Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5842 del 10/03/2010

Cassazione civile sez. I, 10/03/2010, (ud. 10/12/2009, dep. 10/03/2010), n.5842

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 8701/2008 proposto da:

P.G. (c.f. (OMISSIS)), + ALTRI OMESSI

elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA DEL RISORGIMENTO 36, presso

l’avvocato CAPITELLA Antonio, che li rappresenta e difende, giusta

procure in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

REPUBBLICA ITALIANA, in persona del Presidente pro tempore,

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA “(OMISSIS)”, UNIVERSITA’ DEGLI

STUDI DI ROMA “(OMISSIS)”, UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI (OMISSIS),

in persona dei rispettivi Rettori pro tempore, domiciliati in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

li rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 666/2007 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/02/2007;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

10/12/2009 dal Consigliere Dott. ALDO CECCHERINI;

udito, per i ricorrenti, l’Avvocato ANTONIO CAPITELLA che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento dei motivi terzo e

quinto del ricorso con l’assorbimento e/o il rigetto dei restanti.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato il 3 aprile 2000, gli odierni ricorrenti, tutti laureati in medicina e successivamente ammessi ai corsi di specializzazione, citarono la Presidenza del Consiglio dei Ministri, e l’università pressa la quale ciascuno di loro aveva frequentato il corso di. specializzazione (Università degli studi di Roma (OMISSIS), Università degli studi di Roma (OMISSIS), Università degli studi de (OMISSIS)), chiedendone la condanna al risarcimento dei danni loro cagionati dalla tardiva ed incompleta attuazione delle direttive CEE 362/75, 363/75, 82/76, e art. 44 della direttiva 16/93, in materia di formazione dei medici specializzandi e dei relativi corsi di specializzazione. Il pregiudizio allegato dagli attori era consistito nel conseguimento di un diploma escluso dal regime del reciproco ed automatico riconoscimento in ambito comunitario, nella diversa valutazione del diploma sul piano interno ai fini dei concorsi per l’accesso ai profili professionali, nonchè nella mancata percezione della remunerazione prevista dalle norme comunitarie tardivamente attuate. Gli enti convenuti resistettero alle domande. Con sentenza 26 marzo 2002, il tribunale dichiarò la prescrizione del diritto degli attori ex art. 2947 c.p.c., comma 1.

La Corte d’appello di Roma, con sentenza in data 12 febbraio 2007, respinse l’appello proposto dagli attori. La corte considerò: – che il primo motivo, formulato con richiamo ad atti difensivi anteriori alla sentenza impugnata, era inammissibile; – che le due direttive comunitarie invocate non avevano carattere immediatamente vincolante, ma obbligavano lo Stato ad adeguare: la legislazione interna e comportavano la responsabilità dello Stato medesimo, e solo di esso, per la mancata attuazione; – che il rapporto intercorso tra gli appellanti e le relative università era qualificabile come rapporto di istruzione o rapporto formativo e non come rapporto contrattuale;

– che la documentazione relativa all’interruzione della prescrizione non poteva essere prodotta, come avevano fatto gli appellanti, nel giudizio di appello; – che su tali premesse la domanda proposta contro le università era infondata, mentre era prescritto per decorrenza del termine quinquennale il diritto al risarcimento dei danni nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri.

Per la cassazione di questa sentenza ricorrono i soccombenti con atto articolato in cinque mezzi d’impugnazione, illustrati anche con memoria. Resistono gli enti intimati, assistiti dall’Avvocatura generale dello Stato.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo mezzo del ricorso principale si denuncia la violazione dell’art. 342 c.p.c., avendo la corte territoriale dichiarato non specifico ed inammissibile il motivo di appello con il quale si censurava l’omessa pronuncia del tribunale sulla domanda di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia su una serie di quesiti, in ragione del fatto che l’appello richiamava scritti del primo grado in cui la richiesta era stata formulata e illustrata. Si pone il quesito se nel caso di omessa pronuncia su un’istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia CE della quale sia stato investito il giudice di merito, il principio di specificità dei motivi di appello sia soddisfatto dagli appellanti che abbiano richiamato l’istanza e le ragioni poste a suo fondamento con il rinvio espresso all’atto difensivo svolto in primo grado ed abbiano incentrato il motivo di gravame sull’obbligo del giudice di primo grado di esaminare l’istanza e pronunciare in ordine alla rilevanza al fine di rimettere gli atti alla corte di giustizia.

Il mezzo è inammissibile. Il mezzo è formulato come violazione di norma in procedendo, da parte della corte territoriale, che ha rifiutato di esaminare un motivo di appello ritenendolo inammissibile. La questione che era oggetto del motivo di appello, vale a dire l’omesso esame della richiesta di rinvio alla Corte di giustizia CE su una questione pregiudiziale di interpretazione del diritto comunitario, in applicazione dell’art. 177 ora 234 del trattato CEE, non è configurabile, tuttavia, come autonoma domanda, rispetto alla quale possa farsi questione di rispetto del principio enunciato in via generale nell’art. 112 c.p.c., ma costituisce un punto di diritto preliminare alla decisione sulla domanda di merito proposta dalla parte. La necessità che sulla questione si pronunci la Corte di Giustizia può essere prospettata anche per la prima volta nel grado di appello (donde l’irrilevanza dell’art. 342 c.p.c, in punto di specificità dei motivi, invocato dalla parte), come del resto in quello di cassazione, nel quale soltanto, stante la natura di giudice di ultimo grado, la facoltà del rinvio si trasforma, ricorrendone le condizioni di rilevanza e decisività, in un obbligo.

L’omessa pronuncia del tribunale, implicante l’inesistenza di dubbi interpretativi o la decisione di risolverli senza rinvio alla Corte di giustizia, non poteva avere conseguenze diverse dalla necessità della parte di riproporre la questione davanti al giudice del gravame; e la sentenza pronunciata in appello, a sua volta, è eventualmente censurabile non già per aver giudicato inammissibile la doglianza sull’omesso esame della questione da parte del primo giudice, e neppure per avere omesso essa stessa tale rinvio, ma solo per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, qualora si assuma che la corretta interpretazione della norma comunitaria avrebbe comportato la disapplicazione della norma interna, ponendo così i presupposti per l’eventuale rinvio alla Corte di Giustizia CE da parte di questa corte.

Con il secondo motivo si censura la statuizione della corte d’appello di difetto di legittimazione passiva delle università appellate, con violazione della L. 22 maggio 1978, n. 217, art. 14, che conferiva loro una potestà normativa per l’attuazione delle direttive comunitarie 16 giugno 1975 nn. 362 e 363. Si chiede quindi se la L. n. 217 del 1973, art. 14, della L. n. 162 del 1982, artt. 11 e 15 e la L. n. 398 del 1989, che individuavano nelle università i soggetti del rapporto di formazione con i medici specializzandi valgano a fondare la legittimazione passiva rispetto alla domanda di adeguata remunerazione prevista dalla normativa comunitaria invocata, e alla domanda di risarcimento danni per l’esclusione del diploma dal regime del reciproco riconoscimento in ambito comunitario, e per la ridotta valutazione dei diplomi medesimi nei concorsi per l’accesso ai profili professionali.

Come in definitiva riconoscono i ricorrenti, sebbene nella sentenza impugnata si parti di legittimazione passiva, la corte territoriale ha ritenuto che la domanda nei confronti delle università fosse infondata, perchè le borse di studio destinate ai medici specializzandi erano a carico di altro soggetto, vale a dire del Fondo sanitario nazionale. Il capo di sentenza impugnato, conseguentemente, è una pronuncia di rigetto nel merito della domanda, proposta nei confronti delle università convenute, di risarcimento dei danni provocati dal ritardo nel dare esecuzione, nell’ordinamento interno, alle direttive comunitarie in materia di riconoscimento reciproco delle specializzazioni.

Così intesa, la statuizione impugnata è immune da censure. La disposizione di legge invocata dai ricorrenti (L. 22 maggio 1978, art. 14, n. 217), autorizzando le modifiche degli statuti delle scuole di specializzazione annesse alle facoltà di medicina e chirurgia delle università, necessarie per l’esecuzione della normativa comunitaria, non conferiva alle università una potestà regolamentare autonoma in materia di remunerazione o di borse di studio per i partecipanti ai corsi di specializzazione, necessaria premessa per il conseguimento di un diploma suscettibile di riconoscimento automatico negli altri Stati della Comunità. La legge nella quale la disposizione è contenuta intendeva dare esecuzione alla direttiva in materia di diritto di stabilimento e libera prestazione dei servizi da parte dei medici cittadini di Stati membri delle Comunità europee, ma non si occupava del finanziamento e della formazione dei medici specialisti presso le università italiane. Nè la circostanza che alle università fosse di regola attribuita dal competente ministero l’organizzazione delle scuole di specializzazione e lo svolgimento dei relativi corsi vale ad identificare in esse i titolari di una potestà normativa che le renderebbe responsabili del ritardo nell’adeguamento del diritto interno alle direttive comunitarie in materia, non disponendo le università di fondi propri da destinare allo scopo, ed operando esse in questo campo come organi del Ministero dell’istruzione. La materia era regolata infatti non già direttamente dalle Università, bensì dapprima dal D.P.R. 10 marzo 1982, n. 162 e poi dalla legge (L. 19 novembre 1990, n. 341).

La corte del merito, dunque, s’è adeguata – ai fini della decisione sulla questione dell’esistenza di un obbligo di remunerazione in capo alle università, che esclusivamente viene qua in considerazione – alla consolidata giurisprudenza di questa corte, secondo la quale, prima del loro recepimento nell’ordinamento interno, avvenuto con la L. n. 428 del 1990 e con il D.Lgs. n. 257 del 1991, le direttive CEE 362/75 e CEE 82/76 non erano applicabili nell’ordinamento interno in considerazione del loro carattere non dettagliato, che – come è stato precisato anche dalla Corte di Giustizia CE, sentenza 25 febbraio 1999, causa C-131/97 e ribadito nella sentenza 3 ottobre 2000 nella causa C/371/97 – non consentiva al giudice nazionale di identificare il debitore tenuto al versamento della remunerazione adeguata., nè l’importo di quest’ultima (Cass. 11 marzo 2008, n. 6427; 6 luglio 2002 n. 9842); e che non è inquadrabile nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, nè rientra fra le ipotesi della cosiddetta parasubordinazione (art. 409 c.p.c., n. 3), l’attività svolta dai medici iscritti a scuole di specializzazione nell’ambito delle strutture nelle quali la specializzazione viene effettuata, non potendosi ravvisare una relazione sinallagmatica di corrispettività fra la suddetta attività e gli emolumenti previsti a favore degli specializzandi (qualificati come borse di studio dal D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257, art. 6, di attuazione della direttiva del Consiglio C.E.E. n. 82/76); la suddetta attività consiste, infatti, in prestazioni finalizzate essenzialmente a consentire la formazione teorica e pratica del medico specializzando e non già a procacciare utilità alle strutture sanitarie nelle quali essa si svolge, per cui gli emolumenti per esso previsti sono sostanzialmente destinati a sopperire alle sue esigenze materiali in relazione all’attuazione dell’impegno a tempo pieno per l’apprendimento e la formazione; nè rileva in contrario il fatto che la citata direttiva C.E.E. abbia previsto, per la formazione a tempo pieno dei medici specializzandi, il riconoscimento di un’adeguata remunerazione, atteso che essa vincola gli Stati membri limitatamente al risultato da raggiungere, e non già in ordine alla forma ed ai mezzi da adottare (Cass. 16 settembre 1995, n. 9789; 19 novembre 2008 n. 27481). Una responsabilità concorrente delle università per i danni in questione, conseguente-mente, non sarebbe ravvisabile nè sotto il profilo del rapporto contrattuale con i medici specializzandi, nè sotto quello di un mancato adeguamento alle direttive comunitarie che possa essere imputato alle università medesime.

Con il terzo mezzo si denuncia l’ultrapetizone in cui la corte territoriale sarebbe incorsa sul punto del carattere non immediatamente esecutivo delle direttive comunitarie e della natura non contrattuale del rapporto tra medici e scuole di specializzazione in assenza di gravame sul punto. Avendo il tribunale affermato l’immediata precettività delle direttive e la natura contrattuale del rapporto tra medici e scuole di specializzazione, e respinto poi la domanda perchè avente ad oggetto esclusivamente il risarcimento dei danni extracontrattuali, gli odierni ricorrenti non avevano censurato i primi due punti, concentrando il gravame sull’interpretazione della domanda dagli stessi proposta in primo grado, al fine di dimostrare che essa includeva anche il pagamento della remunerazione per la partecipazione ai corsi. La corte d’appello, invece, aveva motivato la sua decisione pronunciandosi in senso contrario al tribunale sui primi due punti, ancorchè coperti da giudicato interno. Si chiede quindi se sia configurabile la violazione del giudicato interno in punto di interpretazione di un atto di diritto comunitario derivato e di natura dell’azione esperibile nel caso concreto qualora l’impugnazione investa soltanto l’interpretazione della domanda svolta in prime cure, e quindi la ricognizione della fattispecie astratta al fine della corretta assunzione della fattispecie concreta sotto la fattispecie astratta disciplinata dalle norme applicabili dal primo giudice, senza porre in discussione la natura dell’azione esperibile affermata dal primo giudice, – e se vi sia ultrapetizione da parte del giudice d’appello che, esaminando il motivo vertente sull’interpretazione della domanda, estenda la sua cognizione all’efficacia dell’atto di diritto comunitario per modificare la statuizione di primo grado, pervenendo su tale presupposto a modificare la statuizione in punto di natura dell’azione esperibile, non investito dal gravame.

Ai quesiti deve darsi risposta negativa. Avendo il giudice di primo grado rigettato la domanda attrice di risarcimento danni, sul presupposto che essa non fosse rivolta anche a conseguire l’adempimento dell’obbligazione contrattuale di adeguata remunerazione, la convinzione espressa circa l’ipotetica fondatezza di una tale diversa domanda, qualora di fatto proposta, non poteva fare stato per il giudice d’appello al quale la questione era stata devoluta. Nel prendere in esame (sull’implicito presupposto della fondatezza del motivo di gravame circa l’interpretazione della domanda iniziale) la domanda riproposta davanti a lui, il giudice d’appello si trovava a pronunciare su di essa nel merito per la prima volta; e ciò, mentre escludeva il supposto giudicato interno, comportava per lui il duplice compito – siccome preliminare logicamente alla decisione – di identificare le norme applicabili, e anche di qualificare il rapporto in forza del quale egli avrebbe dovuto, in riforma dell’impugnata sentenza, accogliere la domanda. A tal riguardo, è certamente da escludere che egli potesse incontrare un ostacolo nelle affermazioni della sentenza di primo grado circa la natura immediatamente esecutiva delle direttive comunitarie invocate dagli appellanti, e sulla natura contrattuale del rapporto tra medici e scuole di specializzazione; affermazioni delle quali la prima, di puro diritto, non poteva dar luogo ad un punto autonomo della decisione, e la seconda era ininfluente sulla ratio decidendi del tribunale, siccome seguita da una pronuncia di rigetto della domanda di risarcimento danni (unica domanda proposta, secondo il primo giudice) per prescrizione maturata a norma dell’art. 2947 c.c., comma 1.

Con il quarto mezzo si denuncia, per violazione di principi di diritto comunitario sull’efficacia immediata delle direttive 362/75 e 82/76, la statuizione di rigetto circa l’adeguata remunerazione da riconoscere ai medici specializzandi e, per violazione delle norme sulla responsabilità contrattuale, l’affermazione della responsabilità extracontrattuale dello Stato e di altri enti nazionali per i danni cagionati da violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili. Il mezzo, che nella sua articolazione interna include anche censure di vizi della motivazione, peraltro non seguite dalla sintetica enunciazione del fatto controverso, si conclude con la formulazione di due quesiti di diritto: 1) se l’affermazione della non immediata esecutività delle direttive 362/75 e 82/6 in punto di remunerazione adeguata sia in contrasto con la giurisprudenza della Corte di giustizia; 2) se i modi di formazione del rapporto di formazione tra università e medici specializzandi e la determinazione ex lege dei contenuti del rapporto valgano a ricondurre la responsabilità dello Stato e delle Università sotto il paradigma normativo degli artt. 1173, 1218 e 1321 nei termini delineati dalla sentenza delle Sezioni unite di questa corte 26 giugno 2007 n. 14712.

Premessa l’inammissibilità delle censure per vizi di motivazione, per il mancato rispetto della prescrizione di cui all’art. 366 bis cpv. c.p.c., in ordine alla prima delle due questioni di diritto si osserva quanto segue. Nell’impugnata sentenza, l’affermazione che le direttive comunitarie non sono immediatamente esecutive, pur formulata in apparente continuità con il già ricordato insegnamento di questa corte – secondo il quale, prima del loro recepimento nell’ordinamento interno, avvenuto con la L. n. 428 del 1990 e con il D.Lgs. n. 257 del 1991, le direttive CEE 362/75 e CEE 82/76, che prevedevano l’adeguata remunerazione per la partecipazione alle scuole di specializzazione afferenti alle facoltà di medicina che comportasse lo svolgimento delle attività mediche del servizio in cui si effettuava la specializzazione, non erano applicabili nell’ordinamento interno in considerazione del loro carattere non dettagliato, che, come precisato anche dalla Corte di Giustizia CE, sentenza 25 febbraio 1999, causa C-131/97 ed espressamente ribadito nella sentenza 3 ottobre nella causa C/371/91, non consentiva al giudice nazionale di identificare il debitore tenuto al versamento della remunerazione adeguata, nè l’importo di quest’ultima – mette capo all’affermazione che i danni risarcibili sarebbero solo quelli 1) del conseguimento da parte degli stessi di un diploma escluso dall’automatico riconoscimento in ambito comunitario e 2) alla diversa e minore valutazione del diploma conseguito sul piano interno ai fini dei concorsi per l’accesso ai profili professionali.

Questa puntualizzazione restrittiva si pone in contrasto con il principio affermato dalle citate sentenze della Corte di Giustizia CE, per le quali l’obbligo di retribuire in maniera adeguata i periodi di formazione dei medici specialisti – previsto, per quanto concerne la formazione a tempo pieno, all’art. 2, n. 1, lett. c), nonchè al punto 1 dell’allegato della direttiva 75/363, concernente il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative per le attività di medico, come modificata dalla direttiva 82/76, e, per quanto concerne la formazione a tempo ridotto, all’art. 3, n. 2, nonchè al punto 2 dell’allegato della detta direttiva – è incondizionato e sufficientemente preciso nella parte in cui richiede, affinchè un medico specialista possa avvalersi del sistema di reciproco riconoscimento istituito dalla direttiva 75/362, che, quando la sua formazione è effettuata a tempo pieno o a tempo ridotto in conformità di quanto prescritto dalle direttive, essa sia retribuita.

Al tempo stesso, la predetta affermazione dell’impugnata sentenza si pone in contrasto con l’insegnamento di questa corte, per il quale la mancata trasposizione delle direttive fa sorgere, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento del danno cagionato per il ritardato adempimento, consistente nella perdita della chance di ottenere i benefici resi possibili da una tempestiva attuazione delle direttive medesime: tra tali benefici, infatti, devono comprendersi anche quelli essenziali per consentire un percorso formativo scevro, almeno in parte, da preoccupazioni esistenziali (Cass. 11 marzo 2008, n. 6427; S.U. 17 aprile 2009 n. 9147).

In altre parole, le direttive in questione, se non erano sufficientemente dettagliate per identificare, nell’ordinamento interno, il debitore e l’ammontare stesso dell’adeguata remunerazione, anteriormente al loro recepimento nell’ordinamento interno con la L. n. 428 del 1990 e con il D.Lgs. n. 257 del 1991, lo erano,per altro verso, abbastanza da dare alla pretesa del medico specializzando, di attuazione delle direttive nell’ordinamento interno, la consistenza di un diritto soggettivo, dalla cui lesione sorge l’obbligo di risarcimento di tutti i danni che ne sono conseguiti, tra i quali sono compresi quelli consistiti nella mancata percezione dell’adeguata retribuzione. Al primo quesito deve pertanto darsi risposta affermativa.

I criteri di valutazione della conformità al diritto comunitario del diritto interno, in tema di congruità della riparazione del pregiudizio subito dal singolo per il fatto di non aver acquistato la titolarità di un diritto in conseguenza della violazione dell’ordinamento comunitario, sono stati precisati dalla Corte di Giustizia CE nella sentenza 5 marzo 1996 nelle cause riunite 46/93 e 48/93. In base a quei criteri, e per quel che qui rileva, per raggiungere il risultato imposto dall’ordinamento comunitario con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, si deve riconoscere al danneggiato un credito di natura indennitaria alla riparazione del pregiudizio subito per effetto del c.d. fatto illecito del legislatore, rivolto, in presenza del requisito di gravita della violazione ma senza che operino i criteri di imputabilità per dolo o colpa, a compensare l’avente diritto della perdita subita in conseguenza del ritardo oggettivamente apprezzabile, e avente perciò natura di credito di valore, rappresentando il danaro soltanto l’espressione monetaria dell’utilità sottratta al patrimonio, restando assoggettata la pretesa risarcitoria, in quanto diretta all’adempimento di un’obbligazione ex lege riconducibile all’area della responsabilità contrattuale, all’ordinario termine decennale di prescrizione (Cass. Sez. un. 17 aprile 2009 n. 9147). Deve pertanto accogliersi anche il secondo quesito di diritto formulato distintamente con il mezzo in esame, in ragione del carattere di quasi-contratto della fonte dell’obbligazione in esame.

Con riguardo al caso qui esaminato, tra le conseguenze pregiudizievoli deve certamente annoverarsi – oltre all’inidoneità del diploma di specializzazione al riconoscimento negli altri stati membri, e al suo minor valore sul piano interno ai fini dei concorsi per l’accesso ai profili professionali – anche la mancata percezione della remunerazione adeguata da parte del medico specializzando. Tale affermazione si muove sul piano della responsabilità dello Stato nei confronti del soggetto privato, pregiudicato dal tardivo recepimento delle direttive comunitarie. Essa non comporta il riconoscimento del diritto a conseguire la remunerazione prevista dal D.Lgs. n. 256 del 1993, per i medici ammessi nelle scuole di specializzazione negli anni 1983 1991, giacchè la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11, limitando l’attribuzione retroattiva di tale trattamento ai soli destinatari delle sentenze passate in giudicato del tribunale amministrativo regionale del Lazio ivi indicate, non può trovare applicazione ad altri casi. Peraltro, tenendo conto del principio affermato dalla Corte di giustizia nelle sentenze 25 febbraio 1999 in causa C-131/97, e 3 ottobre 2000 in causa 371/97, per il quale l’applicazione retroattiva e completai delle misure di attuazione di una direttiva permette di rimediare alle conseguenze pregiudizievoli della tardiva attuazione della direttiva medesima, e sarebbe a tal fine sufficiente, a meno che i beneficiari non dimostrino l’esistenza di danni ulteriori da essi eventualmente subiti per non aver potuto fruire a suo tempo dei vantaggi pecuniari garantiti dalla direttiva e che dovrebbero quindi essere anch’essi risarciti, è consentito al giudice di merito, che si trovi nella necessità di provvedere ad una liquidazione equitativa del danno, di assumere a parametro della liquidazione i criteri dettati dal legislatore per i casi simili, desumibili dall’esame della disciplina citata.

Il quinto mezzo d’impugnazione è internamente articolato. Una prima censura verte sulla violazione di norme di diritto comunitario, ravvisabile nel diniego dell’immediata esecutività delle direttive comunitarie in punto di riconoscimento dei diplomi e di determinati punteggi. I ricorrenti precisano che la censura intende riproporre il tema della natura della responsabilità anche sotto questi due profili, oltre che sotto il profilo dell’adeguata remunerazione. Una seconda censura verte sulla violazione di norme di diritto, per avere la corte del merito ritenuto proponibile la sola azione di responsabilità extracontrattuale, e opponibile da parte dello Stato un termine di prescrizione, previsto per l’illecito extracontrattuale, più breve di quello ordinario. Entrambe le censure sono assorbite dall’accoglimento del mezzo precedente.

La successiva censura attiene all’individuazione del dies a quo della decorrenza del termine di prescrizione. Si denuncia l’erroneità della statuizione della corte territoriale, che ha identificato l’inizio della decorrenza della prescrizione con la data di entrata in vigore D.Lgs. n. 257 del 1991, di attuazione della direttiva comunitaria n. 82/76, laddove ad avviso dei ricorrenti la direttiva non sarebbe stata ancora attuata.

Anche questa censura è assorbita dalla cassazione della sentenza in punto di natura dell’azione indennitaria esperibile, che non può essere identificata con l’azione aquiliana del diritto interno, basata sull’art. 2043 c.c., e che ha a suo fondamento l’inadempimento verificatosi nell’ordinamento comunitario. Tenuto conto di ciò, la data di attuazione della direttiva comunitaria nell’ordinamento interno è irrilevante, giacchè il fondamento della risarcibilità del danno postula solo che quest’ultimo si sia verificato dopo la scadenza del termine ultimo prescritto dalla norma comunitaria per il recepimento della direttiva nell’ordinamento interno; data che era, per le direttive nn. 362 e 362/195 del Consiglio il 20 dicembre 1976, e per la direttiva 82/76/CEE il 31 dicembre 1982, secondo quanto ribadito nell’allegato 3, parte B, della direttiva 5 aprile 1993 n. 93/16/CEE. Nella concreta fattispecie di causa, il danno di cui si discute, maturato con il conseguimento di un diploma di specializzazione non conforme alle prescrizioni comunitarie, era posteriore a quelle date, sicchè è con esclusivo riferimento alla data del danno che deve essere riconsiderata la questione del dies a quo di decorrenza della prescrizione.

Assorbita, infine, è anche l’ultima censura, concernente la regolarità della produzione in giudizio di prove documentali attinenti al tema dell’interruzione, dovendo questo tema essere riesaminato in relazione alla durata decennale della prescrizione, e ponendosi il problema della necessità dell’interruzione (e conseguentemente della prova) – in tale diverso quadro – per i soli casi in cui tra la data del conseguimento del diploma e la proposizione della domanda giudiziale fossero passati più di dieci anni.

In conclusione, l’impugnata sentenza deve essere cassata in relazione al quarto motivo, in base ai seguenti principi di diritto:

La tardiva trasposizione da parte del legislatore italiano nel termine prescritto delle direttive comunitarie n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, in tema di retribuzione della formazione dei medici specializzandi comporta, conformemente ai principi più volte affermati dalla Corte di Giustizia, il diritto degli interessati al risarcimento dei danni, tra i quali devono comprendersi quelli conseguenti all’inidoneità del diploma di specializzazione al riconoscimento negli altri stati membri, e al suo minor valore sul piano interno ai fini dei concorsi per l’accesso ai profili professionali, e la mancala percezione della remunerazione adeguata da parte de, medico specializzando.

Il diritto al risarcimento dei danni derivati dalla tardiva trasposizione delle direttive comunitarie nel diritto interno va ricondotto indipendentemente dalla sussistenza del dolo o della colpa, allo schema della responsabilità per inadempimento dell’obbligazione “ex lege” dello Stato, di natura indennitaria per attività non antigiuridica, dovendosi ritenere che la condotta dello Stato inadempiente sia suscettibile di essere qualificata come antigiuridica nell’ordinamento comunitario ma non anche alla stregua dell’ordinamento interno; ne consegue che il relativo risarcimento, soggetto all’ordinario termine di prescrizione decennale, deve essere determinato, con i mezzi offerti dall’ordinamento interno, in modo da assicurare al danneggiato un’idonea compensazione della perdita subita in ragione del ritardo oggettivamente apprezzabile.

La causa deve essere quindi rinviata alla medesima corte d’appello perchè, in altra composizione, riesamini, anche ai fini del regolamento delle spese del presente giudizio di legittimità, le domande proposte dagli odierni ricorrenti, di risarcimento dei danni cagionati dalla tardiva trasposizione delle direttive comunitarie, al fine di verificare la fondatezza dell’eccezione di prescrizione, in relazione al termine decennale; applicabile alla fattispecie, e, in caso negativo, provveda a liquidare i danni medesimi.

A tal fine, poichè un’applicazione retroattiva, regolare e completa delle misure di attuazione della direttiva è da ritenere sufficiente a garantire l’adeguatezza del risarcimento del danno subito, a meno che i beneficiari non abbiano dimostrato l’esistenza di danni ulteriori da essi eventualmente subiti per non aver potuto fruire a suo tempo dei vantaggi pecuniari garantiti dalla direttiva, il giudice del rinvio, nel riesaminare le domande di risarcimento, potrà utilizzare, se ciò occorra per la liquidazione del danno da mancata percezione dell’adeguata retribuzione, i criteri indicati per casi simili dalla L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11.

P.Q.M.

Rigetta i primi tre motivi, accoglie il quarto motivo e dichiara assorbito il quinto motivo di ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Roma in altra composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima della Corte Suprema di Cassazione, il 10 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2010

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