Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5844 del 09/03/2018


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Cassazione civile, sez. I, 09/03/2018, (ud. 16/02/2018, dep.09/03/2018),  n. 5844

Fatto

Con sentenza del 14 febbraio 2014, la Corte d’appello di Roma ha dichiarato la nullità della decisione del Tribunale della stessa città del 4 ottobre 2007 ed, in accoglimento della domanda proposta dall’associazione professionale C. Studio Legale Associato, ha accertato la nullità dei marchi italiani Studio C., G.E.I.E. C. e C. nella titolarità degli avvocati I.F.L. e C.A..

La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che: a) alla controversia trova applicazione l’art. 59, l. marchi, il quale prevede che l’azione di nullità del marchio è proponibile d’ufficio dal p.m. e da chiunque vi abbia interesse, e non la nuova disposizione derivante dal D.Lgs. 8 ottobre 1999, n. 447, che, con innovazione di natura sostanziale, ha ristretto la legittimazione attiva all’azione di nullità per difetto di novità ai soli “titolari dei diritti anteriori”: ciò perchè i marchi per cui è causa sono stati registrati il 26 gennaio 1998 e la domanda proposta il 18 dicembre 2002, non applicandosi la riforma ai marchi già registrati al momento della sua entrata in vigore; b) ne deriva che la sentenza di primo grado è nulla, in quanto assunta dal giudice monocratico invece che collegiale, ai sensi dell’art. 50 bis c.p.c., n. 1, posto che era parte necessaria del processo il p.m., ai sensi dell’art. 70 c.p.c.; c) ne deriva, altresì, che l’istante è legittimata attiva alla domanda, alla quale ha interesse, posto che l’associazione professionale, in base a statuizione passata in giudicato, ha diritto – al pari, del resto, dell’avv. C.A. – di usare il detto nome nei limiti della L. 23 novembre 1939, n. 1815, art. 1, purchè cioè alle parole “studio legale” seguano i nomi, cognomi e titoli professionali degli associati; d) i predetti marchi sono nulli, in quanto violano l’art. 17, comma 1, lett. b) e c), l. marchi, per carenza del requisito di novità, atteso il preuso del noto segno distintivo, la certa confondibilità dei segni, di cui il nome del giurista costituisce il cuore, ed il medesimo ambito di attività della classe prescelta.

Avverso questa sentenza propongono ricorso i soccombenti, affidato a cinque motivi. Resiste con controricorso l’associazione professionale. Le parti hanno depositato le memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi proposti dal ricorso possono essere come di seguito riassunti:

1) nullità della sentenza per omessa pronuncia, ai sensi dell’art. 112 c.p.c., circa l’applicabilità alla controversia della norma transitoria dettata al D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, art. 233,Codice della proprietà industriale, secondo cui i marchi registrati prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, sono soggetti, quanto alle cause di nullità, alle leggi anteriori, onde a quelli registrati dopo si applica il nuovo art. 122 cod. proprietà industriale, laddove prevede la legittimazione attiva limitata ai titolari dei diritti anteriori;

2) omesso esame di fatto decisivo, costituito dalla circostanza dell’entrata in vigore del codice della proprietà industriale;

3) violazione dell’art. 122, comma 2, e art. 233, comma 1, cod. proprietà industriale, avendo quest’ultima norma distinto due categorie di marchi, a seconda se registrati ante e post 1992, quale norma regolatrice delle azioni di nullità nel corso del tempo, onde al caso deve applicarsi l’art. 122 cit.;

4) violazione e falsa applicazione dell’art. 11 preleggi, art. 59, l. marchi e dei principi generali in materia di nullità, posto che, ove un giudizio sia stato promosso dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 447 del 1999, questo ormai regola la legittimazione attiva all’azione, dal momento che la nullità del marchio ha un effetto permanente che dura nel tempo e la registrazione è forma di pubblicità continuativa, che dunque ricade nella disciplina del predetto decreto legislativo;

5) violazione dell’art. 12 preleggi, art. 2909 c.c., artt. 100 e 324 c.p.c., art. 59 l. marchi, perchè, ove pure sia applicabile quest’ultima norma, la controparte difetta di interesse ad agire per la nullità dei marchi, posto che tale interesse sussisterebbe solo se l’associazione professionale avesse diritto di utilizzare quel nome, il che non è: infatti, la sentenza di primo grado ha affermato, con accertamento passato in giudicato tra le parti, che l’associazione professionale non può utilizzare la denominazione C. Studio Legale senza limiti, dovendo invece far seguire all’espressione “studio legale”, secondo la L. n. 1815 del 1939, art. 1, i nomi, cognomi e titoli professionali degli associati; e, dal momento che l’unico soggetto avente detto cognome, l’avv. C.A., è receduto nel 2005, l’associazione non ha diritto di inserire quel cognome nella sua denominazione, onde è priva di interesse ad agire con l’azione di nullità del marchio. Al contrario, la sentenza di appello ha equivocato sul contenuto della decisione di primo grado, la quale ha accertato, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., che l’interesse a proporre la domanda di nullità sussiste solo in quanto l’associazione possa legittimamente utilizzare il marchio stesso nei predetti limiti.

2. – Il primo motivo è infondato.

Non sussiste il vizio di omessa pronuncia, il quale afferisce ad una domanda o eccezione pretermessa, non all’omesso richiamo di una disposizione normativa, che, come nella specie, il giudice abbia all’evidenza ritenuto inapplicabile.

Onde il mero mancato richiamo, nella motivazione di una sentenza, di una norma di legge pur invocata dalla parte non integra il vizio di omessa pronuncia, di cui all’art. 112 c.p.c..

3. – Del pari infondato il secondo motivo, per analoghe ragioni: il giudice d’appello ha ricostruito il sistema normativo menzionando, nello svolgimento del processo, anche il richiamato art. 233 cod. proprietà industriale, ma poi ha deciso sulla base delle disposizioni dalla corte territoriale ritenute rilevanti ed applicabili.

L’omessa menzione, tra gli argomenti esposti nella motivazione di un provvedimento giudiziale, di una norma o della sua entrata in vigore, non costituiscono omesso esame di fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nozione da riservare ai casi in cui sia omesso l’esame di un fatto storico, da intendersi principale o secondario, non potendo la nozione ricomprendere la valutazione di deduzioni difensive (Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053).

4. – Il terzo e quarto motivo, da trattare congiuntamente in quanto intimamente connessi, sono infondati.

4.1. – L’art. 233 cod. proprietà industriale non è norma rilevante per la soluzione della controversia.

Tale disposizione, invero, riguarda il regime delle “cause di nullità”: vale a dire, secondo il linguaggio comune del legislatore, le situazioni idonee a cagionare il vizio (art. 1418 c.c.). Trattandosi di marchi, le cause di nullità sono, nel vigore del cod. proprietà industriale, quelle enumerate all’art. 25, secondo cui “il marchio è nullo” se manca uno dei requisiti o sussistono le violazioni ivi previste.

Non si ha riguardo, dunque, al regime della legittimazione attiva a far valere il vizio, ma alle fattispecie sostanziali dello stesso.

Analoga interpretazione si opera con riguardo ad enunciati simili, quali il D.Lgs. n. 480 del 1992, art. 89, (“I marchi d’impresa concessi prima della data di entrata in vigore del presente decreto sono soggetti, in quanto alle cause di nullità, alle norme di legge anteriori”) e il D.P.R. n. 338 del 1979, art. 83, (“I brevetti per invenzioni e modelli industriali già concessi al momento dell’entrata in vigore di questo decreto sono soggetti, quanto alle cause di nullità, alle norme di legge anteriore, quanto agli effetti della declaratoria di nullità, alla norma di cui al R.D. 29 giugno 1939, n. 1127, art. 59 bis”).

In sostanza: per ottenere la dichiarazione di nullità della registrazione di un marchio o di un brevetto occorre dedurre e provare un vizio, fra quelli previsti dal legislatore al momento in cui il segno distintivo fu registrato.

E l’art. 233 cod. proprietà industriale, nel disporre che “(i) marchi di impresa registrati prima della data di entrata in vigore del D.Lgs. 4 dicembre 1992, n. 480, sono soggetti, in quanto alle cause di nullità, alle norme di legge anteriori”, intende appunto questo: che, per far valere la nullità di un marchio, registrato prima del 1992, occorre dedurre e provare la mancanza di uno dei requisiti o il mancato rispetto delle regole in vigore all’epoca della registrazione; avendo poi considerato come spartiacque proprio quell’anno, posto che ad esso risale il decreto italiano di attuazione della direttiva n. 89/104/CEE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa.

Dunque, la norma non riguarda la legittimazione attiva all’azione.

4.2. – La registrazione di un marchio è assistita da presunzione di legittimità: l’integrazione della fattispecie della registrazione del marchio produce “un effetto sostanziale, corrispondente all’acquisto del diritto di esclusiva utilizzazione con una protezione ampia ed intensa del marchio brevettato, ed un effetto processuale concesso con la presunzione (semplice) di validità del brevetto e di esistenza dei presupposti e requisiti di valida brevettazione”: pertanto, “la presunzione sopra menzionata opera a favore del titolare della fattispecie brevettuale, mentre i terzi interessati a dedurre l’invalidità della fattispecie stessa sono tenuti alla prova contraria, contestando l’esistenza dei presupposti e dei requisiti di una valida brevettazione” (Cass. 28 giugno 1980, n. 4090).

Questa Corte ha affermato che la disciplina dettata dall’art. 59 l. marchi, nel testo modificato dal D.Lgs. n. 447 del 1999, limitando, in talune ipotesi, i legittimati a richiedere la nullità del marchio, ha carattere sostanziale e non processuale, essendo quella in esame “norma non attinente al rito ma che ridisegna viceversa la fattispecie, del segno invalidamente appropriato in difetto del requisito di novità, nei suoi riflessi sul piano effettuale” (Cass. 10 ottobre 2008, n. 24909; Cass. 18 aprile 2003, n. 6304), onde il regime di “nullità assoluta, collegata al brevetto carente del requisito di novità dall’art. 59 (vecchio testo) L. M., vigente al momento del correlativo deposito, lo rende necessariamente insensibile alla successiva diversa opzione espressa dal legislatore (con la degradazione del vizio di nullità assoluta a nullità relativa), non assistita, come detto, da retroattività” (Cass. 18 aprile 2003, n. 6304).

Vero è che il regime di “nullità assoluta” o di “nullità relativa” intende specificamente riferirsi alla legittimazione attiva a farle valere, nell’un caso diffusa e in capo al p.m., nel secondo limitata al titolare del diritto anteriore, onde la distinzione attiene alla cerchia dei soggetti legittimati ad esperire l’azione.

Ma, se la registrazione del marchio costituisce in capo al titolare un coacervo di diritti in esso riassunti, allorchè la registrazione sia avvenuta nel vigore di un dato regime, che fissava sia le condizioni per la valida registrazione, sia i presupposti per farne valere l’invalidità, il medesimo unitario regime permane qualora, in seguito, muti vuoi l’insieme delle cause di nullità, vuoi l’attribuzione del diritto di azionarla.

Lo stesso principio è già stato affermato da questa Corte, nelle pronunce richiamate, con riguardo ai marchi registrati ed ai giudizi iniziati prima della restrizione della legittimazione attiva: reputando in tal caso applicabile ancora la vecchia normativa in tema di legittimazione attiva all’istanza di nullità, che consentiva a chiunque vi avesse interesse, e non soltanto ai titolari di diritti anteriori, di agire per chiedere la nullità per difetto di novità del segno distintivo, sebbene in quei casi i marchi fossero stati registrati anteriormente al 1993.

Il principio va ora esteso al caso di specie, in cui il marchio è stato registrato, dopo il 1992, ma prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 447 del 1999, sebbene l’azione di nullità sia successiva.

In tale situazione, continua a trovare applicazione l’art. 59 l. marchi nel testo originario, in base al principio di diritto, che va ora ribadito:

“I marchi di impresa, registrati prima della data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 447 del 1999, sono ancora soggetti alla legittimazione attiva di chiunque vi abbia interesse, e non dei soli titolari di diritti anteriori, come invece disposto dalla nuova normativa introdotta dall’art. 233 cod. proprietà industriale, in ragione della natura sostanziale dell’innovazione e del risolversi l’azione di nullità nell’accertamento, da parte di coloro che al momento della registrazione avevano la titolarità dell’azione stessa, del fatto che la registrazione sia avvenuta senza che ne sussistessero le condizioni di legge”.

5. – Il quinto motivo è infondato.

5.1. – Ogni riferimento al dictum della sentenza di primo grado, contenuto nel motivo, non coglie nel segno, posto che quella sentenza è stata dichiarata nulla per la ragione processuale dell’avvenuta pronuncia da parte del giudice monocratico, invece che collegiale, ai sensi dell’art. 50 bis c.p.c., questione su cui è sceso il giudicato interno.

Peraltro, il motivo contiene una censura alla sentenza d’appello, che può ritenersi autonoma, afferente la ritenuta sussistenza dell’interesse ad agire per l’azione di nullità in capo all’associazione professionale odierna controricorrente: ed è questa censura che deve essere esaminata.

5.2. – E’ infondata l’eccezione, sollevata dall’associazione professionale controricorrente, di tardività della questione relativa all’interesse ad agire della stessa nel presente giudizio.

Non è contestato che la questione fu posta per la prima volta nella memoria di replica ex art. 190 c.p.c., depositata nel giudizio di primo grado (peraltro conclusosi con sentenza dichiarata nulla), sulla base della stessa cronologia degli eventi: la causa è stata promossa con atto di citazione notificato il 18 dicembre 2002, il recesso dell’avv. C.A. è del 2005, quindi seguì il deposito della memoria di replica ed, infine, la sentenza di primo grado è stata pubblicata il 4 ottobre 2007: dunque, il recesso è stato attuato in corso di causa ed il tema dell’influenza dello stesso sull’interesse (rectius legittimazione) ad agire fu sollevato solo a quel punto.

In ogni modo, costituisce principio costantemente affermato che la carenza dell’interesse ad agire – il quale, come sopra esposto, è il presupposto della stessa legittimazione ad intraprendere l’azione di nullità del marchio – è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, anche in mancanza di contrasto tra le parti sul punto, poichè costituisce un requisito per la trattazione nel merito della domanda (Cass. 29 settembre 2016, n. 19268; Cass. 31 marzo 2006, n. 7635; Cass. 17 settembre 2002, n. 13571; Cass. 7 marzo 2002, n. 3330).

5.3. – L’azione di nullità è esperibile da “chiunque vi ha interesse”, secondo il generale disposto dell’art. 1421 c.c., cui si riconduce l’art. 59 l. marchi, applicabile ratione temporis.

L’espressione utilizzata per attribuire la legittimazione attiva nelle azioni di nullità trasla, così, al requisito dell’interesse ad agire: se, infatti, quest’ultimo consiste nella possibilità che il giudizio arrechi un concreto vantaggio all’attore, il quale mediante il processo intende perseguire un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice, del pari il fondamento della legittimazione attiva all’azione di nullità è integrato dalla possibilità, per l’istante, di conseguire un concreto vantaggio mediante l’esperimento fruttuoso dell’azione.

In sostanza, nell’azione di nullità i due requisiti finiscono per coincidere, posto che la sussistenza dell’interesse ad agire si riflette sulla stessa legittimazione a proporre la domanda giudiziale.

Proprio per tale motivo, questa Corte da sempre afferma che “la legittimazione generale all’azione di nullità prevista dall’art. 1421 c.c., in virtù della quale la nullità del negozio può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse, non esime l’attore dal dimostrare la sussistenza di un proprio concreto interesse ad agire, per cui l’azione stessa non è proponibile in mancanza della prova, da parte dell’attore, della necessità di ricorrere al giudice per evitare una lesione attuale del proprio diritto e il conseguente danno alla propria sfera giuridica” (e multis, Cass. 19 gennaio 2017, n. 1296; Cass. 4 febbraio 2014, n. 2447; Cass. 2 agosto 2013, n. 18549; Cass. 12 luglio 2007, n. 15603; Cass. 15 aprile 2002, n. 5420; Cass. 7 gennaio 2002, n. 88; Cass., 11 gennaio 2001, n. 338).

E l’interesse ad agire, inteso quale esigenza di provocare l’intervento dell’organo giurisdizionale per conseguire la tutela di un diritto o di una situazione giuridica, va valutato mediante la verifica, da compiersi d’ufficio dal giudice alla stregua della prospettazione operata, della idoneità della pronuncia richiesta a spiegare un effetto utile alla parte che ha proposto la domanda, prescindendo da ogni indagine sul merito della controversia e dal suo prevedibile esito (fra le altre, Cass. 13 giugno 2014, n. 13485; Cass. 9 maggio 2008, n. 11554; Cass. 4 marzo 2002, n. 3060).

In particolare, nelle azioni di accertamento, qual è l’azione di nullità, l’interesse ad agire è tradizionalmente ricondotto alla necessità di rimuovere uno stato di incertezza oggettiva, la cui eliminazione rappresenta un risultato utile, giuridicamente rilevante e non conseguibile se non con l’intervento del giudice.

Occorre, altresì, osservare che tra la situazione alla base della legittimazione all’azione di nullità esercitata da chiunque vi abbia interesse (c.d. assoluta), e quella riservata al titolare del diritto confliggente (c.d. relativa) deve necessariamente permanere una differenza: onde, se l’interesse ad agire per quest’ultima richiede la prova rigorosa del relativo diritto anteriore, la valutazione dell’interesse all’azione di nullità esperibile da chiunque quel nome usi è ancorata a parametri più generici, in connessione all’interesse generale costituente la ratio dell’ampia legittimazione.

In materia di azione volta alla declaratoria di nullità dell’altrui marchio, pertanto, la legittimazione attiva ben può essere fondata sul pluriennale utilizzo dello stesso segno nella propria denominazione, che nella specie è stato accertato dalla sentenza impugnata ed è incontestato.

Se, infatti, per il principio di unitarietà dei segni distintivi (art. 22 cod. proprietà industriale, già art. 13 l. marchi), è vietato adottare come ditta, denominazione o ragione sociale un segno uguale o simile all’altrui marchio, allora il soggetto che, avendo quella denominazione, si prospetti danneggiato dalla registrazione del marchio confondibile è legittimato, di converso, ad agire per la sua nullità.

Solo in questi limiti, dunque, nell’ambito dell’accertamento della contestata legittimazione ad agire, la questione se esista o no il diritto dell’associazione professionale di continuare ad usare il nome entra nel processo: non essendo invece thema decidendum – perchè, nell’ambito del dibattito processuale svoltosi nell’ampia fase di merito, non vi è stata domanda o eccezione riconvenzionale al riguardo – se quell’uso sia attualmente legittimo, nei termini in cui è realizzato in concreto, secondo la disciplina della materia.

5.4. – Resta da osservare come altri argomenti introdotti in causa restino irrilevanti, perchè assorbite le relative questioni.

In primo luogo, resta irrilevante se sussista giudicato derivante dal giudizio definito dalla precedente sentenza di questa Corte (Cass. 23 gennaio 2007, n. 1476), come ritenuto dalla corte territoriale, sui limiti ex art. 1, dell’abrogata L. n. 1815 del 1939, entro i quali sussisterebbe, secondo gli esiti di quel processo, il diritto dell’associazione professionale ad usare il noto nome.

In detta vicenda, il giudice territoriale, con pronuncia divenuta definitiva a seguito del rigetto del ricorso di legittimità, respinse “la domanda volta a far accertare che l’associazione ” B., R., C., A. e Associati” e l’avv. C.A. hanno il diritto di adoperare il nome C. “nel modo più ampio e senza alcuna limitazione”, incidentalmente accertando il loro diritto ad utilizzare quel nome solo entro i limiti segnati dalla L. n. 1815 del 1939, art. 1, e cioè facendo seguire alla dizione “studio legale” i nomi, cognomi e titoli professionali dei singoli associati” (sono parole della citata Cass. 23 gennaio 2007, n. 1476).

La sentenza della Corte d’appello di Milano del 30 maggio 2003, più precisamente, rigettò l’ampia domanda volta all’accertamento della legittimità, sempre e comunque, dell’uso del cognome da parte dell’associazione, ed accertò come il diritto spettasse all’associazione (si badi, in un momento in cui vi era associato, almeno sulla carta, un avvocato con tale cognome) solo in dati limiti: “Dalle considerazioni svolte consegue che nell’indicazione del nome dell’Associazione professionale non può essere consentito l’uso del nome personale (i.e., F.) di un avvocato non più iscritto all’albo, anche quando vi partecipi altro professionista che porti lo stesso cognome sia pure per parentela, così come non può essere consentito l’uso del solo cognome dell’avvocato non più iscritto all’albo (i.e., C.), quando nell’Associazione non partecipi alcun professionista che conservi il nome stesso” (così, in motivazione).

Ma i ricorrenti non hanno dedotto questo giudicato, riferendosi invece unicamente a quello che sarebbe derivato dalla decisione di primo grado emessa dal Tribunale di Roma in data 4 ottobre 2007, n. 19155, tuttavia dichiarata nulla dalla corte d’appello per difetto di composizione del giudice, con statuizione non impugnata in questa sede e divenuta definitiva.

In secondo luogo, restano del pari irrilevanti le circostanze, dedotte dalla controricorrente, circa l’esistenza di un nuovo consenso ad opera di C.M., figlia del predetto, e la mancanza sul punto di contestazioni in appello ad opera della controparte, dopo la deduzione dell’appellante nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado; nonchè, più in generale, le previsioni del codice deontologico forense.

Nè rilevano, in terzo luogo, l’abrogazione della L. n. 1815 del 1939 (in forza della L. 12 novembre 2011, n. 183) e le nuove previsioni relative alle associazioni ed alle società tra avvocati (D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 96; L. 31 dicembre 2012, n. 247; L. 4 agosto 2017, n. 124; art. 1, comma 443, L. 27 dicembre 2017, n. 205), al fine di valutare con forza di giudicato se l’associazione oggi in causa abbia diritto pieno, o no, di utilizzare il nome.

5.5. – In conclusione, la legittimazione attiva sussiste, atteso l’accertamento – operato dal giudice del merito – circa l’uso della denominazione da parte dell’associazione attrice in nullità, di per sè idoneo a fondare detto requisito.

In tali termini, pertanto, deve essere corretta la motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, fermo il dispositivo, in quanto conforme al diritto.

6. – La complessità delle questioni induce alla compensazione integrale delle spese di lite.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa per intero le spese di lite tra le parti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento a carico della parte ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 16 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2018

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