Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5852 del 22/02/2022

Cassazione civile sez. VI, 22/02/2022, (ud. 11/02/2022, dep. 22/02/2022), n.5852

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23627-2020 proposto da:

B.M.J., BR.MA., L.E.,

B.C., elettivamente domiciliati in Roma, Via Silvio Pellico 10,

presso lo studio dell’avvocato Giovanni Luigi Guazzotti, che li

rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

BE.CL., M.M., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA CARLO DEL GRECO 18, presso lo studio dell’avvocato

Antonella De Santis, che li rappresenta e difende giusta procura in

calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso l’ordinanza n. 32688/2019 della CORTE DI CASSAZIONE

depositata il 12/12/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio

dell’11/02/2022 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO;

Lette le memorie dei ricorrenti.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

B.M.J., Br.Ma., L.E., B.C. impugnano per revocazione sulla base di un unico motivo l’ordinanza di questa Corte n. 32688 del 12/12/2019.

Gli intimati hanno resistito con controricorso.

I ricorrenti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

La decisione gravata ha così statuito.

” Be.Cl. e M.M. convenivano in giudizio innanzi al Tribunale di Roma B.M.J., Br.Ma. e L.E..

Gli attori, quali proprietari di due distinte unità immobiliari, facenti parte di un’unica villa pentafamiliare, di proprietà anche dei convenuti ed in atti specificamente individuata, deducevano che nelle porzioni di loro proprietà esclusiva esisteva una servitù di scarico a favore dei fondi dominanti dei convenuti.

Chiedevano, quindi, previo accertamento di quanto dedotto, la condanna dei convenuti – in solido ovvero per la relativa quota di spettanza- al pagamento dell’indennizzo ex artt. 1038 e 1043 c.c.. La domanda era resistita dai convenuti che contestavano l’avverso dedotto.

L’adito Tribunale, con sentenza n. 14649/2011, dichiarava l’esistenza della servitù di scarico e condannava i convenuti al pagamento dell’indennità nella misura determinata con CTU.

Gli originari convenuti interponevano appello avverso la decisione del Tribunale di prima istanza, della quale chiedevano la riforma. Svolgeva appello incidentale B.C., chiamato in causa ad integrazione del contraddittorio quale usufruttuario dell’unità immobiliare del B.M. e – fatte proprie le conclusioni di cui all’appello principale – lamentava il mancato accoglimento della sua eccezione preliminare di nullità della notifica dell’atto di chiamata in causa già formulata in primo grado.

La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 1793/2018, dichiarava inammissibile l’appello incidentale, rigettava l’appello principale. Per la cassazione della succitata sentenza della Corte territoriale ricorrono gli originari convenuti con atti affidato a sei ordini di motivi e resistito con controricorso delle originarie parti attrici.

Hanno depositato memoria le parti ricorrenti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo del ricorso si censura il vizio di violazione e falsa applicazione di norme (artt. 1350,1027 e ss. e 1031 c.c.), nonché omesso esame di un fatto decisivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c. (nn. 3, 4 e 5).

Il motivo che viene articolato con promiscuo rifermento a plurimi parametri normativi di cui all’art. 360 c.p.c., si incentra, in sostanza, sulla pretesa mancata valutazione del fatto della rinuncia parziale della servitù per cui è controversia.

Da tale fatto, secondo la ricostruzione data dai plurimi profili promiscuamente addotti da parti ricorrenti, deriverebbe – quindi – la pretesa violazione delle norme di diritto come in epigrafe rubricate dalle parti ricorrenti.

Senonché il motivo qui in esame non coglie affatto, nel suo complesso, l’effettiva ratio in base alla quale i giudici di merito hanno deciso.

In particolare, nella sentenza di appello oggetto del ricorso in esame, viene del tutto esclusa la presenza nell’atto originario di acquisto in favore degli originari attori dell’esistenza di una costituita servitù di scarico a favore degli odierni ricorrenti.

E’ questa, sostanzialmente, la ragione posta a base della decisione per cui è ricorso, non debitamente colta e contestata col motivo in esame e che – di per sé – esclude la fondatezza della addotta pretesa violazione delle norme di diritto.

Il motivo va, dunque, in quanto infondato, respinto.

2.- Con il secondo motivo del ricorso si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione di norme (artt. 1038 e 1043 c.c. e ss.), nonché omesso esame di un fatto decisivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3.

Il motivo è incentrato, specificamente, sulla quantificazione dell’indennizzo ancorché – dall’esposizione dello stesso – non è invero fornita neppure la precisa entità delle somma per cui era intervenuta la condanna e l’eventuale minor somma dovuta.

Trattandosi di censura di carattere eminentemente valutativo ed assolutamente meritale, essenzialmente relativo a profilo fattuale non più riesaminabile in sede di giudizio di legittimità, il motivo non può che essere ritenuto inammissibile.

3.- Con il terzo motivo parti ricorrenti lamentano – testualmente – “la violazione di tutte la violazione e falsa applicazione di tutte le norme e principi di cui al precedente motivo secondo”, nonché il vizio di legge – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 – per violazione degli artt. 88,101,189 e 190 c.p.c., ed omesso esame di un fatto decisivo.

4.- Con il quarto motivo del ricorso si prospetta il vizio si prospetta – testualmente – la “violazione e falsa applicazione sotto altro profilo di tutte le norme ed i principi di cui ai precedenti motivi”, nonché omesso esame di un fatto decisivo.

5.- I due motivi sub 3) e 4) possono essere trattati congiuntamente. Ambedue si sostanziano in una concatenazione di profili a loro volta messi in relazione a quello di cui al precedente motivo sub 2).

Già la formulazione dei detti motivi, in uno al carattere confusamente ed indistintamente promiscuo, rende i motivi inammissibili.

Con gli stessi profili sollevati nei motivi in esame si tende, attraverso la strumentale e confusa deduzione di vizi di legge, ad ottenere una nuova valutazione – in fatto – delle conclusioni cui sono conformemente pervenuti entrambi i Giudici del merito ed, in particolare, della Corte territoriale che ha avuto modo di chiarire e ribadire come sia stata corretta del metodo di determinazione dell’indennizzo, specie in considerazione di una quantificazione parametrata anche alla “stabile insistenza delle opere”.

Ulteriormente deve evidenziarsi, alla stregua di noti e condivisi principi già enunciati da questa Corte, che – vi è inammissibilità del ricorso per cassazione allorché lo stesso finisca per sostanziarsi in una “mera riproposizione delle tesi difensive già svolte nelle fasi di merito” (Cass., Sez. Prima, Ord. 24 settembre 2018, n. 22478″) ovvero quando plurimi motivi di doglianza in singoli motivi “comportano l’impossibilità della specifica individuazione di una (determinante) tipologia censura consentita” (Cass., Sez. Seconda, Sent. 23 ottobre 2018, n. 26790).

I motivi sono, quindi, entrambi inammissibili.

6. – Il quinto motivo è così rubricato: ” violazione e falsa applicazione di ogni norma e principio in materia di rinuncia alla servitù (e) omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)”.

Nel corpo dell’esposizione del motivo è fatto rinvio alla norma di cui all’art. 1350 c.c. ed alla consentita rinunciabilità della servitù. Con motivo si adduce, più specificamente, l’erroneità della gravata decisione “per la parte in cui ha escluso la rilevanza dell’atto abdicativo della servitù formalizzato dagli attuali ricorrenti”.

Orbene la detta rinuncia non è stata affatto oggetto di una omessa valutazione.

La Corte territoriale ha tenuto conto della documentazione inerente la rinuncia alla servitù del 12/9/2017 per atto notaio T. (e l’autorizzazione amministrativa allo scarico del 7/12/2017) ed una volta ritenutane – ratione temporis – anche l’ammissibilità rispetto alla fase del giudizio non ne ha ritenuto la decisività.

Il fatto della intervenuta rinuncia, insomma, è stato sì valutato, ma considerato non decisivo ed “idoneo ad intaccare la valutazione della fondatezza delle originarie domande attoree”.

Tanto al cospetto, oltre che della già succitata persistente “stabile insistenza delle opere” (v. ò sub 5), in ragione della irrilevanza di “un’iniziativa unilaterale (la rinuncia) dei soggetti obbligati non condivisa dalla controparte”.

Il motivo e’, quindi, del tutto infondato e va respinto.

7.- Con il sesto motivo viene lamentata la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 345 c.p.c. e di ogni altra norma in tema di deducibilità del difetto di legittimazione passiva anche in fase di appello, di qualificazione della relativa eccezione e di corrispondenza fra chiesto e pronunciato.

Parti ricorrenti, sul presupposto del loro difetto di legittimazione (invocato in appello) lamentano la violazione delle norme di cui in epigrafe e la disattesa eccezione del difetto di corrispondenza fra chiesto e pronunziato.

Il motivo non può essere accolto.

I Giudici del merito hanno, con accertamento in fatto proprio del loro giudizio, acclarato che nell’atto originario di acquisto non vi era menzione della servitù per cui è controversia e, quindi, non era ipotizzabile la pretesa legittimazione passiva dei convenuti – usufruitori dello scarico- con affermazione della legittimazione stessa in capo alla costruttrice/venditrice società Romana Sviluppo Agricolo.

Il motivo va, quindi, respinto.

8.- Alla stregua di quanto innanzi esposto, affermato e ritenuto il ricorso deve, nel suo complesso, essere rigettato.

9.- Le spese seguono la soccombenza e, per l’effetto, si determinano così come in dispositivo.

10.- Sussistono i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento in favore delle parti controricorrenti delle spese del giudizio, determinate in Euro 5.800,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali nella misura del 15% ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione il 18 settembre 2019″.

L’unico motivo di ricorso denuncia ex art. 391 bis c.p.c. e art. 395 c.p.c., n. 4, un errore di fatto, e conseguente di giudizio, attinente all’accertamento ed alla ricostruzione della verità dei dati empirici della causa, da cui deriva l’erronea qualificazione giuridica dell’istituto della servitù dedotto in giudizio.

Assumono i ricorrenti che sussiste un originario vizio di percezione della realtà fattuale, la cui paternità va ascritta già al giudice di primo grado, che si è poi riverberato sui successivi gradi di giudizio.

In particolare, non si sarebbe percepita la questione di fatto della preesistenza di una servitù apparente di scarico costituita per destinazione del padre di famiglia ex artt. 1031 e 1062 c.c.

Infatti, poiché gli immobili appartenevano in origine ad un unico proprietario, il rapporto di asservimento è stato già costituito da quest’ultimo, non essendo quindi necessario ricercare la costituzione della servitù nei titoli di acquisto.

L’errore si è poi ripercosso sulla corretta applicazione delle norme (ad esempio in tema di determinazione dell’indennità, non dovuta nel caso di servitù non volontaria) ed in merito alla valutazione dei mezzi di prova.

La decisione del giudice di legittimità si è appiattita sulla valutazione del giudice di appello che però era fondata su di una percezione completamente erronea della realtà fattuale, e cioè sulla mancata percezione della preesistenza di opere univocamente destinate a costituire un rapporto di servitù.

Il ricorso per revocazione è inammissibile.

Preliminarmente deve essere disattesa la richiesta di declaratoria di cessazione della materia del contendere sollecitata da parte controricorrente sul presupposto che tra le parti sarebbe intervenuto un accordo in data successiva alla pronuncia revocanda, in assenza di adesione sul punto da parte della difesa dei ricorrenti.

Ancora, si evidenzia che essendo oggetto del contendere l’accertamento del esistenza di una servitù di scarico costituita a carico del fondo degli attori, la deduzione circa la sua insorgenza per effetto dell’istituto della destinazione del padre di famiglia non risulta essere stata dedotta nei precedenti gradi di merito né in sede di legittimità, sicché la deduzione si palesa evidentemente come inammissibile in quanto volta a sollecitare un tema di indagine mai posto in precedenza.

Inoltre, si assume erroneamente che costituisca un fatto su cui sarebbe caduto l’errore percettivo del giudice una modalità di acquisto del diritto di servitù, che a ben vedere non rappresenta un fatto, ma un effetto giuridico che è riconnesso dall’ordinamento ad una serie di elementi fattuali. Ma in via decisiva depone per l’inammissibilità della censura la circostanza che gli stessi ricorrenti ascrivano quello, che per loro costituisce un errore di fatto revocatorio, non già alla Corte di cassazione, il cui provvedimento è in questa sede impugnato, ma al giudice di primo grado e poi alla Corte di Appello, alle cui statuizioni si sarebbe adeguato il giudice di legittimità.

Rileva il Collegio che (Cass. n. 14610/2021), anche nella diversa prospettiva dei ricorrenti, l’omesso esame di un fatto sostanziale o processuale può dare luogo ad un vizio motivazionale o alla violazione di norma processuale, ma non integra un errore revocatorio ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, che viceversa consiste nella viziata percezione o nella falsa supposizione (espressa e mai implicita) dell’esistenza o inesistenza di un fatto sostanziale o processuale, non controverso fra le parti, la cui esistenza o inesistenza è incontrastabilmente esclusa o positivamente stabilita, dagli atti o documenti della causa.

Nel caso di specie, si addebita in realtà ai giudici di merito, e di riflesso alla Corte di Cassazione, di non essersi avveduti del fatto storico, almeno secondo la ricostruzione della parte, costituito dall’intervenuto acquisto per destinazione del padre di famiglia del diritto di servitù di scarico, ma non anche si individua un errore revocatorio nel senso sopra correttamente individuato.

Inoltre, è stato precisato che (Cass. S.U. n. 31032/2019) l’impugnazione per revocazione delle sentenze della Corte di cassazione è ammessa nell’ipotesi di errore compiuto nella lettura degli atti interni al giudizio di legittimità, errore che presuppone l’esistenza di divergenti rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti di causa, laddove nel caso di specie, non risulta tale divergenza (attesa anche l’assenza di una prospettazione di siffatta modalità di acquisto nei gradi di merito), aggiungendosi che in realtà l’errore risalirebbe all’attività di accertamento già in sede di primo grado.

In tal senso si veda anche Cass. n. 26643/2018, per cui l’errore di fatto idoneo a legittimare la revocazione della sentenza di cassazione, ex art. 391-bis c.p.c. e art. 395 c.p.c., n. 4, deve riguardare gli atti interni al giudizio di legittimità, che la S.C. può esaminare direttamente, con propria indagine di fatto, nell’ambito dei motivi di ricorso e delle questioni rilevabili d’ufficio, e deve avere carattere autonomo, nel senso di incidere esclusivamente sulla sentenza di legittimità; diversamente, ove l’errore sia stato causa determinante della sentenza di merito, in relazione ad atti o documenti che sono stati o avrebbero dovuto essere esaminati in quella sede, il vizio della sentenza deve essere fatto valere con gli ordinari mezzi di impugnazione (cfr. anche Cass. n. 7795/2018).

Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Tuttavia, non ricorrono i presupposti per la condanna dei ricorrenti ex art. 96 c.p.c.

Poiché il ricorso è dichiarato inammissibile, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso in favore dei controricorrenti delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 6.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma degli stessi artt. 1 bis e 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 11 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2022

 

 

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