Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5848 del 22/02/2022
Cassazione civile sez. I, 22/02/2022, (ud. 19/01/2022, dep. 22/02/2022), n.5848
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 24494/2016 proposto da:
Fondazione IRCCS Cà Granda – Ospedale Maggiore Policlinico, in
persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliato in Roma Via Antonio Gramsci, 24 presso lo studio
dell’avvocato Maria Stefania Masini, che la rappresenta e difende
unitamente all’avvocato Pietro Ferraris, e Enzo Robaldo, in forza di
procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
C.E., Compagnia Italiana Previdenza Assicurazioni e
Riassicurazioni s.p.a., Esipro Ingegneria Industriale s.r.l.,
F.C., F.M., F.R., P.F.,
tutti quali eredi di Fa.Ma., Impresa Pi. & C
s.p.a., Iteco s.r.l., Società Reale Mutua Assicurazioni,
S.S., Zurich Insurance Public Limited Company;
– intimati –
nonché contro
F.M., e P.F., quali eredi Fa.Ma.,
elettivamente domiciliati in Roma Piazzale delle Medaglie d’oro 7
presso lo studio dell’avvocato Antonella Fumai, e rappresentati e
difesi dagli avvocati Giorgio Vecchione, e Riccardo Vecchione, in
forza di procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrenti –
contro
C.E., Compagnia Italiana Previdenza Assicurazioni e
Riassicurazioni s.p.a., Esipro Ingegneria Industriale s.r.l.,
Ferruzzi Alberto, Fondazione IRCCS Cà Granda – Ospedale Maggiore
Policlinico, Impresa Pi. & C. s.p.a., San Fiorenzo
s.r.l., Società Reale Mutua Assicurazioni, S.S., Zurich
Insurance Public Limited Company;
– intimati –
nonché contro
Fondazione IRCCS Cà Granda -Ospedale Maggiore Policlinico,
elettivamente domiciliato in Roma Via Antonio Gramsci, 24 in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in
Roma Via Antonio Gramsci, 24 presso lo studio dell’avvocato Maria
Stefania Masini, che la rappresenta e difende unitamente
all’avvocato Pietro Ferraris, e Enzo Robaldo, in forza della
predetta procura speciale in calce al ricorso;
– controricorrente –
nonché contro
Zurich Insurance Public Limited Company, in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via
Fabio Massimo, 95 presso lo studio dell’avvocato Giovanni Pieri
Nerli, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Daniele
Cattaneo, in forza di procura speciale a margine del controricorso;
– controricorrente –
nonché contro
Compagnia Italiana Previdenza Assicurazioni e Riassicurazioni s.p.a.,
in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in Roma Via Emanuele Gianturco 6 presso lo studio
dell’avvocato Filippo Sciuto, che lo rappresenta e difende
unitamente all’avvocato Carlo Scofone, in forza di procura speciale
in calce al controricorso;
– controricorrente –
nonché contro
M.M., quale erede dell’arch. Fe.Al., e San
Fiorenzo s.r.l., elettivamente domiciliati in Roma Viale Giulio
Cesare 14 A-4 presso lo studio dell’avvocato Gabriele Pafundi, che
li rappresenta e difende unitamente agli avvocati Mauro Collini, e
Silvia Fosca Collini, rispettivamente in forza di procura notarile
del 10.1.2022 a rogito Notaio A. e procura speciale in calce
al controricorso;
– controricorrente –
nonché contro
Impresa Pi. & C. s.p.a., in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via
Cassiodoro 9 presso lo studio dell’avvocato Mario Nuzzo, che lo
rappresenta e difende unitamente all’avvocato Vincenzo Mariconda,
procura speciale in calce al controricorso
– controricorrente – nonché contro
Impresa Pi. & C. s.p.a., in persona del legale
rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via
Cassiodoro 9 presso lo studio dell’avvocato Mario Nuzzo che lo
rappresenta e difende unitamente all’avvocato Vincenzo Mariconda,
procura speciale in calce al controricorso;
– controricorrente –
nonché contro
F.M., e P.F., quali eredi Fa.Ma.,
elettivamente domiciliati in Roma Piazzale delle Medaglie d’oro 7
presso lo studio dell’avvocato Antonella Fumai, e rappresentati e
difesi dagli avvocati Giorgio Vecchione, e Riccardo Vecchione, in
forza della predetta procura speciale a margine del ricorso;
– controricorrente –
nonché contro
ESI.PRO s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, e
C.E., elettivamente domiciliati in Roma, piazza Mazzini
27 presso lo studio dell’avvocato Marco Petrone, e che li
rappresenta e difende unitamente all’avvocato Giuseppe Inglese, in
forza di procura speciale in calce all’atto di costituzione del
26.5.2017;
– resistenti –
avverso la sentenza n. 2810/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,
depositata il 5.7.2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
19.1.2022 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE
SCOTTI;
uditi gli Avvocati ENZO ROBALDO, FILIPPO SCIUTO MARIO NUZZO, GABRIELE
PAFUNDI, RICCARDO VECCHIONE, GIUSEPPE CILIBERTI, delegato dall’avv.
DANIELE CATTANEO, GIUSEPPE INGLESE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
NARDECCHIA GIOVANNI BATTISTA, che ha concluso per l’inammissibilità
del ricorso della Fondazione IRCCS e per il rigetto del ricorso
degli eredi Fa..
Fatto
FATTI DI CAUSA
1. La presente controversia scaturisce da cinque giudizi riuniti radicati presso il Tribunale di Milano.
1.1. Il giudizio principale, recante il numero di r.g. 29080/2003, è stato promosso dalla s.p.a. Garboli, in proprio e quale mandataria dell’associazione temporanea d’imprese (a.t.i.) con la Tonoimpianti s.a.s., aggiudicataria dell’appalto per i lavori di ristrutturazione del nosocomio, nei confronti dell'(OMISSIS), attualmente divenuto Fondazione I.R.c.c.S. Cà Granda-Ospedale Maggiore Policlinico (di seguito, semplicemente: Fondazione IRCCS o Fondazione), al fine di sentirlo condannare al pagamento a proprio favore delle somme di Euro 7.505.979,61 per riserve iscritte, di Euro 1.636.198,91 (pari al 15% dell’importo contrattuale) per mancato guadagno e di Euro 581.275,95, quale differenza fra l’importo delle opere eseguite e certificate nello stato di consistenza e l’importo percepito a titolo di acconto.
In tale giudizio l'(OMISSIS) si è costituito, chiedendo il rigetto delle domande e in via riconvenzionale l’accertamento dell’intervenuta risoluzione del contratto di appalto intercorso per esclusiva responsabilità dell’attrice, l’accertamento del proprio diritto di escutere la polizza fideiussoria stipulata con la Italiana Incendi s.p.a. rilasciata a suo favore dall’a.t.i., la condanna della Garboli, nelle sue due vesti, al risarcimento di tutti i danni provocati, patrimoniali e non, e la rifusione di tutte le somme già indebitamente corrisposte all’attrice per parcelle dei progettisti già liquidate, revisione prezzi e contrazione delle prestazioni ospedaliere.
L'(OMISSIS) ha altresì chiamato in causa i progettisti e le rispettive società di servizi per sentirli condannare in solido con l’attrice al risarcimento dei danni: si trattava dell’arch. Fe.Al., coordinatore generale del progetto e della progettazione architettonica e della CESE s.r.l., distributrice degli incarichi di progettazione, dell’ing. Fa.Ma., progettista degli impianti meccanici e della Iteco, società di servizi a lui collegata, dell’ing. C.E. e della società Esipro per la progettazione degli impianti elettrici, dell’ing. S.S. per la progettazione delle opere strutturali.
L’arch. Fe., la CESE, l’ing. Fa. e la Iteco hanno chiesto a loro volta gli onorari per la progettazione delle varianti e il saldo per le attività di coordinamento e direzione lavori.
La Reale Mutua, assicuratrice dell’ing. Fa. e di Iteco ha eccepito al primo l’inoperatività della polizza assicurative e alla seconda la mancanza di interesse ad agire, in difetto di domande risarcitorie nei suoi confronti.
1.2. Il giudizio recante il numero di r.g. 30014/2002 è nato come opposizione al decreto ingiuntivo n. 7500/2002, emesso su ricorso dell’ing. Fa. e Iteco avverso l'(OMISSIS) per l’importo di Euro 96.799,66 a titolo di onorari per la “variante archeologica”.
1.3. Il giudizio recante il numero di r.g. 3863/2003 è nato come opposizione ad altro decreto ingiuntivo emesso su ricorso dell’ing. Fa. e Iteco avverso l'(OMISSIS) per l’importo di Euro 111.270,02 a titolo di onorari per la variante dell’agosto 2001.
1.4. Il giudizio recante il numero di r.g. 3865/2003 è nato come opposizione ad altro decreto ingiuntivo emesso su ricorso dell’ing. Fa. avverso l'(OMISSIS) per l’importo di Euro 84.449,32 a titolo di onorari per il nuovo progetto di sicurezza e coordinamento e per il progetto traslochi.
1.5. Il giudizio recante il numero di r.g. 42298/2003 è nato come opposizione ad altro decreto ingiuntivo 13605/2003 emesso su ricorso dell'(OMISSIS) per l’importo di Euro 1.090.795,84 nei confronti di Italiana Incendi per l’escussione della polizza fideiussoria da questa rilasciata.
1.6. Nei cinque giudizi riuniti è stata espletata una consulenza tecnica d’ufficio, affidata all’ing. B.A., ed è stata disposta l’esibizione da parte dell'(OMISSIS) di due documenti.
1.7. Con sentenza del 22.6.2011 il Tribunale di Milano, disattese le conclusioni del Consulente d’ufficio, ha revocato tutti i decreti ingiuntivi opposti, ha rigettato tutte le domande proposte dalle parti, incluse le domande riconvenzionali e subordinate, ha compensato integralmente le spese processuali e tecniche, salvo la condanna dell'(OMISSIS) al pagamento delle spese in favore di Italiana Incendi.
1.8. In estrema sintesi, il Tribunale è pervenuto a questo radicale approdo dopo aver ravvisato la totale inadeguatezza del progetto, qualificata in termini di imperdonabile fallimento progettuale, imputabile all'(OMISSIS) e ai progettisti incaricati e non segnalata, come sarebbe stato doveroso, anche dalla stessa a.t.i. aggiudicataria, e aver ritenuto la natura di veri e propri nuovi progetti delle successive varianti (“archeologica” e “agosto 2001”) e il grave ritardo nel necessario epilogo della risoluzione.
2. La sentenza di primo grado è stata impugnata con separati appelli, poi riuniti, dalla Impresa Pi. & c. s.p.a. (già Garboli s.p.a.), dall’ing. Fa.Ma. con la Iteco, dall’arch. Fe.Al. con la San Fiorenzo s.r.l., società incorporante della CESE.
Si sono costituiti gli appellati (OMISSIS), proponendo appello incidentale verso la Pi., ing. Fa., Iteco, arch. Fe. e S.Fiorenzo; la Reale Mutua Assicurazioni; la Esipro s.r.l. con l’ing. C.E., proponendo appello incidentale nei confronti dell'(OMISSIS); S.S.; F.R., F.M., F.C. e P.F., tutti eredi dell’ing. Fa. nel frattempo deceduto; la Italiana Assicurazioni s.p.a.; la Zurich Insurance Public Limited Company, chiamata dall’arch. Fe. e da CESE s.r.l.
2.1. Acquisiti chiarimenti dal Consulente d’ufficio, la Corte di appello di Milano con sentenza del 5.7.2016, in parziale riforma della sentenza di primo grado:
– ha condannato la Fondazione IRCCS al pagamento della somma di Euro 249.733,27 in favore di Fe.Al. e di Euro 18.602,50 in favore della S.Fiorenzo s.r.l. oltre accessori;
– ha dichiarato il difetto di legittimazione attiva di Iteco s.r.l. e ha condannato la Fondazione IRCCS al pagamento in favore degli eredi F. della somma di Euro 169.908,58, oltre accessori;
– ha condannato gli eredi F., pro quota, a restituire alla Fondazione IRCCS l’importo versato al loro dante causa di Euro 85.538,61, oltre accessori;
– ha condannato la Fondazione IRCCS a restituire alla Pi. la somma di Euro 1.143.501,14, e la somma di Euro 2.134.600,00 oltre accessori;
– ha condannato la (OMISSIS) a rifondere le spese di lite del doppio grado a favore di Fe. e S.Fiorenzo, degli eredi F., di C. e Esipro, della Reale Mutua, della Compagnia Italiana di Previdenza, già Italiana Incendi, di S. e della Zurich;
– ha posto a carico della Fondazione IRCCS le spese di consulenza tecnica;
– ha respinto la domanda di condanna della Fondazione IRCCS ex art. 96 c.p.c.
2.2. A tali conclusioni la Corte milanese è pervenuta disattendendo le doglianze proposte dalla Fondazione IRCCS, tutte eminentemente tecniche, in larga parte ritenute aspecifiche e comunque confutate dalla relazione del Consulente tecnico d’ufficio, ritenuta invece meritevole di adesione, mentre alcune ulteriori contestazioni mosse dalla Fondazione IRCCS sono state reputate inammissibili perché proposte per la prima volta in appello.
Quanto alle doglianze dell’arch. Fe. e della S.Fiorenzo, la Corte di appello ha ritenuto la validità delle delibere di incarico e l’invalidità del rapporto negoziale, in difetto di polizza assicurativa del progettista al momento dell’approvazione del progetto; ha tuttavia accolto la domanda subordinata da loro proposta ex art. 2041 c.c.
Quanto alle pretese dell’ing. Fa. e della Iteco, la Corte territoriale ha escluso la legittimazione attiva di quest’ultima, non giustificata dalla previsione della sua destinazione a fatturare i compensi dovuti all’ing. Fa.; ha ritenuto che all’ing. Fa. non potesse essere conferito l’incarico di direttore dei lavori; ha attribuito all’ing. Fa., e per lui ai suoi eredi, il diritto al compenso maturato per altre prestazioni progettuali.
La Corte ha ritenuto infondata la pretesa della Fondazione IRCCS di ottenere il risarcimento dall’arch. Fe. e dall’ing. Fa. per l’indebito riconoscimento all’appaltatrice di opere per impianti elettrici e meccanici mai eseguiti.
Nei rapporti fra la Garboli e la Fondazione IRCCS, la Corte di appello ha escluso la responsabilità dell’appaltatrice per i vizi progettuali e ha ritenuto corretta la liquidazione delle sue spettanze, così come effettuata dal Consulente tecnico.
3. Avverso la predetta sentenza della Corte di appello di Milano del 5.7.2016, notificata a cura della Zurich Insurance PLC in data 27.7.2016, sono stati proposti due ricorsi per cassazione.
4. Il primo ricorso è stato notificato con atto affidato al servizio postale il 25.10.2016 ad opera della Fondazione IRCCS, volto a ottenere la parziale riforma della sentenza impugnata, sulla base di tre motivi.
4.1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e cioè del D.P.R. n. 554 del 1999, art. 119, della L. n. 2248 del 1865, art. 40artt. 1173 e 2697 c.c., artt. 51,62,63,101,132,192,276,277 c.p.c., art. 111 Cost., L. n. 109 del 1994, art. 25,D.P.R. n. 554 del 1999, art. 134 nonché nullità della sentenza e del procedimento, nonché omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti.
Con il motivo la Fondazione IRCCS critica la sentenza impugnata per la sua recezione, totale e acritica, delle conclusioni peritali, disattese motivatamente dal primo Giudice, e per aver considerato illegittima la risoluzione disposta dalla stazione appaltante che invece era stata ritenuta doverosa dal Tribunale.
4.2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e cioè della L. n. 109 del 1994, artt. 16, 17 e 25 del D.P.R. n. 554 del 1999, artt. 34, 119 e 134, D.M. n. 145 del 2000, art. 19 della L. n. 2248 del 1865, All. F, art. 340, artt. 1227 e 2697 c.c., della L. n. 1089 del 1938, art. 20 artt. 111,192,276,277 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c., art. 111 Cost., nonché omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti.
La ricorrente critica la decisione della Corte di appello, resa in adesione al parere del Consulente di ufficio, di considerare illegittima la scelta della stazione appaltante di risolvere il rapporto e non dar corso alle varianti proposte dai professionisti e caldeggiate dall’appaltatore in contrasto con il potere discrezionale che competeva al proposito committente, essendo invece irrilevante la disponibilità dell’appaltatore allo svolgimento di lavori anche superiori al quinto, necessari nel caso concreto.
4.3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e cioè della L. n. 109 del 1994, art. 25, del D.P.R. n. 554 del 1999, artt. 119 e 134 artt. 1173,1175,1176,1375,1218,1292,1667 c.c., D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 10 e 22 art. 112 c.p.c., nonché omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti.
La ricorrente censura la decisione impugnata per aver escluso la responsabilità dell’appaltatore, fatta dipendere dall’esclusione della responsabilità dei progettisti, mentre l'(OMISSIS) aveva dedotto profili di responsabilità autonoma dell’appaltatore, indipendenti dalla responsabilità attribuita ai progettisti.
Ciò con riferimento alle mancate indagini nel sottosuolo per ottenere il quadro completo dei sottoservizi e i rilievi geognostici e anche con riferimento alla inidoneità del titolo abilitativo, una semplice denuncia di inizio lavori per opere di rilevante complessità.
5. Il secondo ricorso è stato notificato con atto affidato al servizio postale il 26.10.2016 ad opera di due eredi dell’ing. Fa., e cioè P.F. e F.M., ed è volto a ottenere la parziale riforma della sentenza impugnata, sulla base di due motivi.
5.1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, gli eredi F. denunciano violazione o falsa applicazione di legge della L. n. 109 del 1994, art. 17, commi 14 e 27 nel testo allora vigente, e contestano la decisione della Corte territoriale con riferimento all’accoglimento dell’eccezione di illegittimità del conferimento dell’incarico all’ing. F. di direttore dei lavori.
5.2. Con il secondo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 5, i ricorrenti denunciano omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti con riferimento alla mancata considerazione, totalmente mancata, della domanda di risarcimento dei danni patiti dal professionista in conseguenza della illegittima risoluzione dei rapporti disposta con la Delib. 19 settembre 2002, n. 1490.
6. Con atto notificato il 1.12.2016 la Zurich Insurance PLC ha proposto controricorso, chiedendo il rigetto dell’impugnazione proposta dalla Fondazione IRCCS.
Con atto notificato il 6.12.2016 ha proposto controricorso la Compagnia Italiana di Previdenza Assicurazioni e Riassicurazioni, chiedendo darsi atto della mancata impugnazione delle statuizioni che la concernevano.
Con atto notificato il 2.12.2016 hanno proposto controricorso l’arch. Fe. e la San Fiorenzo (già CESE) s.r.l., chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’impugnazione proposta dalla Fondazione IRCCS.
Con atto notificato il 5.12.2016 ha proposto controricorso la Impresa Pi. s.p.a., chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’impugnazione di Fondazione IRCCS e la condanna della ricorrente art. 96 c.p.c.
Con atto notificato il 6.12.2016 gli eredi F. hanno proposto controricorso, chiedendo il rigetto dell’avversaria impugnazione, insistendo sul ricorso da loro proposto in via principale.
Con atto notificato il 28.11.2016 la Fondazione IRCCS ha proposto controricorso, chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’impugnazione proposta dagli eredi F..
Con atto notificato il 6.12.2016 la Impresa Pi. ha proposto controricorso senza prender posizione sull’impugnazione proposta dagli eredi F., che non la riguardava, ma sollecitando la riunione dei due procedimenti di impugnazione della stessa sentenza ex art. 335 c.p.c.
Con atto di costituzione del 26.5.201ioardiello hanno contestato il ricorso degli eredi F..
7. Il Procuratore generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso della Fondazione IRCCS e per il rigetto di quello proposto dagli eredi F..
8. Hanno depositato memoria illustrativa la Fondazione IRCCS, M.M., erede dell’arch. Fe., nel frattempo deceduto, costituitosi in sua vece, e la San Fiorenzo, la Pi., gli eredi F., e la Zurich Insurance.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
9. Il primo motivo di ricorso della Fondazione ICCRS presenta profili di inammissibilità commisti a profili di infondatezza.
9.1. In primo luogo, la ricorrente, pur astenendosi dal qualificare il motivo con riferimento ai mezzi tipici di ricorso per cassazione, deduce promiscuamente violazione e falsa applicazione di norme di diritto (ben sedici articoli di legge), nullità della sentenza o del procedimento e omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, così prospettando congiuntamente nel contesto di un solo motivo i mezzi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5.
9.2. Un ampio indirizzo della giurisprudenza di questa Corte, in tema di motivi promiscui, non ritiene consentito proporre cumulativamente mezzi di impugnazione eterogenei, in contrasto con la tassatività dei motivi di ricorso e riversando impropriamente con tale tecnica espositiva sul giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure (ex plurimis, Sez. 3, 23.6.2017 n. 15651; Sez. 6, 4.12.2014 n. 25722; Sez. 2, 31.1.2013 n. 2299; Sez. 3, 29.5.2012 n. 8551; Sez. 1, 23.9.2011 n. 19443; Sez. 5, 29.2.2008 n. 5471). Appare infatti inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Sez. 1, n. 19443 del 23.9.2011, Rv. 619790 – 01).
9.3. Tuttavia nella giurisprudenza di questa Corte si è anche ritenuto che l’inammissibilità in linea di principio della mescolanza e della sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e 5, può essere superata se la formulazione del motivo permette di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate, di fatto scindibili, onde consentirne l’esame separato, esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Sez. 6, 9.8.2017 n. 19893; Sez. un. 6.5.2015, n. 9100).
In particolare, le Sezioni Unite con la sentenza n. 17931 del 24.7.2013 hanno ritenuto che, ove tale scindibilità sia possibile, debba ritenersi ammissibile la formulazione di unico articolato motivo, nell’ambito del quale le censure siano tenute distinte, alla luce dei principi fondamentali dell’ordinamento processuale, segnatamente a quello, tradizionale e millenario, iura novit curia, ed a quello, di derivazione sovranazionale, della c.d. “effettività” della tutela giurisdizionale, da ritenersi insito nel diritto al “giusto processo” di cui all’art. 111 Cost., elaborato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ed inteso quale esigenza che alla domanda di giustizia dei consociati debba, per quanto possibile e segnatamente nell’attività di interpretazione delle norme processuali, corrispondere una effettiva ed esauriente risposta da parte degli organi statuali preposti all’esercizio della funzione giurisdizionale, senza eccessivi formalismi.
9.4. Nella fattispecie, tale operazione di scissione non può essere compiuta agevolmente nell’ambito delle deduzioni della Fondazione ricorrente, isolando le censure volte a denunciare una violazione di legge sostanziale, formulate – come ha rilevato criticamente il Procuratore generale – con l’enunciazione di un elenco lunghissimo di articoli di legge, non accompagnato dalla specifica deduzione argomentativa delle ragioni della ravvisata violazione di ciascuno di essi da parte della sentenza impugnata, da quelle volte a denunciare una violazione di legge processuale, comportante nullità della sentenza e del procedimento, da quelle, infine, relative a un asserito vizio motivazionale.
9.5. In ogni caso, la prima recriminazione sollevata dalla ricorrente attiene al totale e acritico rinvio alle risultanze della consulenza tecnica addebitato alla Corte di appello, invece disattese dal Giudice di primo grado.
9.6. E’ il caso, preliminarmente di sottolineare la totale inconferenza, nella corretta prospettiva impugnatoria, dei continui riferimenti della ricorrente alla sentenza di primo grado, posto che l’oggetto necessario della sua critica non può essere che la sentenza di appello che l’ha riformata e semmai – e solo indirettamente – la consulenza tecnica a cui la sentenza di secondo grado ha fatto riferimento.
9.7. Merita inoltre un rilievo in fatto che la logica adesiva alla decisione di primo grado in cui si muove la ricorrente potrebbe, tuttalpiù, giustificare l’accertamento della correttezza, sia pur tardiva, della risoluzione del contratto di appalto da parte dell'(OMISSIS), ma non certo l’accoglimento di una domanda risarcitoria verso la Garboli, poi Pi., e l’a.t.i. e i vari professionisti coinvolti in causa e le società ad essi collegate.
Infatti il Tribunale aveva addebitato a una indiscriminata responsabilità collettiva dei vari soggetti coinvolti, inclusa primariamente la stazione appaltante, il fallimento dell’operazione di ristrutturazione e aveva rigettato tutte le domande, compresa evidentemente anche quella risarcitoria proposta dall'(OMISSIS).
9.8. In secondo luogo, nella giurisprudenza di questa Corte si è progressivamente consolidato un orientamento in tema di adesione da parte del giudice del merito alle valutazioni operate dal consulente d’ufficio: si ritiene, cioè, che il giudice del merito non sia tenuto a giustificare diffusamente le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio, ove manchino contrarie argomentazioni delle parti o esse non siano specifiche, potendo, in tal caso, limitarsi a riconoscere quelle conclusioni come giustificate dalle indagini svolte dall’esperto e dalle spiegazioni contenute nella relativa relazione; non è quindi necessario che egli si soffermi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte che, seppur non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili con le conclusioni tratte.
In tal caso, le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive, che non possono configurare il vizio di motivazione previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 (Sez. 1, n. 282 del 9.1.2009, Rv. 606211- 01; Sez. 1, n. 14471 del 25.6.2014, Rv. 63149601; Sez. 6 – 3, n. 1815 del 2.2.2015, Rv. 63418201; Sez. 3, n. 12703 del 19.6.2015, Rv. 63577301; Sez. 1, n. 23594 del 9.10.2017, Rv. 645788 – 01); non può invece esimersi da una più puntuale motivazione, allorquando le critiche mosse alla consulenza siano specifiche e tali, se fondate, da condurre ad una decisione diversa da quella adottata (Sez. 1, n. 26694 del 13.12.2006, Rv. 596094 – 01).
Infatti, quando il giudice del merito aderisce al parere del consulente tecnico d’ufficio, non è tenuto ad esporne in modo specifico le ragioni poiché l’accettazione del parere, delineando il percorso logico della decisione, ne costituisce adeguata motivazione, non suscettibile di censure in sede di legittimità, ben potendo il richiamo, anche per relationem dell’elaborato, implicare una compiuta positiva valutazione del percorso argomentativo e dei principi e metodi scientifici seguiti dal consulente; diversa è l’ipotesi in cui alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio siano state avanzate critiche specifiche e circostanziate, sia dai consulenti di parte che dai difensori: in tal caso il giudice del merito, per non incorrere nel vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5 è tenuto a spiegare in maniera puntuale e dettagliata le ragioni della propria adesione all’una o all’altra conclusione (Sez. II, n. 15147 del 11.6.2018, Rv. 649560 – 01; Sez. 1, n. 23637 del 21.11.2016, Rv. 642660 – 01; Sez. 3, n. 12703 del 19.6.2015, Rv. 635773 – 01).
Occorre ancora precisare che, allorché il giudice di merito ha aderito alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione ha tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, l’obbligo della motivazione è soddisfatto con l’indicazione delle fonti del suo convincimento, senza che il giudice debba necessariamente soffermarsi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte, che, sebbene non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili, senza che possa configurarsi vizio di motivazione, in quanto le critiche di parte, che tendono al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive. (Sez. 6 – 3, n. 1815 del 2.2.2015, Rv. 634182 – 01; Sez. 1, n. 8355 del 3.4.2007, Rv. 595700 – 01; Sez. 3, n. 10688 del 24.4.2008, Rv. 603249 – 01); in tal caso, le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive, che non possono configurare il vizio di motivazione previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 (Sez. 1, n. 282 del 9.1.2009, Rv. 606211 – 01).
Il ricorrente per cassazione è quindi tenuto in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione e al carattere limitato del mezzo di impugnazione, ad indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l’apprezzamento dell’incidenza causale del difetto di motivazione. (Sez. 1, n. 16368 del 17.7.2014, Rv. 632050 – 01; Sez. 3, n. 19989 del 13.7.2021, Rv. 661839 – 01).
9.9. Nella specie, la Corte territoriale, oltre a stigmatizzare i numerosi temi aggiuntivi inammissibilmente proposti dalla Fondazione nel corso del giudizio di secondo grado in violazione dell’art. 345 c.p.c., ha enucleato e riepilogato le sei questioni tecniche tempestivamente proposte (id est: punti da a) a f) di pagg.36-37 della sentenza impugnata); ha aderito alle valutazioni del Consulente d’ufficio espresse sia nella prima relazione, sia in quella aggiuntiva redatta a chiarimenti nel corso del giudizio di secondo grado; ha controllato l’esame e la risposta da parte del Consulente alle obiezioni tecniche sollevate dalla Fondazione IRCCS; ha ripreso e articolato, facendole proprie, le valutazioni del Consulente in tema di errore progettuale per mancata adeguata indagine archeologica preventiva, bontà ed eseguibilità dei progetti, legittimità delle varianti, mancata adeguata indagine preventiva sulla dislocazione delle reti, garanzia di continuità del servizio sanitario non “interrompibile”.
9.10. La ricorrente sostiene che la Corte di appello avrebbe dovuto iniziare la sua analisi dal tema della legittimità dei provvedimenti risolutori, ma tale assunto è destituito di fondamento.
La Corte di appello, seguendo e facendo proprie le valutazioni del Consulente, ha ritenuto che i progetti fossero eseguibili e che le varianti volte a superare i problemi emersi fossero necessarie ed eseguibili, anche considerata la disponibilità in proposito della a.t.i. appaltatrice e che quindi la risoluzione decretata dalla stazione appaltante fosse illegittima, tanto più – si aggiunga – che la responsabilità dell’inadeguatezza del progetto non poteva che ricadere sulla stazione appaltante nei rapporti con l’appaltatore, semmai tenuto anche lui a segnalarla.
9.11. La ricorrente contesta la valutazione di inammissibilità delle questioni introdotte per la prima volta in appello e sostiene di aver semplicemente meglio argomentato alcune delle numerose carenze progettuali denunciate, come ben avrebbe potuto fare nella logica volta difendere i provvedimenti risolutori dalle censure mosse dalle parti private.
La censura e’, per un verso, inammissibile per difetto di autosufficienza e genericità, perché non riferisce né le specifiche censure, né le ragioni per cui esse avrebbero semplicemente meglio sviluppato argomentazioni tempestive preesistenti; per altro verso, infondata, perché la veste di convenuta della parte (OMISSIS)-Fondazione non escludeva affatto che la Corte di appello potesse dissentire dalle sue tesi, come ha fatto sulla scorta del parare peritale.
Rilievo questo che vale – si ripete – esclusivamente per la domanda principale della Garboli e non già per la domanda riconvenzionale risarcitoria dispiegata dall'(OMISSIS).
9.12. La violazione del principio del contraddittorio, sul versante tecnico, lamentata da parte della ricorrente è del tutto inconsistente.
La Corte di appello, per poter aderire alle valutazioni del Consulente di primo grado e superare la difforme opinione del Tribunale, non aveva alcun bisogno di reiterare le indagini peritali e comunque ha sollecitato al Consulente i chiarimenti peritali ritenuti necessari, demandati in secondo grado a fronte delle contestazioni proposte dalla Fondazione.
9.13. Inammissibili appaiono altresì le censure mosse all’imparzialità del consulente tecnico e al rigetto erroneo dell’istanza di ricusazione proposta dalla Fondazione.
9.13.1. La scelta del consulente tecnico è rimessa al potere discrezionale del giudice, salva la facoltà delle parti di far valere mediante istanza di ricusazione ai sensi degli artt. 63 e 51 c.p.c. gli eventuali dubbi circa la obiettività e l’imparzialità del consulente stesso, dubbi che, ove l’istanza di ricusazione non sia stata proposta, non sono più deducibili mediante il ricorso per cassazione (Sez. 6 – L, n. 2103 del 24.1.2019, Rv. 652615 – 02).
9.13.2. L’art. 192 c.p.c., comma 2, nel prevedere che l’istanza di ricusazione del consulente tecnico d’ufficio deve essere presentata con apposito ricorso depositato in cancelleria almeno tre giorni prima dell’udienza di comparizione, preclude definitivamente la possibilità di far valere successivamente la situazione di incompatibilità, con la conseguenza che la consulenza rimane ritualmente acquisita al processo. A tale principio non è consentita deroga per l’ipotesi in cui la parte venga a conoscenza soltanto in seguito della situazione di incompatibilità, poiché, in questo caso, è possibile esclusivamente prospettare le ragioni che giustificano un provvedimento di sostituzione affinché il giudice, se lo ritenga, si avvalga dei poteri conferiti dall’art. 196 c.p.c., spettando, comunque, all’ausiliario il compenso per l’attività svolta (Sez. 2, n. 28103 del 5.11.2018, Rv. 651178 – 01).
La mancanza di imparzialità del consulente tecnico d’ufficio può essere fatta valere esclusivamente mediante lo strumento della ricusazione, nel termine di cui all’art. 192 c.p.c. (Sez. L, n. 12822 del 6.6.2014, Rv. 631185 – 01).
9.13.3. Innanzitutto l’ordinanza che decide sulla ricusazione è definita non impugnabile dall’art. 192 c.p.c., u.c.
9.13.4. Poi, come rilevato dalla Corte di appello, in sede di decisione sulla ricusazione, non era stato affatto disposto un nuovo incarico peritale, ma era stato richiesto al Consulente nominato in primo grado di fornire chiarimenti per affrontare le contestazioni sollevate dalla Fondazione appellante, che non potevano essere sollecitati che dal consulente autore della relazione contestata.
9.13.5. Inoltre la ricorrente aveva ricusato il consulente per gravi ragioni di convenienza, basate sulla sua adesione piena alle tesi delle sue controparti processuali, alla sua carenza di specializzazione nella materia dell’ingegneria per la sanità e a inequivoci segni di sua inaffidabilità in ordine alla indagine espletata, non prospettando così alcuna figura tipizzata di compromissione della imparzialità del consulente, ma mere ragioni di convenienza e opportunità che, tuttalpiù, avrebbero potuto sorreggere una richiesta di sostituzione.
9.14. Del tutto inammissibili, perché generiche e riversate nel merito, appaiono infine le ulteriori argomentazioni della ricorrente volte a criticare la decisione di disporre meri chiarimenti e non la rinnovazione totale della consulenza tecnica o a sottolineare l’inaffidabilità delle valutazioni peritali, in quanto protese a difendere il precedente operato del Consulente, o ancora a recriminare su dubbi argomentazioni, fino a parlare di sviamento delle attività peritali, solo perché fondate su di una interpretazione non condivisa di alcune disposizioni normative, fra l’altro fatta propria dalla Corte di appello.
10. Il secondo motivo proposto dalla Fondazione ricorrente è volto a criticare la decisione della Corte di appello, in adesione al parere del Consulente di ufficio, di considerare illegittima la scelta della stazione appaltante di risolvere il rapporto e non dar corso alle varianti proposte dai professionisti e caldeggiate dall’appaltatore, che aveva garantito la sua disponibilità alla loro esecuzione.
10.1. A tal fine la ricorrente insiste sul potere discrezionale che compete in proposito al committente e sulla irrilevanza della disponibilità manifestata dall’appaltatore allo svolgimento di lavori anche superiori al quinto dell’importo contrattuale, necessari nel caso concreto.
La Fondazione fa leva sul disposto della L. n. 109 del 1994, art. 25 per evidenziare che nel nostro ordinamento il potere di introduzione di varianti rappresenta una mera facoltà e non un obbligo per la stazione appaltante e per sancire l’irrilevanza del fatto che l’appaltatore avesse dato la propria disponibilità anche eseguire i lavori anche oltre il limite del quinto; pertanto – prosegue la Fondazione ricorrente – un profilo di responsabilità poteva essere ravvisato a suo carico solo se fosse stato delineato un suo concorso colposo o una mancata attivazione per limitare i danni ex art. 1227 c.c.
10.2. la L. 11 febbraio 1994, n. 109, art. 25, stabilisce che le varianti in corso d’opera possono essere ammesse, sentiti il progettista ed il direttore dei lavori, esclusivamente qualora ricorra uno dei seguenti motivi:
a) per esigenze derivanti da sopravvenute disposizioni legislative e regolamentari;
b) per cause impreviste e imprevedibili accertate nei modi stabiliti dal regolamento di cui all’art. 3, o per l’intervenuta possibilità di utilizzare materiali, componenti e tecnologie non esistenti al momento della progettazione che possono determinare, senza aumento di costo, significativi miglioramenti nella qualità dell’opera o di sue parti e sempre che non alterino l’impostazione progettuale b-bis) per la presenza di eventi inerenti la natura e specificità dei beni sui quali si interviene verificatisi in corso d’opera, o di rinvenimenti imprevisti o non prevedibili nella fase progettuale (lettera aggiunta dalla L. 18 novembre 1998, n. 415, art. 9, comma 41);
c) nei casi previsti dall’art. 1664 c.c., comma 2;
d) per il manifestarsi di errori o di omissioni del progetto esecutivo che pregiudicano, in tutto o in parte, la realizzazione dell’opera ovvero la sua utilizzazione; in tal caso il responsabile del procedimento ne dà immediatamente comunicazione all’Osservatorio e al progettista.
Il comma 2 cit. articolo prevede che i titolari di incarichi di progettazione sono responsabili per i danni subiti dalle stazioni appaltanti in conseguenza di errori o di omissioni della progettazione di cui al comma 1, lett. d).
L’art. 25, comma 3 ammette inoltre, nell’esclusivo interesse dell’amministrazione, le varianti, in aumento o in diminuzione, nel limite del 5%, finalizzate al miglioramento dell’opera e alla sua funzionalità, sempreché non comportino modifiche sostanziali e siano motivate da obiettive esigenze derivanti da circostanze sopravvenute e imprevedibili al momento della stipula del contratto. L’importo in aumento relativo a tali varianti non può superare il 5 per cento dell’importo originario del contratto e deve trovare copertura nella somma stanziata per l’esecuzione dell’opera.
Il comma 4, in caso di varianti di cui al comma 1, lett. d), eccedenti il quinto dell’importo originario del contratto, autorizza il soggetto aggiudicatore a procedere alla risoluzione del contratto e a indire una nuova gara alla quale è invitato l’aggiudicatario iniziale.
Secondo il comma 5-bis (aggiunto dalla L. 18 novembre 1998, n. 415, art. 9, comma 43) si considerano errore o omissione di progettazione l’inadeguata valutazione dello stato di fatto, la mancata od erronea identificazione della normativa tecnica vincolante per la progettazione, il mancato rispetto dei requisiti funzionali ed economici prestabiliti e risultanti da prova scritta, la violazione delle norme di diligenza nella predisposizione degli elaborati progettuali.
10.3. Il D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, art. 134 in tema di variazioni ed addizioni al progetto approvato, afferma che nessuna variazione o addizione al progetto approvato può essere introdotta dall’appaltatore se non è disposta dal direttore dei lavori e preventivamente approvata dalla stazione appaltante nel rispetto delle condizioni e dei limiti indicati alla L. n. 109 del 1994, art. 25; aggiunge poi che qualora per uno dei casi previsti dalla legge, sia necessario introdurre nel corso dell’esecuzione variazioni o addizioni non previste nel contratto, il direttore dei lavori, sentiti il responsabile del procedimento ed il progettista, promuove la redazione di una perizia suppletiva e di variante, indicandone i motivi nell’apposita relazione da inviare alla stazione appaltante e che l’appaltatore ha l’obbligo di eseguire tutte le variazioni ritenute opportune dalla stazione appaltante e che il direttore lavori gli abbia ordinato purché non mutino sostanzialmente la natura dei lavori compresi nell’appalto.
Secondo il comma 7, l’accertamento delle cause, delle condizioni e dei presupposti che, a norma della L. n. 109 del 1994, art. 25, comma 1, consentono di disporre varianti in corso d’opera è demandato al responsabile del procedimento, che vi provvede con apposita relazione di approfondita istruttoria e di motivato esame dei fatti.
Nel caso di cui alla L. n. 109 del 1994, art. 25, comma 1, lett. b), della il responsabile del procedimento, su proposta del direttore dei lavori, descrive la situazione di fatto, la sua non imputabilità alla stazione appaltante, motiva circa la sua non prevedibilità al momento della redazione del progetto o della consegna dei lavori e precisa le ragioni per cui si renda necessaria la variazione. Qualora i lavori non possano eseguirsi secondo le originarie previsioni di progetto a causa di atti o provvedimenti della Pubblica Amministrazione o di altra autorità, il responsabile del procedimento riferisce alla stazione appaltante. Nel caso previsto dalla L. n. 109 del 1994, art. 25, comma 1, lett. b-bis) la descrizione del responsabile del procedimento ha ad oggetto la verifica delle caratteristiche dell’evento in relazione alla specificità del bene, o della prevedibilità o meno del rinvenimento.
Le perizie di variante, corredate dai pareri e dalle autorizzazioni richiesti, sono approvate dall’organo decisionale della stazione appaltante su parere dell’organo che ha approvato il progetto, qualora comportino la necessità di ulteriore spesa rispetto a quella prevista nel quadro economico del progetto approvato; negli altri casi, le perizie di variante sono approvate dal responsabile del procedimento, sempre che non alterino la sostanza del progetto.
10.4. Il D.M. 19 aprile 2000, n. 145, art. 1 in tema di variazione al progetto appaltato, dopo aver ribadito che nessuna modificazione ai lavori appaltati può essere attuata ad iniziativa esclusiva dell’appaltatore, prevede, per le sole ipotesi previste dall’art. 25, comma 1, della legge, che la stazione appaltante durante l’esecuzione dell’appalto possa ordinare una variazione dei lavori fino alla concorrenza di un quinto dell’importo dell’appalto, e l’appaltatore sia tenuto ad eseguire i variati lavori agli stessi patti, prezzi e condizioni del contratto originario, salva l’eventuale applicazione dell’art. 134, comma 6, e art. 136 del regolamento, e non ha diritto ad alcuna indennità ad eccezione del corrispettivo relativo ai nuovi lavori.
Nel caso in cui la variante supera il predetto limite il responsabile del procedimento deve darne comunicazione all’appaltatore che, nel termine di dieci giorni dal suo ricevimento, deve dichiarare per iscritto se intende accettare la prosecuzione dei lavori e a quali condizioni; nei quarantacinque giorni successivi al ricevimento della dichiarazione la stazione appaltante deve comunicare all’appaltatore le proprie determinazioni. Qualora l’appaltatore non dia alcuna risposta alla comunicazione del responsabile del procedimento si intende manifestata la volontà di accettare la variante agli stessi prezzi, patti e condizioni del contratto originario. Se la stazione appaltante non comunica le proprie determinazioni nel termine fissato, si intendono accettate le condizioni avanzate dall’appaltatore.
Ferma l’impossibilità di introdurre modifiche essenziali alla natura dei lavori oggetto dell’appalto, qualora le variazioni comportino, nelle quantità dei vari gruppi di lavorazioni comprese nell’intervento ritenute omogenee secondo le indicazioni del capitolato speciale, modifiche tali da produrre un notevole pregiudizio economico all’appaltatore è riconosciuto un equo compenso, comunque non superiore al quinto dell’importo dell’appalto. A tali fini si considera notevolmente pregiudizievole la variazione della quantità del singolo gruppo che supera il quinto della corrispondente quantità originaria e solo per la parte che supera tale limite.
10.5. Tutta l’argomentazione della ricorrente è inficiata dalla sua non pertinenza alla ratio decidendi, visto che la Corte di appello ha escluso che sussistessero i vizi di progettazione lamentati dall'(OMISSIS) e quindi che ricorresse l’ipotesi di cui all’art. 25, lett. d più volte ricordato, e ha ritenuto nella sostanza che invece la fattispecie dovesse essere configurata alla stregua dell’insorgenza successiva di fattori imprevisti e imprevedibili.
Ed in effetti l’art. 25 predetto introduce il limite del quinto solo per le varianti addebitabili ad errori progettuali e non per quelle imposte da altre ragioni, impreviste o imprevedibili, o di rinvenimenti imprevisti o non prevedibili nella fase progettuale (comma 1, lett. b) e b-bis)), come accertato dalla Corte di appello nel caso di specie.
10.6. Vi è da aggiungere che la Corte milanese, pur avendo in motivazione (pag. 59, primo capoverso) dichiarato risolto il contratto di appalto per fatto e colpa della parte committente perché esclusiva responsabile dei ritardi, degli errori e degli stalli decisionali dovuti alla errata scelta iniziale di procedere a mezzo d.i.a. e alla mancata approvazione della variante, pur approvata favorevolmente dal responsabile unico di procedimento (pag. 58, ultimo periodo), nel dispositivo ha omesso una formale pronuncia in tal senso, limitandosi ad accogliere – oltre alla condanna alla restituzione dell’importo incassato per effetto dell’indebita escussione della garanzia per Euro 1.143.501,14 – le ulteriori domande consequenziali di condanna proposte dalla Garboli – Pi., fondate su quel presupposto, e ciò per complessivi Euro 2.134,600,00 oltre accessori (di cui Euro 454.500,00 per riserve relative alla prima e all’ultima sospensione lavori, Euro 767.800,00 per saldo lavori già eseguiti ed Euro 912.300 per mancato guadagno relativo alla risoluzione anticipata del contratto).
10.7. Inoltre la Corte di appello ha ritenuto responsabile l'(OMISSIS) a causa dell’assenza della concessione edilizia e dello “stallo” nell’approvazione delle varianti, conseguentemente accogliendo le pretese azionate dall’impresa Garboli/ Pi. con la prima e con la quarta riserva, escluse le due riserve intermedie relativa della “sorpresa archeologica”.
La responsabilità dell'(OMISSIS) è stata quindi ravvisata, non già perché l’Amministrazione avesse in ultima analisi deciso di non approvare le varianti che sarebbero state necessarie e per superare gli imprevisti emersi, senza responsabilità progettuali, ma per aver ritardato indebitamente la relativa decisione.
10.8. La Fondazione IRCCS rivendica il diritto della stazione appaltante di non disporre varianti eccedenti il quinto d’obbligo anche nell’ipotesi in cui il responsabile di procedimento rilasci parere favorevole e l’appaltatore, che pur potrebbe opporre un legittimo rifiuto, vi consenta.
Si è detto che la norma di legge (L. n. 109 del 1994, art. 25, comma 4) contempla la risoluzione in caso di varianti eccedenti il quinto nel caso di errore progettuale (comma 1, lett. d)) e non considera espressamente la prospettiva della risoluzione nell’ipotesi delle varianti necessitate scaturenti da altre ragioni sopravvenute impreviste.
In proposito dispone anche la norma regolamentare del D.P.R. n. 554 del 1999, art. 134 disciplinando l’iter della variante suppletiva, pur sempre senza chiarire se, fino a che punto e in quali termini la scelta di disporla rientri nella discrezionalità della stazione appaltante. Lo stesso vale per il D.M. n. 145 del 2000, art. 10 regolamento recante il capitolato generale d’appalto dei lavori pubblici.
Tutte queste disposizioni sono orientate a regolare i limiti della soggezione dell’appaltatore alle varianti ordinate dalla stazione appaltante e non riguardano l’ipotesi in cui sia il committente a non voler dar corso alle necessarie varianti pur essendo disponibile l’appaltatore.
Se il principio generale, invocato dalla Fondazione ricorrente, è che la scelta se disporre o meno le varianti modificative compete al committente, che non può essere obbligato a far eseguire delle opere significativamente diverse da quelle progettate, è altrettanto chiaro, però, che la sua condotta deve rapportarsi ai principi generali in tema di correttezza, lealtà e buona fede.
10.9. In tal senso è schierata la compatta giurisprudenza di questa Corte che ha affermato che nell’appalto di opere pubbliche, stante la natura privatistica del contratto, è configurabile, in capo all’amministrazione committente, creditrice dell’opus, un dovere discendente dall’espresso riferimento contenuto nell’art. 1206 c.c. e, più in generale, dai principi di correttezza e buona fede oggettiva che permeano la disciplina delle obbligazioni e del contratto – di cooperare all’adempimento dell’appaltatore attraverso il compimento di quelle attività, distinte rispetto al comportamento dovuto da questi e necessarie affinché il medesimo possa realizzare il risultato cui è preordinato il rapporto obbligatorio. (Sez. 1, n. 12698 del 5.6.2014, Rv. (531314 – 01; Sez. 1, n. 25554 del 12.10.2018, Rv. 650907 – 01).
In questo contesto, l’elaborazione di varianti in corso d’opera di norma costituente una mera facoltà della P.A. (esercitabile in presenza delle condizioni previste dalla legge) – può configurarsi come espressione di un doveroso intervento collaborativo del creditore e la perdurante, mancata consegna, da parte della stazione appaltante, benché ritualmente sollecitata, dei progetti di adeguamento dell’opera ben può determinare impossibilità della prestazione per fatto imputabile al creditore, sul quale sono destinate a ricadere le conseguenze dell’omessa cooperazione necessaria all’adempimento da parte del debitore. (Sez. 1, n. 10052 del 29.4.2006, Rv. 588440 – 01).
Per altro verso, in tema di appalto pubblico qualora l’amministrazione appaltante richieda, in variante dell’opera appaltata, lavori diversi da quelli considerati in contratto, per un importo di oltre un quinto a quello stabilito, la richiesta medesima non si correla ad un potere dell’amministrazione cui corrisponda un obbligo dell’appaltatore, e, pertanto, l’accordo fra le parti per l’esecuzione di tale variante (a mezzo di atto di sottomissione dell’appaltatore alla richiesta dell’amministrazione o di atto aggiuntivo) deve parificarsi a quello che abbia ad oggetto lavori extracontrattuali in senso stretto e qualificarsi come nuovo ed autonomo contratto modificativo del precedente (Sez. 1, n. 18438 del 1.8.2013, Rv. 627511 – 01; Sez. 1, n. 30915 del 22.12.2017, Rv. 646491 – 01).
La richiesta di lavori diversi da quelli considerati in contratto, in variante dell’opera appaltata, per un importo di oltre un quinto rispetto a quello globalmente la richiesta medesima non si correla ad un potere dell’Amministrazione cui corrisponda un obbligo dell’appaltatore, il quale, pertanto, a fronte della richiesta della committente, può scegliere se recedere dal contratto oppure proseguire i lavori, dichiarando per iscritto anche, ed eventualmente, a quali le condizioni (Sez. 1, n. 17146 del 17.8.2016, Rv. 640902 01).
10.10. La rivendicazione del diritto della stazione appaltante di non dar corso alle varianti indesiderate, ancorché necessarie a fronte di sopravvenienze impreviste e accettate dall’appaltatore, benché comportanti il superamento del “quinto d’obbligo”, non giova alla Fondazione ricorrente.
La Corte di appello le ha infatti attribuito la responsabilità della risoluzione e delle sospensioni illegittime per due diverse ragioni: e cioè:
a) per aver scelto di procedere con una semplice e insufficiente denuncia di inizio lavori (DIA);
b) per una serie di errori, ritardi e stalli decisionali che hanno condotto alla mancata approvazione della variante favorevolmente proposta dal responsabile del procedimento.
In altre parole, quanto al precedente punto b), la Corte di appello ha ritenuto l'(OMISSIS) responsabile delle conseguenze pregiudizievoli cagionate alla Garboli- Pi. non già per aver deciso di non dar corso alla variante, ma per non averlo fatto tempestivamente e sollecitamente.
L’addebito di cui al punto a), evidentemente, non ha nulla a che vedere con il diritto rivendicato dalla Fondazione IRCCS.
10.11. Restano assorbite, per effetto di queste considerazioni, tutte le ulteriori argomentazioni sviluppate dalla ricorrente per rimproverare al Consulente tecnico – e non già alla sentenza impugnata – di averle attribuito l’onere di dimostrare l’ineseguibilità e l’inidoneità a garantire la non interruzione dei servizi sanitari del progetto e delle varianti.
Il che esime, da un lato, dall’evidenziare la genericità delle contestazioni così proposte, in difetto di trascrizione del brano della relazione peritale criticato e di rappresentazione della sua rilevanza nell’economia della sentenza impugnata, dall’altro, dal sottolineare il carattere di puro merito del dissenso espresso dalla ricorrente circa le valutazioni tecniche e fattuali espresse dal Consulente tecnico, inammissibili in sede di legittimità.
10.12. La Fondazione ricorrente denuncia un ulteriore profilo di omissione ed erroneità, definito “plateale”, costituito dalla sottovalutazione della problematica dell’omesso rilevamento dei sottoservizi e delle tubazioni che avrebbero dovuto rimanere in funzione durante la ristrutturazione, ingiustificatamente ricondotto dalla Corte di appello alla mera problematica archeologica.
La ricorrente aggiunge che l’opinione del Consulente e la generale e non circostanziata adesione da parte della Corte di appello imponeva che i progettisti chiamati a redigere un progetto esecutivo, come definito dalla L. n. 109 del 1994, art. 16, comma 5, di ristrutturazione dei lavori di un pronto soccorso, in regime di continuità dei servizi medici, fossero tenuti a svolgere le indagini all’interno dell’ospedale e non solo all’esterno e a sollecitare all’amministrazione tutti i dati necessari ai fini dell’indagine, tanto più che la stazione appaltante era inadeguata alla complessità delle necessarie attività progettuali L. n. 109 del 1994, ex art. 17, comma 4.
10.13. La censura, per un verso non è autosufficiente e specifica perché dà conto solo genericamente delle ragioni addotte dal Consulente tecnico per escludere un vizio progettuale con riferimento alla mancata rilevazione dei sottoservizi e delle reti delle utilities e dei suoi riflessi sulla non interruzione del servizio sanitario.
Per altro verso, non viene affrontata e confutata la ragione addotta in sentenza per la carente rilevazione, rappresentata dalla impossibilità di accedere al cortile interno del Padiglione Guardia con i necessari macchinari (sentenza impugnata, pag. 44; relazione di c.t.u. come riferita a pag. 37, sub 29, a), del ricorso).
Infine – e il rilievo è dirimente a sancire l’aspecificità della censura proposta dalla ricorrente – dal ricorso emerge chiaramente, sia pur senza una trascrizione completa e adeguata delle ragioni addotte nella relazione peritale, che il Consulente d’ufficio ha ritenuto che l’interruzione dei lavori fosse dipesa esclusivamente dalla sorpresa archeologica e non dal problema delle reti, e che non vi fosse alcuna prova della inadeguatezza dei progetti a garantire la continuità, a lavori in corso, del servizio di pronto soccorso dell’Ospedale.
E’ quindi evidente che le censure della Fondazione tracimano nel merito per esprimere un mero dissenso rispetto alle opinioni del perito e della Corte territoriale e per chiamare indebitamente il giudice di legittimità alla revisione dell’accertamento dei fatti e alla rivalutazione delle prove.
10.14. La Fondazione contesta l’opinione del Consulente e della Corte di appello circa l’esclusione della responsabilità dei progettisti per la mancata previsione dei ritrovamenti archeologici, ma anche in questo caso, con le sue critiche sconfina inammissibilmente nel merito, riconoscendo al contempo che i professionisti avevano agito nel rispetto della disciplina vigente all’epoca dei fatti.
Il punto è ampiamente illustrato nella sentenza impugnata alle pag. 42 e 43, laddove viene osservato che, a fronte di una possibilità solo generica di ritrovamenti archeologici, il progettista aveva fatto tutto quello che si poteva pretendere da lui, ossia (a) munirsi del nullaosta della Soprintendenza, senza che tale Autorità disponesse alcuna raccomandazione metodologica per gli scavi, e (b) avvalersi dell’unico strumento disponibile come una ricerca negli archivi storici circa l’area dell’ospedale con la conseguente redazione di una relazione storica.
10.15. Con l’ultima parte del motivo la Fondazione critica la decisione della Corte di appello di considerare valido il conferimento degli incarichi all’arch. Fe. e alla CESE nonostante il fatto che la Delib. n. 952 del 1995, a cui era annesso il disciplinare di incarico in pari data, riguardasse una attività progettuale diversa da quella in concreto svolta, che traeva origine dal diverso progetto di cui alla Delib. n. 1523 del 1996, a cui non aveva fatto seguito alcun disciplinare di incarico, con la conseguente nullità dell’incarico non conferito in forma scritta.
La ricorrente aggiunge che entrambe le delibere avevano violato le norme sull’evidenza pubblica per l’affidamento degli incarichi di progettazione a trattativa privata in assenza dei presupposti di legge; infine la ricorrente rileva che la sentenza impugnata si era limitata a stigmatizzare la paradossale proposizione della questione da parte sua, pur ammettendo che la seconda delibera comportava una modificazione sostanziale del contratto.
10.15.1. La censura è inammissibile: la Corte di appello non ha conferito alcun rilievo al fatto che l’ente pubblico ambisse a trarre vantaggio in causa dal confessato illecito amministrativo ed anzi ha dichiarato preliminarmente di volerne “prescindere” (pag. 49, terzo capoverso, della sentenza impugnata).
10.15.2. La Corte di appello ha invece preso le mosse dal rilievo che già con la prima Delib. n. 952 del 1995 era stato conferito formalmente l’incarico con il corredo del disciplinare e che la seconda Delib. n. 1523 del 1996 ne costituiva una mera modifica: valutazioni di merito, queste, non sindacabili in sede di legittimità e comunque contestate solo genericamente dalla ricorrente che neppure trascrive il tenore dei due atti a cui fa riferimento.
10.15.3. Inoltre la ricorrente non censura in modo specifico la successiva affermazione della Corte di appello circa l’irrilevanza del superamento nella seconda delibera della soglia per l’affidamento a trattativa privata, non valicato per la prima, come attestato dallo stesso (OMISSIS).
10.15.4. La censura infine appare sine materia, visto che la Corte d’appello, accogliendo una diversa eccezione dell'(OMISSIS), basata sulla violazione della L. n. 109 del 1994, art. 30, comma 5, a pagina 50 ha comunque ritenuto invalido il rapporto negoziale fra l'(OMISSIS) e l’arch. Fe. e la CESE, salvo poi accogliere le loro pretese sulla base della loro domanda subordinata ex art. 2041 c.c.
11. Con il terzo motivo la Fondazione ricorrente censura la decisione impugnata per aver escluso la responsabilità dell’appaltatore, fatta dipendere dall’esclusione della responsabilità dei progettisti, mentre l'(OMISSIS) aveva dedotto profili autonomi di responsabilità dell’appaltatore, indipendenti dalla responsabilità attribuita ai progettisti, con riferimento sia alle mancate indagini nel sottosuolo per ottenere il quadro completo dei sottoservizi e i rilievi geognostici, sia alla inidoneità del titolo abilitativo, una semplice denuncia di inizio lavori per opere di rilevante complessità.
11.1. Quanto al primo profilo, la Corte di appello ha escluso la responsabilità dei progettisti anche per quel che riguardava la mancate indagini nel sottosuolo e i rilievi geognostici, sicché la motivazione addotta a pagina 57 dalla Corte territoriale circa l’estensione della mancanza di responsabilità dei progettisti all’appaltatrice per essere rimasta inerte dinanzi ai vizi del progetto, era pienamente adeguata anche a giustificare l’addebito consequenziale verso la Garboli.
11.2. Quanto alla scelta del titolo abilitativo (una semplice d.i.a. per lavori complessi), giudicato inidoneo dal Comune di Milano, la Corte di appello ha ravvisato la responsabilità in capo al proprietario del bene immobile oggetto di ristrutturazione e cioè alla stazione appaltante e ciò del tutto logicamente e in conformità alla legge.
L’addebito della relativa responsabilità relativa alla impresa appaltatrice è del tutto ingiustificato e proposto apoditticamente dalla ricorrente, senza alcun riferimento ai presupposti di fatto che avrebbero determinato un coinvolgimento dell’appaltatore nelle scelte edilizie dell'(OMISSIS).
11.3. Infine la ricorrente sostiene che il Consulente e la Corte di appello avrebbero errato nel ritenere inconferenti i suoi rilievi perché concernenti aspetti su cui non erano state sollevate riserve o le stesse non erano state accolte, che invece dovevano essere considerate perché concorrenti a giustificare l’emanazione dei provvedimenti risolutori.
Il motivo in parte qua è inconferente rispetto alla ratio decidendi.
La Corte di appello ha ritenuto che fosse l'(OMISSIS) ad essere inadempiente e che pertanto non si dovessero esaminare i provvedimenti di risoluzione da esso emanati.
12. Il primo motivo di ricorso degli eredi F. è diretto a denunciare violazione o falsa applicazione di legge della L. n. 109 del 1994, art. 17, commi 14 e 27, nel testo allora vigente, e si dirige contro la decisione della Corte territoriale di accoglimento dell’eccezione di illegittimità del conferimento dell’incarico all’ing. F. di direttore dei lavori.
12.1. La Corte di appello ha ritenuto che all’ing. Fa. non potesse essere conferito l’incarico di direttore dei lavori ai sensi della L. n. 109 del 1994, art. 17, comma 17, in forza del quale l’incarico di direzione dei lavori doveva essere affidato, con priorità rispetto ad altri professionisti esterni, al progettista incaricato che non era l’ing. Fa. ma la CESE; cosa questa, che faceva venir meno conseguentemente anche l’incarico del coordinamento sicurezza.
12.2. La Corte di appello si è riferita evidentemente alla L. n. 109 del 1994, art. 17, comma 14 (non comprensibilmente citato come “recte comma 17” a pagina 53, capoverso, della sentenza impugnata), nel testo, applicabile ratione temporis, introdotto dal D.L. 3 aprile 1995, n. 101, art. 5-sexies, comma 1, convertito con modificazioni dalla L. 2 giugno 1995, n. 216 e poi profondamente modificato ad opera della L. 11 novembre 1998, n. 415, secondo il quale “Nel caso di affidamento di incarichi di progettazione ai sensi del comma 5, l’attività di direzione dei lavori deve essere affidata, con priorità rispetto ad altri professionisti esterni, al progettista incaricato”.
Secondo la Corte milanese, l’ing. Fa. non poteva essere considerato “progettista incaricato” e la norma citata aveva carattere imperativo, con la conseguente nullità dell’affidamento dell’incarico in sua violazione.
12.3. Obiettano i ricorrenti, in primo luogo, che l’ing. Fa. era progettista alla stregua dell’arch. Fe. e della CESE, perché con la Delib. n. 952 del 1005 la CESE, a cui era stato conferito l’incarico di progettazione delle opere impiantistiche, aveva ricevuto l’autorizzazione di avvalersi di ditte del settore abilitate alla fatturazione diretta e se ne era avvallsa, distribuendo gli incarichi a favore di ITECO e ing. Fa. (progettazione impiantistica) di ESIPRO e ing. C. (progettazione elettrica) e dell’ing. Mi. progettazione strutturale).
In secondo luogo, la deliberazione 1103/1998 dell'(OMISSIS) (all. 1 e ampiamente sintetizzata alle pagine 18-20 del ricorso) contiene l’espresso riconoscimento della qualifica di progettista dell’ing. Fa..
12.4. Le censure sono fondate e vanno accolte.
La norma citata, quand’anche sanzionata con la nullità per il caso di sua violazione (conseguenza pure contestata dai ricorrenti con censura che rimane assorbita) mirava semplicemente a realizzare una economia di incarichi, energie e risorse e quindi a conseguire un risparmio di spese oltre a un vantaggio tecnico di conoscenze, con l’affidamento della direzione dei lavori al professionista che li aveva progettati, senza minimamente considerare se l’incarico di progettazione fosse diretto o derivato.
La Corte di appello, errando nella lettura del testo e della ratio della norma, non ha conferito rilievo al fatto che l’ing. Fa. aveva effettivamente assunto la qualità di progettista, sia pure per il tramite della CESE, che però era autorizzata espressamente dalla stazione appaltante a investirlo dell’incarico de quo.
12.5. Inoltre l’Amministrazione aveva conferito l’incarico all’ing. Fa. con la Delib. 23 luglio 1998, n. 1102, puntualmente trascritta nel ricorso, previa revoca della licitazione privata anteriormente disposta, in applicazione della L. n. 109 del 1994, art. 27 quale progettista e in virtù delle specifiche conoscenze, informazioni ed esperienze maturate a tale titolo, a tal fine considerando quali fattori positivi il risparmio di spesa e il vantaggio strettamente tecnico della conoscenza approfondita dei lavori.
Giova ricordare che l’art. 27 in questione, al suo comma 2, prevedeva che l’attività di direzione dei lavori, per il caso in cui le amministrazioni aggiudicatrici non la potessero espletare direttamente, e dovesse essere affidata nell’ordine ai seguenti soggetti: a) ad altre amministrazioni pubbliche, previa apposita intesa o convenzione di cui alla L. 8 giugno 1990, n. 142, art. 24; b) al progettista incaricato ai sensi dell’art. 17, comma 4; c) altri soggetti scelti con le procedure previste dalla normativa nazionale di recepimento delle disposizioni comunitarie in materia.
12.6. Quindi non solo l’ing. Fa. era progettista, ma l’Amministrazione aggiudicatrice ha anche espressamente riconosciuto tale sua qualità.
12.7. Quanto all’ulteriore incarico attribuito dalla Delib. 20 aprile 1999, n. 619 di coordinamento per la sicurezza, l’accoglimento del ricorso comporta la consequenziale e automatico caducazione della prima ragione addotta dalla Corte di appello per disattendere gli assunti dell’ing. Fa..
Infatti l’incarico de quo, come riconosce la stessa Fondazione nel suo controricorso, era stato conferito sul presupposto della sua nomina a direttore dei lavori alla stregua del D.Lgs. n. 494 del 1996, art. 2, comma 5, a proposito della quale la Corte milanese ut supra è incorsa in errore.
12.8. La Corte di appello (pag. 53, primo capoverso, sub 3)) ha però addotto una seconda ragione ostativa alla validità della Delib. n. 619 del 1999, e cioè l’assenza di un disciplinare di incarico sottoscritto dalle parti.
12.9. Al proposito i ricorrenti ammettono l’inesistenza del disciplinare e invocano, peraltro molto genericamente, il principio di vincolatività delle delibere dell’ente pubblico.
Al proposito, tuttavia la giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che i contratti con la pubblica amministrazione devono essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta e – salva la deroga prevista dal R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 17 – con la sottoscrizione, ad opera dell’organo rappresentativo esterno dell’ente, in quanto munito dei poteri necessari per vincolare l’amministrazione, e della controparte, di un unico documento, in cui siano specificamente indicate le clausole disciplinanti il rapporto.
Tali regole formali sono funzionali all’attuazione del principio costituzionale di buona amministrazione in quanto agevolano l’esercizio dei controlli e rispondono all’esigenza di tutela delle risorse degli enti pubblici contro il pericolo di impegni finanziari assunti senza l’adeguata copertura e senza la valutazione dell’entità delle obbligazioni da adempiere (Sez. 1, n. 6555 del 20.3.2014, Rv. 630054 – 01; in quel caso è stata esclusa la valida conclusione di un contratto d’opera professionale perché l’intendimento del comune conferente l’incarico non era desumibile da un contratto sottoscritto dal sindaco ma da una delibera comunale, deputata ad altra funzione e priva del relativo impegno di spesa, nonché dell’indicazione dei mezzi per far fronte al compenso del professionista, mentre la determinazione del contenuto specifico del rapporto era rinviata ad un momento successivo alla sua avvenuta esecuzione).
Nello stesso senso, ex multis, Sez. 1, n. 5263 del 17.3.2015, Rv. 634726 – 01; Sez. 1, n. 12316 del 15.6.2015, Rv. 635756 – 01; Sez. 2, n. 11465 del 15.6.2020, Rv. 658120 – 01; Sez. 3, n. 7478 del 20.3.2020, Rv. 657426 – 01.
Più specificamente, e proprio con riferimento ai contratti con i professionisti intellettuali è stato ribadito che in tema di contratti della Pubblica Amministrazione, ancorché quest’ultima agisca iure privatorum, il contratto d’opera professionale deve rivestire, R.D. n. 2440 del 1923, ex artt. 16 e 17 la forma scritta ad substantiam e, quindi, deve tradursi, a pena di nullità, nella redazione di un apposito documento, recante la sottoscrizione del professionista e del titolare dell’organo tributario del potere di rappresentare l’ente interessato nei confronti dei terzi, nonché l’indicazione dell’oggetto della prestazione e l’entità del compenso, essendone preclusa, altresì, la conclusione tramite corrispondenza, giacché la pattuizione deve essere versata in un atto contestuale, pur se non sottoscritto contemporaneamente. Il contratto mancante della forma scritta non è suscettibile di sanatoria poiché gli atti negoziali della P.A. constano di manifestazioni formali di volontà, non surrogabili con comportamenti concludenti, né, a tal fine, è sufficiente che il professionista accetti, espressamente o tacitamente, la delibera a contrarre, atteso che questa, benché sottoscritta dall’organo rappresentativo medesimo, resta un atto interno che l’ente può revocare ad nutum (Sez. 2, n. 27910 del 31.10.2018, Rv. 651034 01).
12.10. Rimangono assorbite le ulteriori difese proposte dalla Fondazione in controricorso sub 1.2., pag.17-18, circa: a) l’interpretazione del disciplinare e la pretesa rilevanza ostativa della mancata conclusione delle operazioni di collaudo e b) le modalità di fatturazione dei compensi dell’ing. Fa..
12.11. La sentenza impugnata merita quindi cassazione sul punto, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione.
13. Con il secondo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 5, i ricorrenti denunciano omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti con riferimento alla omessa considerazione, totalmente mancata, della domanda di risarcimento dei danni patiti dal professionista in conseguenza della illegittima risoluzione dei rapporti disposta con la Delib. 19 settembre 2002, n. 1490.
13.1. Il mezzo, etichettato come denuncia di vizio motivazionale, in realtà deduce la violazione della regola di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c. sub specie di omessa pronuncia su di una ritualmente formulata.
13.2. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, l’erronea indicazione della norma processuale violata nella rubrica del motivo non determina ex se l’inammissibilità di questo se la Corte possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura, in quanto la configurazione formale della rubrica del motivo non ha contenuto vincolante, ma è solo l’esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Sez. 5, n. 12690 del 23.5.2018, Rv. 648743 – 01); infatti l’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, né determina l’inammissibilità del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato. (Sez. 6 – 5, n. 26310 del 7.11.2017, Rv. 646419 – 01; Sez. 6 – 3, n. 4036 del 20.2.2014, Rv. 630239 – 01; Sez. 6 – 5, n. 26310 del 7.11.2017, Rv. 646419 01).
13.3. I ricorrenti fanno constare come la sentenza impugnata a pagina 53 (recte: 52) abbia erroneamente ricapitolato le loro domande, dando conto solo della richiesta di conferma dei tre decreti ingiuntivi ottenuti ed opposti, della richiesta di pagamento in via riconvenzionale degli onorari come richiesti o determinati dal C.t.u., della richiesta di declaratoria di illegittimità della risoluzione del contratto disposta con Delib. 19 settembre 2002, n. 1490 e della richiesta di declaratoria di risoluzione del contratto e dell’incarico per inadempimento dell'(OMISSIS).
E’ stata infatti omessa e quindi non esaminata la richiesta risarcitoria consequenziale all’illegittimo comportamento della stazione appaltante di cui al punto 4) della conclusione n. 5 dell’atto di appello, pur riportate nella sentenza impugnata a pagina 15, nel gruppo 5 delle conclusioni dell’ing. Fa. e Iteco, relative al proc. r.g. 29080/2003, sub 4.
13.4. La Fondazione replica sostenendo che tale richiesta risarcitoria costituiva in realtà una duplicazione della domanda di pagamento degli onorari per le attività svolte, scrutinate dalla Corte di appello alla pagina 54 della sentenza impugnata, e accusa la controparte di aver inteso surrettiziamente censurare il merito di tale valutazione.
13.5. Tale obiezione non può essere condivisa.
In primo luogo, la domanda non è stata esaminata, anche solo nei suoi profili di ammissibilità e non duplicazione: la Corte di appello nulla ha detto al proposito.
In secondo luogo, una duplicazione di domande, totale o parziale, eventualmente sussistente, non determinerebbe comunque una inammissibilità ma semmai solo il dovere del giudice di esaminare una volta sola le domande duplicate.
In ogni caso, infine e soprattutto, la controricorrente non dimostra affatto l’identità di domande fra i punti 3 e 4 delle domande rassegnate nel quinto gruppo di conclusioni relative al procedimento r.g. 29080/2003.
Tra l’altro, le somme (il petitum) non coincidono affatto, la causa petendi è evidentemente diversa, stante il fondamento risarcitorio della richiesta di cui al punto 4, ed è stato richiesto a titolo risarcitorio anche un ingente importo a titolo di ristoro per onorari mancati su opere ancora da eseguire.
13.6. Anche il secondo motivo merita quindi accoglimento.
14. In sintesi, il ricorso principale della Fondazione, proposto sulla base di motivi inammissibili o infondati, deve essere complessivamente rigettato.
14.1. Il ricorso principale degli eredi F. deve essere accolto, in entrambi i motivi e, quanto al primo, nei sensi di cui in motivazione.
14.2. Ne consegue il rinvio alla Corte di appello di Milano in diversa composizione anche per la regolazione delle spese relative al rapporto processuale tra gli eredi F. e la Fondazione IRCCS.
14.3. La Fondazione IRCCS dovrà rifondere le spese del grado ai propri diretti contraddittori, ossia (a) alla Impresa Pi., (b) all’arch. Fe.Al. – e per esso al suo erede M.M. e alla San Fiorenzo s.r.l., difesisi congiuntamente, e (c) alla Zurich Insurance PLC, liquidate come in dispositivo.
14.4. Non sussistono i presupposti di una responsabilità ex art. 96 c.p.c. della Fondazione, non ravvisabili nella mera infondatezza o inammissibilità dei motivi di ricorso.
14.5. Le spese meritano invece compensazione per i controricorrenti Compagnia Italiana di Previdenza Assicurazioni e Riassicurazioni s.p.a. e ESIPRO s.r.l. e ing. C.E., neppur costituitisi ritualmente con controricorso, le cui specifiche posizioni non risultano coinvolte dalle impugnazioni proposte.
14.6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente Fondazione IRCCS, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso dalla (OMISSIS);
accoglie il ricorso proposto dagli eredi dell’ing. Fa.Ma., P.F. e F.M., in entrambi i motivi e, quanto al primo nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità fra Fondazione IRCCS e eredi F.;
condanna la ricorrente (OMISSIS) Policlinico al pagamento delle spese in favore dei controricorrenti Impresa Pi. & c. s.p.a., Zurich Insurance PLC, e M.M., erede dell’arch. Fe.Al. e San Fiorenzo s.r.l. – questi ultimi due congiuntamente tra loro -, liquidate per ciascuno nella somma di Euro 18.000,00 per compensi, Euro 200,00 per esposti, 15% rimborso spese generali, oltre accessori di legge;
dichiara compensate le spese nei rapporti tra Compagnia Italiana di Previdenza Assicurazioni e Riassicurazioni s.p.a., ESIPRO s.r.l. e ing. C.E. e le altre parti.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente Fondazione IRCCS, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Prima civile, il 19 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2022