781 del 2005, Cass. n. 12984 del 2006, Cass. n. 9244 del 2007, e già Cass., S.U., n. 9628 del 1993, n. 9244 del 2007, Cass. n. 15166 del 2008, Cass. n. 25588 del 2010, Cass. S.U. n. 23299 del 2011, Cass. n. 1248 del 2013, Cass. n. 6978 del 2013).

Anche a convenire con tale secondo rigoroso orientamento non par dubbio che nella specie, tenuto conto del passaggio innanzi richiamato a trascurato dalla Corte territoriale, si era proposta dall’ E. una critica adeguata e specifica della decisione impugnata, che consentiva al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice (cfr. Cass. n. 2814 del 2016; Cass. n. 25218 del 2011; Cass. SS.UU. n. 28057 del 2008, le quali ribadiscono che l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno del gravame, possono sostanziarsi finanche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado).

In proposito occorre rammentare (come evidenziato da Cass. S.U. n. 5700 del 2014 e Cass. S.U. n. 9558 del 2014), che la Corte di Strasburgo afferma che le limitazioni all’accesso alla tutela giurisdizionale per motivi formali non devono pregiudicare l’intima essenza di tale diritto; in particolare tali limitazioni non sono compatibili con l’art. 6, comma 1 CEDU qualora esse non perseguano uno scopo legittimo, ovvero qualora non vi sia una ragionevole relazione di proporzionalità tra il mezzo impiegato e lo scopo perseguito (v. tra le altre Corte EDU Walchli c. Francia 26 luglio 2007, Faltejsek c. Repubblica Ceca 15 maggio 2008). La stessa Corte EDU ha poi affermato che il vincolo del rispetto del diritto ad un processo equo imposto dall’art. 6, comma 1 della CEDU si applica anche ai provvedimenti di autorizzazione all’impugnazione (Corte EDU, Hansen c. Norvegia, 2 ottobre 2014, Dobric c. Serbia, 21 luglio 2011,punto 50).

Anche sulla base di tali considerazioni questa Corte ha ritenuto che pure l’art. 434 c.p.c., comma 1, nel testo introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. c) bis, conv. nella L. 7 agosto 2012, n. 134, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 c.p.c., non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma, in ossequio ad una logica di razionalizzazione delle ragioni dell’impugnazione, è sufficiente che il ricorrente in appello individui in modo chiaro ed esauriente, sotto il profilo della latitudine devolutiva, il quantum appellatum e circoscriva l’ambito del giudizio di gravame, con riferimento non solo agli specifici capi della sentenza del Tribunale, ma anche ai passaggi argomentativi che li sorreggono (cfr. Cass. n. 2143 del 2015).

3.- Conclusivamente, respinti i primi due motivi di ricorso, va accolto il terzo, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla Corte designata in dispositivo per esame del motivo di impugnazione erroneamente ritenuto non specifico, provvedendo altresì sulle spese.

PQM

La Corte rigetta i primi due motivi di ricorso, accoglie il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 marzo 2017

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