Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 5841 del 09/03/2018


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Cassazione civile, sez. I, 09/03/2018, (ud. 14/11/2017, dep.09/03/2018),  n. 5841

Fatto

1. Con atto di citazione notificato il 21 gennaio 2004 il Comune di Mottola conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Taranto, la S.A.D. s.n.c., nonchè i soci M.N.V., + ALTRI OMESSI, chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni conseguenti al crollo del fabbricato comunale oggetto del contratto di appalto intercorso tra le parti, risolto per inadempimento dell’impresa appaltante, all’esito di un contenzioso conclusosi con la decisione di questa Corte n. 7773/2001, che accoglieva la domanda dell’ente.

Il Tribunale adito, con sentenza n. 2241/2006 – per quel che ancora rileva – accoglieva parzialmente la domanda del Comune di Mottola nei confronti della società e dei singoli soci, condannandoli al pagamento, a titolo di risarcimento danni, della somma di Euro 1.217.433,36, oltre interessi legali e spese del giudizio.

2. La Corte d’appello di Lecce, con sentenza n. 433/2012, depositata il 9 luglio 2012, rigettava l’appello proposto dalla S.A.D. e dai soci, confermando in toto l’impugnata sentenza. Il giudice di seconde cure riteneva che il giudicato sull’an coprisse tutte le questioni relative alla responsabilità dell’appaltante, che fosse da escludere la compensatio lucri cum damno, dedotta dagli appellanti, per avere il Comune di Mottola – in seguito al crollo – utilizzato la vasta area del preesistente edificio come parcheggio, e che la misura del danno, determinata dal Tribunale, fosse pienamente condivisibile.

3. Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso la S.A.D. s.n.c., nonchè i soci M.N.V., + ALTRI OMESSI, affidato a sei motivi. Il Comune di Mottola ha replicato con controricorso.

4. Le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, la S.A.D. s.n.c. ed i soci denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 1227 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

1.1. Si dolgono i ricorrenti del fatto che la Corte d’appello non abbia tenuto conto della circostanza, da essi evidenziata in giudizio, che – successivamente al crollo dell’edificio oggetto del contratto di appalto stipulato tra la SAD s.n.c. ed il Comune di Mottola – l’area occupata dal fabbricato era stata adibita dall’ente pubblico a parcheggio a pagamento, “in modo da ricavarne apprezzabili vantaggi economici”. Ne conseguirebbe che la determinazione del danno da risarcire al Comune sarebbe stata effettuata dalla Corte territoriale prescindendo dall’operatività del principio della “compensatio lucri cum damno”, in palese violazione dell’art. 1223 c.c..

1.2. La censura non può essere accolta.

1.2.1. Va osservato, infatti, che – pure a voler considerare assodato, sulla base della sentenza di appello, che l’area in questione fosse stata adibita a parcheggio a pagamento, e non gratuito, circostanza peraltro contestata dall’ente pubblico (p. 12 del controricorso) – sta di fatto che, come esattamente rilevato dalla Corte d’appello, l’effetto della “compensatio lucri cum damno”, che si riconnette al criterio di determinazione del risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1223 c.c., si verifica esclusivamente allorchè il vantaggio ed il danno siano entrambi conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento, quali suoi effetti contrapposti, e non quando il fatto generatore del pregiudizio patrimoniale subito dal creditore sia diverso da quello che invece gli abbia procurato un vantaggio (Cass. Sez. U., 25/11/2008, n. 28056; Cass., 02/03/2010, n. 4950; Cass., 20/05/2013, n. 12248). Il principio in parola non trova, in particolare, applicazione nelle ipotesi in cui il vantaggio patrimoniale non trovi la sua causa immediata e diretta nell’illecito, generatore del danno, costituendone questo soltanto l’occasione (Cass. 12/05/2003, n. 7269).

1.2.2. Ebbene, è evidente che, nel caso concreto, l’eventuale arricchimento del Comune non deriva in via immediata e diretta dall’inadempimento dell’impresa, che ha provocato il crollo dell’edificio, rappresentando tale evento solo l’occasione – ovvero, come ha osservato il P.G., “un mero antecedente fattuale” – del successivo vantaggio economico dell’ente, conseguendo questo all’utilizzazione del suolo che il Comune ha fatto, in forza del suo diritto di proprietà sull’immobile.

1.3. Per tali ragioni, dunque, il motivo deve essere rigettato.

2. Con il secondo, terzo e quarto motivo di ricorso, la S.A.D. s.n.c. ed i soci denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 278,112,115 e 116 c.p.c., artt. 1223,1227 e 2033 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

2.1. Gli istanti si dolgono del fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto che il giudicato formatosi sull’an precludesse ogni valutazione in ordine all’effettiva portata dannosa dell’evento accertato in tale sede, ed – in particolare – se il crollo fosse stato, o meno, totale e, quindi, se la parte di edificio non crollata fosse ancora utilizzabile da pare del Comune, ai fini di determinare con esattezza la sussistenza e l’entità del danno risarcibile. E sotto tale profilo, la sentenza impugnata – a parere dei ricorrenti – sarebbe, altresì, incorsa nel vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c.. Tale decisione si sarebbe, inoltre, posta in contrasto con il disposto degli artt. 115 e 116 c.p.c., avendo la Corte d’appello fondato la sua decisione su una mancata o inadeguata valutazione del materiale probatorio in atti (fotografie e c.t.u.), senza neppure accertare il valore dell’immobile prima del sinistro.

Di conseguenza, la Corte avrebbe altresì erroneamente disposto la restituzione – in violazione dell’art. 2033 c.c. – di quanto corrisposto al contraente inadempiente a titolo di corrispettivo dell’appalto, senza tenere conto che, quanto meno sulle parti non crollate, la società appaltatrice “aveva già svolto i lavori di consolidamento”.

2.2. Le doglianze sono inammissibili.

2.2.1. Va rilevato, infatti, che – contrariamente all’assunto dei ricorrenti – la Corte territoriale ha accertato la sussistenza in concreto del danno risarcibile, non solo sulla base delle decisioni emesse sull’an nell’altro giudizio, ma altresì sulla scorta degli elementi istruttori (riproduzioni fotografiche del “prima” e del “dopo” sinistro, deduzioni del c.t.u.), dai quali era emersa la totale inutilizzabilità dei “monconi” dell’edificio principale, esclusa la palestra costituente un “manufatto a sè stante il cui valore è stato escluso dal computo del risarcimento”, ed ha condiviso la determinazione del quantum operata complessivamente dal primo giudice, sulla base della stessa c.t.u. “completa di chiarimenti”.

Di conseguenza, tenuto conto dell’intervenuta risoluzione giudiziale del contratto, il giudice di appello – considerata la totale inutilizzabilità della parte di edificio non crollata – ha correttamente disposto le restituzione alla stazione appaltante delle somme corrisposte, a titolo di sensi dell’art. 2033 c.c..

2.2.2. Orbene, a fronte di tale ricostruzione fattuale della vicenda, le doglianze in doglianze in esame si traducono nella richiesta di rivisitazione del merito degli stessi elementi di prova sottoposti all’esame della corte territoriale, e riprodotti nel ricorso certamente inammissibile in sede di legittimità (Cass., 07/04/2017, n. 9097; Cass., 06/04/2011, n. 7921). Sotto tale profilo, va altresì soggiunto che – secondo l’insegnamento di questa Corte – anche la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità, non certamente in riferimento all’apprezzamento delle risultanze probatorie operato dal giudice di merito, ma solo sotto due profili: qualora il medesimo, esercitando il suo potere discrezionale nella scelta e valutazione degli elementi probatori, ometta di valutare le risultanze di cui la parte abbia esplicitamente dedotto la decisività, salvo escluderne in concreto, motivando sul punto, la rilevanza; ovvero quando egli ponga alla base della decisione fatti che erroneamente ritenga notori o la sua scienza personale (Cass., 11/10/2016, n. 20382).

Nè l’una nè l’altra evenienza, peraltro, risultano nel caso di specie dall’esame dell’impugnata sentenza.

2.3. I motivi vanno, di conseguenza, disattesi.

3. Con il quinto motivo di ricorso, la S.A.D. ed i soci denunciano la violazione e falsa applicazione dell’art. 1203 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

3.1. Lamentano i ricorrenti che la Corte d’appello abbia erroneamente posto a loro carico il compenso corrisposto al tecnico progettista dei lavori affidati alla SAD con il contratto di appalto, successivamente risolto, laddove la pattuizione intercorsa tra l’ente ed il professionista sarebbe stata dichiarata nulla dal Tribunale di Taranto, con sentenza 136/2004, il cui mancato passaggio in giudicato, d’altro canto, non rileverebbe nel caso concreto, considerato che detta decisione non sarebbe stata contestata dall’ente pubblico; per cui la stessa ben avrebbe dovuto essere valutata dalla Corte d’appello, ai sensi dell’art. 115 c.p.c..

Deducono, inoltre, gli istanti che, nella specie, non sarebbe neppure configurabile in capo alla S.A.D. s.n.c. ed ai soci contrariamente a quanto affermato dal giudice di prime cure – la possibilità di surrogarsi nel credito soddisfatto dal Comune ex art. 1203 c.c., n. 3, nel caso in cui il pagamento in questione non fosse – in ipotesi – dovuto dal Comune di Mottola. Ciò in quanto la surroga postulerebbe che colui che paga il debito altrui sia tenuto all’adempimento dell’obbligo, con altri o per altri, laddove – nel caso concreto – il presunto debito del Comune di Mottola nei confronti del professionista non sussisterebbe, per effetto della menzionata sentenza n. 136/2004.

3.2. Il motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

3.2.1. Deve, anzitutto, osservarsi che la prova del passaggio in giudicato della sentenza resa in altro giudizio deve essere fornita, non soltanto producendo la sentenza stessa, ma anche corredandola della idonea certificazione ex art. 124 disp. att. c.p.c., dalla quale risulti che la pronuncia non è soggetta ad impugnazione, non potendosi ritenere nè che la mancata contestazione di controparte sull’affermato passaggio in giudicato significhi ammissione della circostanza, nè che sia onere della controparte medesima dimostrare l’impugnabilità della sentenza (Cass., 29/08/2013, n. 19883).

Sotto questo primo profilo, concernente la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., il mezzo è, pertanto, infondato.

3.2.2. Per quanto concerne, poi, la questione relativa alla surroga ex art. 1203 c.c., va rilevato che essa si palesa estranea al decisum, non essendosi la Corte di appello in alcun modo pronunciata in merito, e non avendo i ricorrenti riprodotto nel ricorso – nel rispetto del principio di autosufficienza – il motivo di gravame che affermano di avere proposto (p. 31 del ricorso). Per cui, sotto tale profilo la censura – peraltro neppure proposta come omessa pronuncia, bensì come violazione dell’art. 1203 c.c. – è da reputarsi inammissibile.

4. Con il sesto motivo di ricorso, la S.A.D. s.n.c. ed i soci denunciano “l’ingiustizia delle condanne alle spese” e “l’illegittimità derivata, contraddittorietà ed illogicità” della decisione sulle spese dei diversi gradi del giudizio.

4.1. Gli istanti lamentano l’eccessività della liquidazione delle competenze di primo e secondo grado, non commisurate alla “pochezza e superficialità degli argomenti spesi nelle due pronunzie”, e “non calibrate al piano degli accadimenti”.

4.2. Il mezzo è inammissibile.

4.2.1. In sede di ricorso per cassazione, la determinazione, del giudice di merito, relativa alla liquidazione delle spese processuali può essere, invero, censurata solo attraverso la specificazione delle voci in ordine alle quali lo stesso giudice sarebbe incorso in errore, sicchè è generico il mero riferimento a prestazioni, che sarebbero state riconosciute in eccesso o in violazione della tariffa massima, senza la puntuale esposizione delle voci in concreto liquidate dal giudice, con derivante inammissibilità dell’inerente motivo (Cass. 20/05/2016, n. 10409; Cass. 27/10/2005, n. 20904).

4.2.2. Il motivo non può, pertanto, trovare accoglimento.

5. Per tutte le ragioni esposte, il ricorso per cassazione deve, di conseguenza, essere integralmente rigettato, con condanna dei soccombenti alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti, in favore del controricorrente, alle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2018

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