Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5849 del 03/03/2021

Cassazione civile sez. III, 03/03/2021, (ud. 22/07/2020, dep. 03/03/2021), n.5849

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26175/2018 proposto da:

FE. DI B.G. & C. SAS, B.C.,

B.G., PA. DI B.G. & C. SAS, elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA MICHELE MERCATI 51, presso lo studio

dell’avvocato ANTONIO BRIGUGLIO, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ROBERTO VACCARELLA;

– ricorrenti –

contro

VISA DI D.F.P. & C. SAS, elettivamente domiciliato

in ROMA, PIAZZA CAVOUR 17, presso lo studio dell’avvocato SABATINO

CIPRIETTI, che lo rappresenta e difende;

– controricorrenti –

e contro

P.E.;

– intimati –

nonchè da:

P.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 96,

presso lo studio dell’avvocato LETIZIA TILLI, rappresentato e difeso

dall’avvocato LAURA TETI;

– ricorrenti incidentali –

contro

PA. DI B.G. & C. SAS, B.C.,

B.G., FE. DI B.G. & C. SAS, elettivamente

domiciliati in ROMA, VIA MICHELE MERCATI, 51, presso lo studio

dell’avvocato ROBERTO VACCARELLA, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato ANTONIO BRIGUGLIO;

– controricorrenti all’incidentale –

avverso la sentenza n. 861/2018 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 11/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22/07/2020 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

B.G., in proprio e quale procuratore speciale di B.C., nonchè quale rappresentante della società Pa. di E.P. & C. sas, e gli stessi quali soci della società Fe. di E.P. & C., in attesa di nuovo rappresentante legale, esponevano davanti al Tribunale di Pescara che la società Fe., a seguito di cessioni di quote, aveva mutato consistenza e denominazione in Pa. s.a.s, con riconoscimento della rappresentanza legale al socio accomandatario P.E., mentre in data 14 febbraio 1996 anche B.G. acquisiva la qualifica di socio accomandatario divenendo, unitamente al P., amministratore della società con poteri disgiunti. Aggiungevano che solo il P. si era occupato della gestione, sia della società Feba, che di Parinsa, lamentando che a seguito di controlli demandati ad un tecnico di fiducia, erano emerse gravi irregolarità contabili nella gestione di entrambe le società, a causa dell’utilizzo dei beni sociali per finalità individuali. Pertanto, su ricorso dei germani B. il Tribunale di Pescara aveva disposto, ex art. 700 c.p.c., la revoca dell’amministratore P. da entrambe le società; in sede di attuazione del provvedimento cautelare era emerso che P., quale rappresentante della sas Feba, aveva ceduto un ramo della azienda alla società VI.SA. che faceva capo a familiari del P. (moglie e figlia). Tutto ciò premesso chiedevano dichiararsi la nullità del contratto di cessione di quote per causa illecita, perchè posto in essere al solo fine di consentire al P. di impossessarsi dei beni della società, ovvero per mancanza di pagamento del prezzo, ovvero per simulazione relativa o perchè in frode alla legge, attesa la trasformazione societaria adottata senza il consenso dei soci ovvero ancora la dichiarazione di inefficacia dell’atto ai sensi dell’art. 1398 c.c., trattandosi di cessione di azienda conclusa da chi non aveva i poteri ovvero l’annullabilità del contratto per conflitto di interessi del rappresentante con il rappresentato;

si costituiva P. contestando le pretese e spiegando domanda riconvenzionale per il risarcimento dei danni. Eccepiva, preliminarmente, l’incompetenza del giudice adito per l’esistenza di una clausola compromissoria prevista nell’atto costitutivo delle due società, deduceva il difetto di legittimazione attiva di B.G. e riteneva infondata la pretesa; resisteva altresì VI.SA;

il Tribunale di Pescara, con sentenza del 7 novembre 2011, dichiarava la revoca di P.E. da amministratore del due società, Pa. e Fe, dichiarava nulla la cessione di azienda del 15 gennaio 2002 conclusa tra la società Fe e la VI.SA. retrocedendo nella proprietà di Fe sas di G.B., già Fe sas di E.P. i beni. Condannava P. al risarcimento dei danni in favore delle due società e al pagamento delle spese di lite;

avverso tale sentenza proponevano separati appelli, sia la società VI.SA, sia P. e si costituivano i germani B. reiterando le domande di nullità, annullabilità ed inefficacia del contratto di cessione di azienda già formulate in primo grado e ritenute assorbite dalla pronunzia di nullità del contratto perchè concluso in frode alla legge sensi dell’art. 1344 c.c.;

la Corte d’appello dell’Aquila con sentenza numero 861 del 2018, disposta la riunione dei procedimenti, in parziale accoglimento delle impugnazioni respingeva la domanda proposta da Feba di Giuseppe B. di inefficacia, nullità o annullabilità della cessione di ramo di azienda intercorso tra Fe di E.P. e VI.SA. di D.F.P.;

avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione i germani B., nella qualità in atti, affidandosi a due motivi che illustrano con memoria. Resiste con controricorso e ricorso incidentale, illustrato da memoria, P.E. e resiste con separato controricorso la sas VI.SA.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo si lamenta la violazione dell’art. 1345 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e la violazione degli artt. 112 e 346 c.p.c., in relazione all’art. 360, nn. 3 e 4, ovvero e comunque, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5. La Corte territoriale accogliendo il settimo motivo di gravame di P. e il terzo motivo della società VI.SA. relativi alla violazione dell’art. 1344 c.c., in tema di contratto in frode alla legge, ha ritenuto insussistenti i presupposti di tale fattispecie trattandosi di cessione di ramo di azienda in favore di terzi, posta in essere dal socio accomandatario sulla base dei poteri conferitigli nell’atto costitutivo. Conseguentemente, ha ritenuto infondata la domanda di inefficacia, nullità o annullabilità della predetta cessione di ramo di azienda. Ma accogliendo tale motivo di appello avrebbe dovuto esaminare le altre questioni sollevate dagli odierni ricorrenti e ritenute assorbite dalla pronunzia di nullità (contratto in frode alla legge), avendo i B. dedotto la violazione dell’art. 1345 c.c. in quanto le parti si erano determinate a concludere la cessione di ramo di azienda unicamente per motivo illecito comune ad entrambe. In particolare, attraverso una fittizia cessione di azienda, P. si sarebbe impossessato dei beni della società che amministrava per soddisfare il credito che lo stesso riteneva di vantare nei confronti della sas Feba che invece era stato oggetto di indagine penale. Riguardo a tale questione vi sarebbe una omessa pronunzia ai sensi dell’art. 112 c.p.c., in quanto i ricorrenti legittimamente si erano limitati a riproporre in appello, ai sensi dell’art. 346, le domande ritenute assorbite dal Tribunale in conseguenza della pronunzia di nullità ai sensi dell’art. 1344 c.c. (frode alla legge);

sotto altro profilo la sentenza sarebbe viziata per la omessa considerazione di un fatto decisivo costituito dalla indebita manovra commerciale tesa a soddisfare un credito oggetto di contestazione anche penale;

con il secondo motivo si lamenta l’omesso esame, in relazione all’art. 1394 c.c., di fatti decisivi, nonchè la violazione dell’art. 1394 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Il contratto di cessione di ramo di azienda sarebbe stato concluso in conflitto di interesse con il rappresentato. Circostanza questa ritenuta infondata dal giudice di appello perchè basata secondo la Corte – solo sul rapporto di parentela tra P. e i soci della VI.SA. La Corte d’appello non avrebbe considerato ulteriori elementi decisivi, oltre al rapporto di parentela, costituiti da una serie di circostanze fattuali risultanti dagli atti di causa ed in particolare: al momento della cessione di azienda figuravano dei presunti crediti, in realtà contestati puntualmente, di P. nei confronti della società Fe; p.ertanto tali crediti avrebbero consentito di limitare il prezzo di cessione dell’azienda in favore di VI.SA. ed in danno di Fe. con contestuale riconoscimento di partite creditorie da parte di VI.SA, in realtà inesistenti. Le criticità del presunto credito di P. emergerebbero dal contenuto della consulenza di ufficio e sarebbero state formalmente contestate, sia in bilancio, sia con comparsa di costituzione in appello. Dall’insieme di tali elementi la Corte d’appello avrebbe dovuto rilevare l’annullabilità del contratto di cessione per conflitto di interessi tra P. e la Fe.;

il primo motivo è fondato. Nell’esposizione sommaria dei fatti il ricorrente trascrive la sentenza di primo grado che a sua volta riporta le questioni sollevate dai B. davanti al Tribunale. Il primo giudice, in particolare, rileva che “l’attore invocava declaratoria di nullità del contratto di cessione per causa illecita in quanto posto in essere solo per consentire al P. di impossessarsi dei beni della società; ovvero per mancanza di pagamento del prezzo di cessione e quindi per mancanza di un elemento essenziale, ovvero per simulazione relativa o perchè in frode alla legge…. o ancora declaratoria di inefficacia dell’atto ai sensi dell’art. 1398 c.c., per avere il P. ceduto il ramo di azienda senza averne i poteri; ovvero di annullabilità perchè posto in essere in evidente conflitto di interessi del rappresentante con il rappresentato;

parte ricorrente aggiunge – correttamente – che, avendo il Tribunale accolto una delle questioni, cioè la nullità del contratto concluso in frode alla legge, non ha esaminato le altre tematiche prospettate, che, quindi, sono state riproposte ai sensi del 346 c.p.c., quale parte vittoriosa, nella comparsa di costituzione in appello;

tale circostanza è ritualmente dedotta nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., n. 6, esponendo in ricorso dicendo che gli appellati B. “avevano nello specifico riepilogando i motivi di nullità, annullabilità, inefficacia dedotti dalle parti attrici nel giudizio di primo grado in relazione al contratto di cessione di ramo di azienda” e nello specifico, sempre nella comparsa di costituzione in appello, quei motivi vengono specificati e trascritti in ricorso in termini di “nullità per causa illecita ex art. 1347 c.c. o ex art. 1348 c.c., in frode alla legge o ex art. 1345 c.c., per motivi illeciti” aggiungendo che, anche agli occhi un profano, emergerebbe che le parti del contratto di cessione si erano accordate per avvantaggiare il solo P., attraverso una manovra commerciale apparentemente legittima, finalizzata in realtà ad introiettare somme e utilità non dovute;

orbene, alla luce di tali elementi deve prendersi atto che la Corte territoriale ha esaminato solo alcune delle domande proposte e non è possibile sostenere che dalle argomentazioni utilizzate con riferimento ad altre ipotesi di invalidità del contratto sarebbe possibile desumere una motivazione che copra anche l’ipotesi di causa illecita, come nullità del contratto di cessione di ramo di azienda;

i B. avevano dedotto in citazione (si veda la sentenza del Tribunale richiamata) e reiterato in appello (comparsa di costituzione, con trascrizione dei passaggi salienti e indicazione dell’allegato) la violazione dell’art. 1345 c.c., in quanto le parti si sarebbero determinate a concludere la cessione di ramo di azienda unicamente per motivo illecito, comune ad entrambe. In particolare, attraverso una fittizia cessione di azienda P. si sarebbe impossessato dei beni della società che lo stesso P. amministrava per soddisfare il credito (compenso professionale) che lo stesso riteneva di vantare nei confronti della sas Fe. (e che, invece, era stato oggetto di indagine penale, conclusa con patteggiamento). Su tale tematica la Corte territoriale non si è pronunciata ai sensi dell’art. 112 c.p.c. e il giudice del rinvio dovrà valutare la eventuale fondatezza delle altre questioni di invalidità dedotte dagli odierni ricorrenti e ritenute assorbite a seguito della iniziale pronuncia di nullità ex art. 1348 c.c.;

il secondo motivo è inammissibile. La Corte territoriale ha rigettato il corrispondente motivo di appello perchè lo ha qualificato estremamente generico e tale profilo non è censurato e riguarda la prova del conflitto di interessi;

nel merito, il fatto non considerato sarebbe la limitazione del prezzo a seguito dell’inserimento abusivo del presunto credito di P. in bilancio;

qui il pregiudizio dovrebbe essere costituito, non tanto da quanto deducono i ricorrenti e cioè dal fatto che la società dei familiari di P., la VI.SA. si sarebbe fatta carico e accollata un presunto credito del familiare, ma nel fatto che la società Fe avrebbe ricevuto un prezzo per la cessione del ramo di azienda alleggerito, in conseguenza della posta di bilancio fittizia costituita dal credito dell’amministratore P. nei confronti della società Fe. In sostanza i soci di quest’ultima società avrebbero un utile da dividere inferiore a quello reale;

ma tale profilo non determinerebbe (ove ritenuto sussistente) l’inefficacia del contratto, ma – al più – un’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore;

quanto alle varie deduzioni fattuali evidenziate in appello nella comparsa di costituzione, la richiesta formulata in sede di legittimità si traduce in una sollecitazione della Corte di Cassazione alla rilettura delle risultanze istruttorie, in quanto tale inammissibile, consistendo in una censura alla motivazione su apprezzamenti di fatto riservati in via esclusiva del giudice di merito. In ogni caso non si tratta di fatto storico decisivo, ma di profili istruttori che riguardano le risultanze processuali;

vanno espresse, per tale motivo, le considerazioni che saranno oggetto anche del ricorso incidentale. I ricorrenti principali, infatti, pur denunciando, formalmente, ipotetiche violazioni di legge che vizierebbero la sentenza di secondo grado, (perchè in contrasto con gli stessi limiti morfologici e funzionali del giudizio di legittimità) sollecitano a questa Corte una nuova inammissibile valutazione di risultanze di fatto (ormai definitivamente cristallizzate sul piano processuale) sì come emerse nel corso dei precedenti gradi del procedimento, così strutturando il giudizio di cassazione in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito, nel quale ridiscutere analiticamente tanto il contenuto, ormai consolidatosi, di fatti storici e vicende processuali, quanto l’attendibilità maggiore o minore di questa o di quella ricostruzione probatoria, quanto ancora le opzioni espresse dal giudice di appello non condivise e per ciò solo censurate al fine di ottenerne la sostituzione con altre più consone ai propri desiderata – quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa fossero ancora legittimamente proponibili dinanzi al giudice di legittimità;

con il primo motivo del ricorso incidentale si lamenta la violazione dell’art. 2259 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, riguardo al concetto di “giusta causa rilevante”. La Corte d’appello non avrebbe considerato che il criterio contabile adottato dal ricorrente incidentale non aveva inciso sull’assetto aziendale, mentre P. aveva iniziato una serie di importanti lavori di ristrutturazione e potenziamento delle strutture che avrebbero richiesto un compenso significativo. In sostanza, la decisione non sarebbe corretta laddove “a fronte di decenni di amministrazione proficua nell’interesse delle due società e – dunque – nonostante l’insussistenza di una situazione tale da pregiudicare la gestione sociale, legittima la revoca dell’amministratore per via del mancato rinvenimento di alcuni libri contabili di anni addietro”;

il motivo è inammissibile perchè del tutto generico risolvendosi in una evanescente censura onnicomprensiva. Parte ricorrente, come anticipato, si pone al di fuori del perimetro della “violazione di legge”. Le censure si risolvono, nella sostanza, in una (ormai del tutto inammissibile) richiesta di rivisitazione di fatti e circostanze come definitivamente accertati in sede di merito. Parte ricorrente, difatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, mediante una specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie astratta applicabile alla vicenda processuale, si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla Corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto irricevibili, volta che la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle – fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente sostenibili), non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere in alcun modo tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale, ovvero vincolato a confutare qualsiasi deduzione difensiva;

con il secondo motivo si deduce la violazione l’art. 2967,1226 e 2056 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3. La Corte, in rimo luogo, avrebbe dovuto accertare un pregiudizio concreto a carico della società per la condotta dell’amministratore e, in secondo luogo, non avrebbe potuto liquidare in via equitativa il danno riferito anche alla posizione della società Pa

., estranea alla cessione;

il motivo è inammissibile perchè generico. Non sono individuate con precisione le argomentazioni della Corte territoriale oggetto di censura e i principi e le norme violate. A prescindere da ciò, la doglianza è dedotta in violazione l’art. 366 c.p.c., n. 6, poichè non vi è nessun riferimento al materiale istruttorio sulla base del quale si prospetta una ricostruzione più appagante per il ricorrente incidentale, rispetto a quella fatta propria dai giudici di merito;

ne consegue che il ricorso per cassazione deve essere accolto limitatamente al primo motivo del ricorso principale, mentre gli altri motivi del ricorso principale e di quello incidentale vanno dichiarati inammissibili.

PQM

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale. Dichiara inammissibile il secondo motivo del ricorso principale ed il ricorso incidentale;

cassa la sentenza impugnata in relazione al primo motivo del ricorso principale e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello dell’Aquila, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 22 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2021

 

 

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